MIHÁLY BABITS LIBRO DI GIONA Versione dall’ungherese di Paolo Castruccio
APPUNTI INFORMATIVI Mihály Babits (1883-1941), il maggior poeta ungherese tra le due guerre mondiali, nacque a Szekszárd in Pannonia, la terra di vasta tradizione romana e cattolica dell’Ungheria. Il culto della tradizione (spesso anche sotto forma di rivolta contro la deformazione retriva della medesima) rimase caratteristico di tutta la sua produzione.l L’ideale poetico del Babits era il linguaggio puro di János Arany, il grande poeta ungherese del secolo passato, e, dal punto di vista stilistico, il pathos languido, intellettuale e ricco di colore della lirica inglese. Egli si addestra sempre su ottimi modelli, traduce l’intera Divina Commedia, gli inni dei più eminenti poeti latini medioevali, alcune tragedie di Sofocle, La Tempesta di Shakespeare, l’Ifigenia di Goethe, le poesie di Baudelaire ecc. Fondamentalmente, però, rimane fedele ai primi due ideali della sua gioventù sino al Libro di Giona, il suo ultimo grande poema. Il consapevole cattolicesimo del poeta transdanubiano si manifesta anzitutto nel suo continuo rompere l’accerchiamento imposto dalla tirannia dell’istante, una tirannia che secondo la diagnosi del filosofo Karl Jaspers caratterizza la moderna concezione di vita. Questa rottura nel caso del Babits non è una evasione dalla realtà, lo enuncia egli stesso nel suo Credo personale. «Sono cattolico, cioè credo nella verità ch’è sopra le nazioni e parla a tutto il mondo. In altre parole: credo nella verità che è al di là della politica e dei bisogni locali e momentanei della nostra vita. Credo nel soverchio. In ciò che è al di là della famiglia e della razza. In ciò che si trova oltre le pareti imbiancate. In fondo si può vivere anche tra pareti imbiancate, ma questa non è una vita cattolica. La parete difende, ma anche chiude. Io voglio vedere immagini sulle pareti che di nuovo schiudano per me il mondo. Non sono un puritano: alla salvezza della mia anima non è sufficiente ciò che è necessario, cioè che è qui e adesso necessario. Credo nell’arte che mi rivela il mondo, che mi catapulta dal punto e dall’istante, e che mi rende cattolico e cittadino del cosmo» (Dal volume Isola e mare). La correlazione tra l’esperienza istantanea e il pensiero discorsivo costituisce per lui un costante problema umano e poetico. Lo esprime con forza suggestiva in una poesia scritta in occasione della morte sul campo di battaglia del filosofo heidelberghiano Emil Lask (Alla morte di un filosofo 1917), un pensatore molto caro al poeta ungherese, la cui teoria del giudizio e delle categorie sarebbe stata destinata a preparare una nuova metafisica. La ricerca della correlazione tra l’Erlebnis e il pensiero sul piano stilistico ha indotto Babits al rinnovamento della frase poetica. Infatti, nella sua poesia la costruzione della proposizione ha un ruolo dominante: l’atmosfera, la lentezza o la rapidità, i volteggiamenti, la sottigliezza dei periodi babitsiani nascondono una tensione intellettuale e una incredibile forza d’espressione. Questi periodi sono elaborati con una maestria eguale a quella dei parnassiani e dei sonettisti inglesi. Babits fu un grande sperimentatore nella poesia (oltre che in tutte le forme tradizionali, scriveva anche in versi sciolti), ma lo era anche nella narrativa. In questo campo sperimentò nuovi problemi. Ne Il califfo della cicogna (1916) presenta il problema della schizofrenia di fondo sociale. Il protagonista, un giovane di famiglia ricca, in sogno vive la vita misera di un povero di bassa origine, finché il dualismo della realtà e del sogno diventa indistinguibile e lo spinge al suicidio. Il romanzo Il figlio di Virgilio Timàr (1922) indaga il problema se nella vita il primato spetti all’educazione cristiana o alle proprietà ereditarie. Pilota Elisa (1933) prevede la deprimente prospettiva della donna nell’epoca della gara all’armamento e delle guerre totali, scatenate tra le massime potenze del mondo.2 Lo scrittore eccelle inoltre come saggista. La storia della letteratura europea (193435) è una ricca sintesi delle sue avventure spirituali, vissute nel campo della letteratura. Il Libro di Giona, originariamente scritto in giambi a rima baciata, è il testamento spirituale del poeta, ultimato sul suo letto di morte, alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale. La prima parte del poema fu scritta nell’autunno del 1937. Poco dopo Babits venne operato di cancro alla gola, ma egli, dopo l’operazione, all’inizio del 1938 continuò la stesura del poema che finì nel mese di agosto dello stesso anno, aggiungendovi nel 1939 la personalissima Preghiera di Giona. Il poema intero con la Preghiera di Giona fu pubblicato in un libro a parte nel 1940, e ripubblicato nell’edizione delle opere scelte in due volumi, editi nel 1959 a Budapest.
Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
Il libro di Giona del Vecchio Testamento (scritto, forse, nel 3. secolo a.C.) è un vibrante ammonimento rivolto al popolo d’Israele, con molti riferimenti alle situazioni allora attuali, enunciati col pretesto del racconto di un’avventura fittizia del profeta vissuto in un periodo molto anteriore. Il racconto anche nelle epoche successive e anche in diverse elaborazioni ed attualizzazioni mantenne la sua carica etica per via del contenuto plurivalente dell’originale. Infatti, il soggetto viene ripreso sotto diverse angolazioni da Pru-denzio, Pseudo-Tertulliano, Romanos il Melodo, Efraim il Siro, Marbode di Rennes, nonché dall’anonimo poeta medievale inglese del famoso Patience che concepisce la storia di Giona come un exemplum per illustrare che la base delle beatitudini del discorso della montagna è il self-control (la pazienza), e, nell’epoca della Riforma, dall’umanista Sebastiano Castellione, il quale scopre nel medesimo racconto la parola divina contro la predestinazione alla perdizione. Nella letteratura contemporanea il tema serve per esporre i più scottanti problemi umani, individuali e sociali. Incontriamo il soggetto nelle commedie dello scozzese J. Bridie, del francese E. Berreby, degli inglesi L. Housman, W. Mankowitz, degli americani P. Goodman, T.J. Spencer. Ne fecero dramma, tra gli altri, i tedeschi A. Zweig, G. Rutenborn e H. Flügel, tragedia il rumeno M. Sorescu. Fra i prosatori che trasformarono la storia del profeta in romanzo spiccano il norvegese H.B. Mahrt, il danese H. Tandrup, il francese A. Comus e il tedesco S. Andres. Malgrado la grande quantità delle rielaborazioni del tema, non se ne trovano due che siano simili. Per A. Zweig, ad es. Ninive è il simbolo della Germania nazista degli anni trenta, la quale — secondo l’autore — avrebbe ancora avuto tempo per ripensamento e pentimento. Nella tragedia di Sorescu, invece, il Giona degli anni sessanta è un pescatore del Mar Nero, inghiottito dal grande Pesce dello Stato Staliniano. Con molta difficoltà egli evade dalla sua prigionia ma non riesce a sbucare all’aria aperta, trovandosi dentro un Pesce ancora più enorme e soffocante: l’onnipresente Stato comunista. Nel celebre romanzo di Stefan Andres (Der Mann im Fisch, 1963) Giona incontra nella Balena (cioè nel non-tempo) la sua anima gemella, un ex-pastore protestante che, similmente al profeta dell’A.T., ha cercato di sottrarsi all’esaltazione ossessiva dell’epoca in cui viviamo, e tra i due s’inizia un dialogo estremamente interessante. Nella lirica moderna il tema rinasce qualche volta in circostanze profondamente tragiche. (Pensiamo anzitutto al poema scritto nel carcere da D. Bonhoeffer, il celebre teologo protestante, assassinato dai nazisti, che scelse Giona come modello per sacrificarsi e per salvare le vite umane sulla nave che sta per affondare).3 Ad eccezione di Babits, però, nessun poeta contemporaneo si ispira all’intero racconto per esprimere la lotta intima, di un umanista di oggi tra pensieri e sentimenti contrastanti. Babits, fedele alla tradizione del libero rimodellamento del contenuto biblico, apporta delle modifiche al racconto originale. La sua Ninive ad es., non si converte sotto l’effetto della minaccia del messaggero di Dio. I cittadini in parte rimangono soltanto perplessi e sono pochi quelli che s’incamminano sulla via del pentimento. Il poeta così rende ancora più difficile il problema logico degli esegeti impegnati per dei secoli nella spiegazione del com’è possibile che Dio affidi un messaggio falso al suo profeta.4 Tuttavia, mediante questa ed altre modifiche egli riesce ad esprimere in un modo conforme alla realtà di oggi le reazioni, le angustie, l’odio insano, la miopia morale e le prostrazioni dell’uomo moderno, nonché il suo compiacimento morboso manifestantesi in un conteggio a rovescio con cui egli attende il momento dello sterminio totale dell’avversario. Il grandioso poema, impregnato anche dello humour sereno dei santi, è il testamento simbolico della vocazione e della responsabilità del poeta cattolico dei nostri giorni: è impossibile fuggire alla condizione di essere eletto da Dio, anche se comprendiamo ben poco del suo lungimirante piano storico, e ognuno di noi è responsabile della sorte del suo prossimo e del suo lontano, o addirittura astioso fratello. Attila Fàj Note 1
I titoli (tradotti) delle sue maggiori opere poetiche e le date delle prime edizioni di esse sono: Foglie dalla corona di Iride (1909), Principe forse arriva anche l’inverno (1911), Recitativo (1916), La valle dell’inquietudine (1920), Laodameia (1921), Isola e mare (1925), Gli dei muoiono, l’uomo vive (1929), In gara con gli anni (1933), Tutte le poesie (1937), Libro di Giona (1937-39), Poesie postume (1942). 2 I romanzi del Babits tradotti in italiano sono: Il califfo della cicogna (Milano 1934, ed. Genio), Il figlio di Virgilio Timár (Milano 1939, ed. Corbaccio), I figli della morte (Milano 1943, ed. Garzanti), Sei jugeri di rose (Roma 1944. «Biblioteca De Carlo» n. 4). Per la bibliografia delle opere babitsiane tradotte in italiano e dei saggi italiani sul poeta ungherese, vedi Laszló Pálinkás: Avviamento allo studio della lingua e letteratura ungherese (Bibliografìa italiana), Napoli 1970, ed. Cymba. 3 Sul tema-Giona nella letteratura mondiale cfr. A. Fáj: A Jónás-téma a világirodalomban (Il tema-Giona nella letteratura mondiale) Roma, 1977. 4 La soluzione del problema riacutizzato nel poema ungherese si trova nella cosiddetta logica direzionale a quattro valori, elaborata recentemente dal filosofo polacco L.S. Rogowski. Cfr. A. Fáj : «The Stoic Features of the ‘Book of Jonah’» in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli a. 34 (N.S. XXIV) (1974) n. 3. pp. 309-345. 2
Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
ELSŐ RÉSZ
PRIMA PARTE
Mondta az Ur Jónásnak: »Kelj fel és menj Ninivébe, kiálts a Város ellen! Nagy ott a baj, megáradt a gonoszság: szennyes habjai szent lábamat mossák.« Szólt, és fölkele Jónás, hogy szaladna, de nem hová a Mennybeli akarta, mivel rühellé a prófétaságot, félt a várostól, sivatagba vágyott, ahol magány és békesség övezze, semhogy a feddett népség megkövezze. Kerülvén azért Jáfó kikötőbe hajóra szállott, mely elvinné őtet Tarsis felé, s megadta a hajóbért, futván az Urat, mint tolvaj a hóhért!
Disse a Giona il Signore: «Alzati dunque, e va’ a Ninive, inveisci contro l’empia Città! Ivi regna tristizia, il male è dilagante: le sue schiume lambiscono le mie sacrate piante» S’alzò Giona correndo, al suon di quella voce, ma non dove Dio volle mosse il passo veloce, che pestifero gli era, per vero, il profetare, temeva la città, nel deserto abitare bramava, ove silenzio e pace lo attorniasse prima che la plebaglia ripresa il lapidasse. Pervenuto, pertanto, di Giaffa nella rada s’imbarcò sulla nave, che gli facesse strada fino a Tarso, e pagò il prezzo del percorso, volgendo a Dio, siccome il ladro al boja, il dorso.
Az Ur azonban szerzett nagy szelet és elbocsátá a tenger felett s kelt a tengernek sok nagy tornya akkor ingó és hulló kék hullámfalakból, mintha egy uj Ninive kelne-hullna, kelne s percenként összedőlne ujra. Forgott a hajó, kettétört az árboc, deszkaszál nem maradt hü deszkaszálhoz.
Il Signore, però, compose un forte vento e lo inviò, di sùbito, sul mare turbolento e allor da’ glauchi flutti s’alzar torri possenti dalle muraglie d’acqua traballanti e frementi, quasi una nova Ninive sorgesse e sprofondasse s’ergesse, e in un baleno nuovamente crollasse. Si rivoltò la nave, l’albero si spezzò, la trave dalla trave si disgiunse e sfasciò.
A görcs hajósok, eszüket veszitve, minden terhet bedobtak már a vizbe, s mig arcukba csapott a szörnyü sóslé, kiki a maga istenét üvölté. Jónás mindent kiadva, elcsigázva, betámolygott a fedélközi házba, le a lépcsőkön, a hajófenékre, s ott zuhant bódult félálomba végre guritván őt az ázott, rengő padlat.
I rozzi marinai, sconvolti, all’impazzata gittarono ne’ flutti ogni merce stivata, e mentre l’aspro sale feriva il loro volto urlavano, ciascuno al proprio dio rivolto. Giona, lordo di vomito, stanco di star all’erta barcollò nella sua casa sottocoperta, cadde giù per le scale nella stiva profonda ove già penetrava lo strosciare dell’onda; colà piombò in un sonno confuso ed ansimante scosso dal pavimento umido e traballante.
S igy lőn hogy a kormányos belebotlott, a deszkákat vizsgálva, s rája szólt: »Mi dolog ez, hé, te nagy alható? Ki vagy te? Kelj föl, s kiálts a keserves istenedhez, talán ő megkegyelmez! Vagy istened sincs? Szólj! Miféle nemzet szült? Nem te hoztad ránk a veszedelmet? Mely város vall polgárának, büdös? S e fene vizen át velünk mivégre jössz?
Or accadde che, a un tratto, il rude timoniere incespicando in lui, lo aggredisse con fiere parole, in cotal guisa: «Che fai qui, dormiglione? Chi sei? Urla al nefasto tuo dio l’orazione acché ci faccia grazia! O forse un dio non hai? Qual nazione è la tua? Forse de1 nostri guaj se’ tu solo la causa? Qual comune, ehi, fetente t’educò, che con noi questo mare ruggente traversi? A quale scopo qui giungi come un reo?».
S ő monda néki: Zsidó vagyok én s az Egek Istenétől futok én. Mi közöm nékem a világ bünéhez? Az én lelkem csak nyugodalmat éhez. Az Isten gondja és nem az enyém: senki bajáért nem felelek én. Hagyjatok itt megbujni a fenéken! Ha süllyedünk, jobb itt fulladni nékem. De ha kitesztek még valahol élve, tegyetek egy magányos erdőszélre, hol makkon tengjek és keserű meggyen békében, s az Isten is elfeledjen!«
E a lui Giona rispose: «O uomo, io sono ebreo e fuggo il Dio de’ cieli, il Signor d’Israele. Che m’importa del mondo il peccato crudele? Il mio animo ha fame di riposo, d’oblìo, non è affar mio codesto, ma del Signore Iddio; non io rispondo certo delle sciagure altrui. Lasciate che m’asconda in questi luoghi bui! E’ assai meglio che qui m’affoghi, se si affonda. Ma se me vivo ancora sbarcate in qualche sponda, ponetemi sul margine deserto d’una selva ove non scorga mai traccia d’uom, né di belva, ma solo alberi ingenti di quercia e d’amarena, qui viva, e pure Iddio si scordi la mia pena!».
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Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
De a kormányos dühhel csapta vissza: »Mit fecsegsz itt erdőről össze-vissza? Hol itt az erdő? És hová tegyünk ki? Innen csak a tengerbe tehetünk ki! Ki is teszünk, mert nem türöm hajómon az ilyet akit mit tudom mi bűn nyom. Már biztos hogy te hoztál bajba minket: magad mondod hogy Isten átka kerget.
Ma il timoniere allora lo investì brutalmente e disse: «Che farnetichi mai del bosco, o demente? Dov’è il bosco? e per dove posso farti atterrare? Quindi nel mar soltanto ti possiamo sbarcare! E lo faremo, che non vo’ sulla mia nave un come te, cui macchia non so qual fallo grave. E’ certo ornai che tu ci porti alla rovina colpito, qual tu sei, da condanna divina.
Ha Isten üldöz, az ördög se véd meg. Hé, emberek! Fogjátok és vigyétek ezt a zsidót!« S már nyolc marok ragadta, nehogy hajójuk süllyedjen miatta, mert nehéz a kő, és nehéz az ólom, de nehezebb kit titkos súlyu bűn nyom.
Se Dio dunque t’opprime, il diavol non potrà proteggerti. O miei uomini, venite tosto, olà, prendete quest’ebreo e portatelo via»! E già otto mani pronte gli sbarraron la via della fuga, e lo strinsero, perché non affondasse per sua cagion la nave, e ciascuno affogasse. Greve infatti è il macigno, il piombo ancor più peso, più greve è chi sostiene del suo peccato il peso.
Jónás azonban jajgatott s nyögött és meglóbálták a tenger fölött. »Vigyázz - hó-rukk! Pusztuljon aki nem kell!« S nagyot loccsant... s megcsöndesült a tenger, mint egy hasas szörny mely megkapta étkét. S már a hajósok térdencsuszva, kétrét görbedve sirtak és hálákat adtak könnyelmü áldozatokat fogadtak, s a messzeségben föltünt a szivárvány. A viz simán gyürűzött, mint a márvány.
Giona però gridava, gemendo amaramente e altalenato fu sopra il mare furente. «Attenti, issa! Perisca chi non ci giova affatto!». Il mar fece un gran tonfo... poi si placò d’un tratto, quale un mostro panciuto che il suo cibo ha ingoiato. E i marinai, strisciando sul pontile allagato, in ginocchio, piangendo, ringraziavano Iddio che li avea tratti in salvo da quel periglio rio, e gli promiser facili sagrifici, ed offerte, mentre il mare raggiava, pacifico ed inerte e in lontananza nitido splendea l’arcobaleno. Il flutto avea spirali come un marmo, sereno.
MÁSODIK RÉSZ
SECONDA PARTE
Az Ur pediglen készitett vala Jónásnak egy hatalmas cethalat s elküldte tátott szájjal hogy benyelné, halat s vizet vederszám nyelve mellé minek sodrán fejjel előre, hosszant Jónás simán s egészben ugy lecsusszant gyomrába hogy fején egy árva haj nem görbült, s ájultából csakhamar fél-ébren pislogott ocsudva, kába szemmel a lágy, vizes, halszagu éjszakába.
Allor dispose Iddio che una balena enorme attirasse il suo Giona ne la fauce deforme, inghiottendo con lui pesci ed acqua a secchiate, onde Giona, la testa protesa, ed allungate le membra, scivolò d’un balzo nel profondo stomaco del cetaceo, così che illeso e mondo rimase, e riprendendosi dal suo deliquio a un tratto, rivolse le pupille del guardo esterefatto, ancor semiassopito, a la notte odorante di pesce, umida, morbida, tenebrosa e stillante.
És igy jutott a szörny-lét belsejébe vak ringások eleven bölcsejébe, és lakozék három nap, három éjjel a cet hasában, hol éjfél a déllel egyforma volt, s csupán a gondolatnak égre-kigyózó lángjai gyulladtak, mint fulladt mélyből pincetűz ha támad. És könyörge Jónás az ő Urának a halból, mondván: »Kiáltok Tehozzád, hallj meg, Isten! Mélységből a magasság felé kiáltok káromlok, könyörgök, a koporsónak torkából üvöltök.
Così stette all’interno di quella mostruosa vita, che a mo’ di culla rullava senza posa, e già tre lunghi giorni e tre notti abitava il ventre del cetaceo, ove il giorno eguagliava la cupa mezzanotte, e solo del pensiero le vampe serpeggiavano verso l’alto emisfero, come nasce la fiamma in fondo alla cantina. Ed ecco alfine Giona volgersi alla divina Possanza da l’abisso: «Io grido a te, o Signore, ascoltami! Dal fondo di questo tetro orrore, di questo atroce bàratro io urlo, impreco, e strido, da questa bara immane a Te giunga il mio grido!
Mert dobtál vala engem a sötétbe s tengered örvényébe vetteték be, és körülvett a vízek veszedelme és fű tekeredett az én fejemre,
Che nell’oscuro abisso mi scagliasti, ed intorno mi circondò dell’acque il periglio, e il giorno si spense, e l’alghe amare cinsero la mia testa, e su me galopparono le vaste onde in tempesta, 4
Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
bő hullámaid átnyargaltak rajtam, és Egyetemed fenekébe hulltam a világ alsó részeibe szállván, ki fenn csücsültem vala koronáján! Én aki Jónás voltam, ki vagyok már? Ki titkaidat tudtam, mit tudok már? Kényedre hány-vet hánykódó vized s nyálkás hus-záraiba zárt a Cet.«
e caddi giù nel fondo dell’immenso Universo, nelle infime regioni del tuo mondo sommerso, io, che assidermi usavo sul suo monte inaccesso! Io, che Giona ero un giorno, che mai son fatto adesso? Io, che de’ tuoi segreti ero a parte, che cosa or conosco? I tuoi flutti mi scuoton senza posa oscillando, a tuo libito, sempre a retro ed avante, che me chiude il Cetaceo nel suo corpo gigante, della sua carne grassa nelle mucose celle mi tiene, e niun potere da tal prigion mi svelle.
S lélekze Jónás, mivelhogy kifulladt, sürün szíván kopoltyuját a Halnak, mely csupa verdesés és lüktetés volt, s a vízből-szürt lélekzet mind kevés volt, a roppant haltest lihegve-dobogva szokatlan terhét ide-oda dobta kinjában, mig Jónás émelyegve s étlen tovább üvöltött a büzös sötétben, s vonitva, mint a farkas a veremben, nyögött: »Bezároltattál, Uram, engem! Sarak aljába, sötétségbe tettél, ragyogó szemed elől elvetettél. Mindazonáltal szemeim vak odva nem szűnik nézni te szent templomodra. Sóvár tekintetem nyilát kilőttem s a feketeség meghasadt előttem. Éber figyelmem erős lett a hitben: akárhogy elrejtőzöl, látlak, Isten! Rejteztem én is elüled, hiába! Utánam jöttél tenger viharába. Engedetlen szolgádat meggyötörted, magányos gőgöm szarvait letörted. De mennél csúfabb mélybe hull le szolgád, annál világosabb előtte orcád. Most már tudom hogy nincs mód futni tőled s ki nem akar szenvedni, kétszer szenved. De te se futhatsz, Isten, énelőlem, Habár e halban sós hús lett belőlem!«
Ed ansimava Giona si da perdere il fiato aspirando la branchia del pesce smisurato, che fremeva con bàttito rapido ed incessante né il respiro filtrato dell’acqua era bastante, che il corpo gigantesco si scuoteva ed ansava e il suo carico insolito or qua, or là gittava; mentre Giona, digiuno e da nausea colpito continuava ad urlare nel suo fètido sito e, guaendo, siccome il lupo nel fossato gemeva:«O mio Signore, tu m’hai qui relegato! Nell’imo delle fecce, nel buio mi ponesti, mi scacciasti lontano da’ tuoi sguardi celesti. Ma pure de’ miei occhi consunti la caverna non cessa di mirare la tua dimora eterna. Ho scoccato la freccia del mio sguardo tagliente e innanzi a me s’è schiusa la tenebra incombente. La mia ferma attenzione la fede ha invigorito, ovunque Tu t’asconda Ti vedo, o Dio infinito! Anch’io dapprima invano innanzi a Te mi ascosi, mi seguisti sui flutti del mare tempestosi, tormentasti il tuo servo, a Te disobbediente e spezzasti le corna del suo orgoglio insolente. Ma quanto più il tuo servo verso il fango è rivolto, tanto più chiaro a lui splende il divin suo volto. Ora intendo che vana cosa è da Te sfuggire e soffre doppiamente, chi pur non vuol soffrire. Ma Tu nemmeno puoi da me fuggire, o Dio benché sia solo carne chiusa in un mostro rio!»
Ekkor nagyot ficánkodott a Cethal, Jónás meg visszarugott dupla talppal. S uj fájdalom vett mindkettőn hatalmat: a hal Jónásnak fájt, Jónás a halnak. És monda Jónás: »Ki táncoltat engem? Ki az aki nem hágy pusztulni csendben? Besóztál görgő tengered savával és csapkodsz, mintha játszanál csigával. Mert megfogyatkozott bennem a lélek: de az én Uram akará hogy éljek. Ebének kíván engemet a Pásztor és megszabadított a rothadástól. Jössz már, Uram, jössz, záraim kizárod s csahos szókkal futok zargatni nyájad. Mert imádságom elhatott tehozzád és végigjárta a Magasság hosszát. Csapkodj hát, csapkodj, ostorozva bölcsen, hogy amit megfogadtam, ne felejtsem, mert aki éltét hazugságba veszti, a boldogságtól magát elrekeszti.«
A tanto la Balena s’agitò fortemente e Giona in cambio a lei sferrò un calcio potente. S’impadroni d’entrambi un nuovo aspro dolore: doleva a Giona il pesce, Giona al suo voratore. E disse alfine Giona: «Chi mi fa trasalire? Chi non mi lascia in pace finalmente perire? Tu mi salasti, invero, col salso del tuo mare e mi fustighi, come se a trottola giocare con me bramassi; come se smarrito l’ardire avessi, eppure volle che vivessi il mio Sire; qual suo cane mi volle il Pastore divino e libero mi fe’ dal mio triste destino. Vieni dunque, o Signore, toglimi le catene che incalzerò latrando il tuo gregge, e serene si eleveranno a Te, mio Dio, le mie preghiere percorrendo l’Altezza delle stellate sfere. Battimi pure, sferzami con accorte frustate perché più non dimentichi le promesse prestate, che chi fra le menzogne consuma la sua vita invan cerca la via della gioia infinita».
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Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
Igy szóla Jónás, s eljött a negyednap és akkor az Ur parancsolt a halnak, ki Jónást a szárazra kivetette, vért, zsirt, epét okádva körülötte.
Così parlava Giona, alla quarta giornata, quando Dio comandò all’orca smisurata, che rigettò alla riva Giona, sfinito, esangue, vomitandogli intorno grasso, fiele, sangue.
HARMADIK RÉSZ
TERZA PARTE
S mondta az Ur Jónásnak másodizben: »Kelj föl és menj, mert én vagyok az Isten. Menj, a nagy Ninivéig meg se állj, s miként elédbe irtam, prédikálj!«
E disse a Giona Iddio per la seconda volta: «Alzati, e poi ch’io sono il tuo Signore, ascolta. Va’, fino alla gran Ninive corri, né t’arrestare e, come ti prescrissi, mettiti a predicare».
S fölkele Jónás, menvén Ninivébe, melynek három nap volt járó vidéke, három nap taposhatta azt akárki s kanyargós utcáiból nem talált ki.
S’alzò Giona a tal voce, e diresse i suoi passi vêr la città di Ninive, i cui tortuosi chiassi per tre giornate intere potevansi calcare, senza però l’uscita bramata ritrovare.
Menvén hát Jónás, első nap kiére egy sátrakkal telt, csillagforma térre s az árusok közt akik vad szakállát és lotykos, rongyos, ragadós ruháját, ahol helyet vőn, kórusban nevették, kiáltott, mint az Ur meghagyta, ekként:
Il primo giorno Giona camminando pervenne ad una piazza in forma d’una stella, solenne; quivi s’assise fra le tende ed i mercanti che schernivano gli abiti suoi frusti e ciondolanti, la sua barba arruffata, ancor pregna d’umore; colà Giona gridò quel che ingiunse il Signore:
»Halld az Egek Urának Istenének kemény szózatját, nagy Ninive, térj meg, vagy kénkövekkel ég föl ez a város s föld alá süllyed, negyven napra mához!«
«Ascolta, o grande Ninive, l’appello duro e irato del tuo Signore, pentiti del tuo lungo peccato, se no, sarai con zolfo e con fuoco punita entro quaranta giorni e dal suolo inghiottita!».
Igy szólott Jónás, s szeme vérbeforgott, kimarjult arcán veritéke csorgott, de az árusok csak tovább nevettek, alkudtak, csaltak, pöröltek vagy ettek s Jónás elszelelt búsan és riadtan az áporodott olaj- s dinnyeszagban.
Giona così parlò, l’occhio torvo e sanguigno mentre il sudor colava lungo il suo volto arcigno, e i mercanti fra loro a ridere, a scherzare continuavano, a bere, a mangiare, a truffare fin che Giona partì, avvilito e sconfitto nell’odore stantìo d’anguria e d’olio fritto.
Másod estére másik térre ére, a szinészek és mímesek terére, kik a homokon illegve kigyóztak s szemérem nélkül a nép előtt csókolóztak. Ott Jónás a magas ülés-sorok csucsára hágván, olyat bődült bozontos szája, hogy azt hitték, a szinre bika lép. Mohón hökkenve némult el a nép, mig Jónásból az Ur imígyen dörgött: »Rettegj, Ninive, s tarts bünbánva böjtöt! Haminckilencszer megy le még a nap, s Ninive napja lángba, vérbe kap!«
La seconda serata su un’altra piazza stava Giona, che per gli attori e pei mimi s’usava, i quali, dimenandosi, guizzavan su la sabbia e, senza alcun pudore, baciavansi le labbia dinnanzi a tutto il popolo. Giona allora salì sull’alte scalinate, e d’un tratto ruggì dalla sua bocca irsuta, con sì violenta lena che si credea che un toro entrasse su la scena. Ammutì allora il popolo, avido e incuriosito fin che in Giona il Signore così tuonar fu udito: «Trema, Ninive, fa’ digiuno e pentimento, che trentanove volte il sole sarà spento ad occidente, e infine, poi che Dio così vuole svanirà in fiamma e in sangue, o Ninive, il tuo sole!»
S az asszonyok körébe gyültek akkor s kisérték Jónást bolondos csapattal. Hozzá simultak, halbüzét szagolták és mord lelkét merengve szimatolták.
Allor le donne a gara, in schiera folleggiante s’aggrupparono intorno al profeta imprecante. Si stringeano, annusavano il suo odore marino e fiutavano assorte l’animo suo ferino.
Igy ért, az asszonyoktól közrevéve, harmadnap a királyi ház elébe. Ott már tudták és várták és bevitték egy nagy terembe, hol arany teríték mellett hevertek a Hatalmasok,
Così, con quel chiassoso stuol femminile intorno Giona giunse al palagio regale, il terzo giorno. Quivi egli era già noto, atteso, e fu condotto in una grande sala, ove innanzi ad un ghiotto desco giacean distesi i Potenti, e fra loro 6
Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
nyüzsgvén köröttük szép rabszolga sok, és meztelen táncoltak ott a szolgák vagy karddal egymást ölték, kaszabolták játékul. Jónást meg egy cifra oszlop tetejébe tették hogy szónokoljon és jövendölje végét a világnak.
scherzavano, reggendo posate tutte d’oro; pullulavano a torno molti schiavi assai belli e danzavano nudi i servi, agili e snelli e s’uccidean per gioco, con la spada sguainata. Giona fu posto in cima a una colonna ornata perché ivi declamasse contra il volgo perverso, e a tutti predicesse la fin dell’universo.
És Jónás akkor egy iszonyu átkot kiáltva a királyra s udvarára s az asszonyokra és a palotára s a szinészekre és a mímesekre s az árusokra és a mívesekre s az egész Ninivére mindenestül, leugrott, és az őrökön keresztül kitört, s a termen át, s a szoborerdőn, csarnokon, folyosókon és a kerten, tavat megúszva, rácsokon lekúszva, s a vizvezeték-csatornán lecsúszva, utcán és bástyán, falmentén szaladva rohant ki Ninivéből a szabadba, egyetlen látomással dult szivében: hogy kő kövön nem marad Ninivében.
Giona allora scagliò un tremendo anatèma sulla reggia, sul re, sulla corte blasfema, sulle donne, sui mimi, sugli attori e mercanti e su Ninive intera distesa a lui davanti; balzò dalla colonna, e attraverso le sale e le guardie, varcando la selva sculturale, l’atrio, le gallerie, il maestoso areopago, strisciando pe’ recinti, nuotando per il lago, scivolando lungh’essi i trèmuli canali dell’acquedotto, i vicoli, i muri colossali, sbucò alfine all’aperto, fuori della città con sola una visione nel cuor senza pietà: che a Ninive restassero solo pietre combuste.
És méne a pusztába, hol a sáskák a gyér fü szomjas zöldjét mind levásták, hol aki a forró homokra lépett jó saru nélkül, a talpa megégett: ott megfogadta, harmincnyolc napig böjtölve s imádkozva ott lakik s nem mozdul, mignem messze kénköves lángoktól lenne lenn az ég veres s hallanék hogy a föld egyszerre szörnyet dördül, s a nagy vár tornyai ledőlnek s ugy elpusztul minden ninivei, maga és apja s anyja, fiai s lányai, huga-öccse, nénje-bátyja, mint hajdan a Jeroboám családja.
Ed andò nel deserto, là dove le locuste avean brucato il rado verde dell’erba scarsa ove i piedi, poggiati su la sabbia riarsa, privi di buoni sandali bruciavansi le piante: colà fe’ voto che trentotto giorni orante e digiunante sempre la vita avrebbe tratto né si sarebbe mosso, fin che il cielo scarlatto per le vampe solforiche sarebbe divenuto e si sarebbe udito l’improvviso ed acuto fragore della terra, e le torri imponenti della grande fortezza crollassero, e i parenti del ninivita, e lui, con i figli e le figlie, le sorelle e i fratelli, i padri e le famiglie perissero, e di Ninive ogni cive ed amico come Geroboamo co’ suoi nel tempo antico.
S azontul, harmincnyolcból visszamenve, a napokat számlálja vala rendre, kiáltozván az Urhoz: »Halld, Hatalmas! Hires Bosszuálló, szavamra hallgass! Elküldtél engem, férgekhez a férget, kik ellenedre s fricskád nélkül éltek. Én inkább ültem volna itt a pusztán, sorvadva, mint ma, gyökéren és sáskán De böjt s jámborság néked mint a pélva, mert vétkesek közt cinkos aki néma.
E da allora, partendo da trentotto all’opposto contava i giorni, l’uno dopo l’altro disposto invocando il Signore: «Ascoltami, o Possente! grande Vendicatore, la mia voce dolente odi! Tu m’inviasti come verme tra i vermi che vissero opponendosi a Te, poveri infermi! Vivere nel deserto certo avrei preferito e cibarmi soltanto, misero e rattrappito, di locuste e radici, come or vivere soglio, ma digiuno e preghiera son per Te come il loglio, poiché chi tace è complice dell’uomo peccatore.
Atyjafiáért számot ad a testvér: nincs mód nem menni ahova te küldtél. Csakhogy a gonosz fittyet hány a jóra. Lám, megcsufoltak, Egek Alkotója! Szolgádat pellengérre állították, mert gyönge fegyver szózat és igazság. Nincs is itt haszna szépszónak s imának, csak harcnak és a hatalom nyilának. Én Jónás, ki csak a Békét szerettem, harc és pusztulás prófétája lettem.
Per il suo consanguineo paga il fratel maggiore: né si può non andare ove andar m’ingiungesti. Però al tristo non cale nulla mai degli onesti. Guarda, o Creator del Cielo, come fosti beffato! Alla gogna essi posero il tuo servo legato, che fiacca arma è l’appello a la tua verità. Qui non giova l’assidua preghiera, e la bontà ma soltanto la lotta, e del poter lo strale. Ed io Giona, che amavo sol la Pace ideale, son fatto ora il profeta dell’odio e della guerra. 7
Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
Harcolj velük hát, Uram, sujtsd le őket! Irtsd ki a korcs fajt s gonosz nemzedéket, mert nem lesz addig igazság, se béke, mig gőgös Ninive lángja nem csap az égre.«
Pugna con essi, o Dio, il loro orgoglio atterra! Stermina l’empia stirpe, madre d’ogni nequizia, perché non vi sarà pace mai, né giustizia finché il fuoco di Ninive non salga fino al polo».
S elmult egy hét, és kettő, három, négy, öt, és már a harmincnyolcadik nap eljött. Jött a reggel és a dél és az este: Jónás egész nap az ég alját leste. S már a láthatár elmerült az éjben, s egy árva ház sem égett Ninivében.
Passò una settimana, poi due, tre, quattro a volo ed ecco alfin l’ottavo e trentesimo dì venne il mattin, la sera successe al mezzodì e Giona assiduamente spiava il glauco cielo. L’orizzonte coprì della notte il gran velo, ogni essere terrestre placido riposava e nemmeno una casa a Ninive bruciava.
NEGYEDIK RÉSZ
PARTE QUARTA
Mert látá az Ur, hogy ott egyik-másik szivben még Jónás szava kicsirázik mint a jó mag ha termőföldre hullott, s pislog mint a tüz mely titkon kigyulladt. S gondolta: »Van időm, én várhatok. Előttem szolgáim, a századok, fujják szikrámat, mig láng lesz belőle; bár Jónás ezt már nem látja, a dőre. Jónás majd elmegy, de helyette jő más,« igy gondolá az Ur; csak ezt nem tudta Jónás,
Poi che il Signor vedeva che in questo ed in quel cuore la parola di Giona germogliava qual fiore, come seme caduto su di un campo ferace covando come fuoco nascosto fra la brace, meditò il Creatore: «Ho tempo, e posso ancora attendere. Dinnanzi a me i secoli ognora soffian la mia favilla fin che fiamma diventa, benché Giona, lo sciocco, non lo veda né senta, che miei servi essi sono. Or Giona se ne andrà di certo, ma al suo posto un’altr’uomo verrà».
s azért felette megharaguvék, és mondta: »Mikor ide kijövék, s azóta napról-napra s egyre többen jöttek a városból kérdezni tőlem, kicsit gunyolva, kicsit félve-bánva, hány nap van hátra még? S én számról-számra közlém pontossan. S most szégyenben hagytál! Hazudtam én, és hazudott a naptár. És hazudott az Isten! Ezt akartad? Bünbánók jószándékát megzavartad. Hiszen tudhattam! Kellett volna tudni! Azért vágytam hajón Tarsisba futni... Mert te vagy aki fordit rosszat jóra, minden gonosznak elváltoztatója. De már az én lelkem vedd vissza tőlem, mert jobb nekem meghalnom hogysem élnem.«
Così pensò il Signore, ma Giona lo ignorava, e a tal punto il suo animo si offendeva e adirava, che disse: «Dacché qui mi ritrovo, ogni giorno vengon da la città uomini a me d’intorno di volta in volta sempre più fitti e numerosi a cercarmi, or beffardi un poco, or ansiosi, chiedendo: «Quanti giorni mancano ancora?» Ed io con somma precisione li informavo. O mio Dio, Tu mi lasciasti solo nell’amara vergogna! Mentiva il calendario, o era mia la menzogna o Tua? Questo bramavi? Hai turbato il volere buono dei penitenti. Lo dovea pur sapere! Avrei certo dovuto saperlo! E sol per ciò volevo un dì fuggire fino a Tarso, però che sei Tu che trasformi in ben l’istesso male, sei Tu che annienti o togli ogni cosa esiziale. Or tuttavia riprendi l’anima mia ferita, poi che meglio è morire che far simile vita».
Tudnivaló pedig itt hogy kimenve, a városból Jónás, ül vala szembe, a város ellenébe, napkeletnek, árnyékban, mert egy nagylevelü töknek indái ott fölfutva egy kiszáradt, hőségtől sujtott fára olyan árnyat tartottak, ernyőt eltikkadt fejére, hogy azalól leshetett Ninivére, fátylában a nagy fények fonta ködnek. S örüle Jónás módfelett a töknek.
Or si sappia che Giona, non appena fu escito dalla città, si assise, altero e imbaldanzito di fronte alla città, il volto verso oriente nell’ombra, poi che i fusti d’una zucca imponente dalle foglie su un’alto albero rampicanti, secco tutto e percosso dalle arsure accecanti facevano ombra sopra la sua testa languente, di guisa che da sotto spiava ei la possente Ninive, nell’intesto vel de la nebbia densa. E Giona era contento della sua zucca immensa.
Aztán egy reggel, hajnaltájra, szerzett a nagy Uristen egy kicsinyke férget, mely a töknek tövét megrágta volna és tette hogy indája lekonyulna, levele megpörögve kunkorodna
Ma una mattina all’alba Dio dispose che un verme picciolo assai, rodesse le radici ed il germe dell’alber, tal che il fusto verso il suolo pendesse che l’una foglia attorno all’altra s’attorcesse, e che l’intera zucca disseccata intristisse 8
Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
s az egész tök elaszva szomorodna. Oly vékonnyá fonnyadt, amily nagyra felnőtt: nem tartott többet sem árnyat sem ernyőt. S akkor az Isten szerze meleget s napkeleti szárasztó szeleket s lőn hogy a nap hévsége megsütötte Jónás fejét, és megcsapván, felette bágyadttá széditette, ugyhogy immár ugy érzé, minden körülötte himbál, mintha megint a hajón volna; gyomra kavargott, és gyötrőn égette szomja s ezt nyögte csak: »Lelkem vedd vissza, kérlek, mert jobb már hogy meghaljak, semhogy éljek.«
si che tanto sottile quanto alta divenisse, e non fornisse più ombra né parasole. Ed allora il Signore suscitò un caldo sole e venti di scirocco prosciuganti e veementi, fu così che il calore del sol rese cocenti le cervici di Giona, colpendogli la testa, e lo stordi, talché, come in una tempesta, ogni cosa pareva gli dondolasse a lato, quasi ei fosse di nuovo sulla nave imbarcato; si rivoltò il suo stomaco, una sete scottante lo tormentava, e disse gemente ed implorante: «L’anima mia riprenditi, o Re dell’universo, meglio è morir che vivere in questo mondo avverso».
S monda az Ur Jónásnak: »Lásd, valóban méltán busulsz s vádolsz-e haragodban a széleslombu, kövér tök miatt, hogy hüs árnya fejedről elapadt?« S felelt, kitörvén Jónásból a méreg: »Méltán haragszom azért, migcsak élek!« És monda akkor az Isten: »Te szánod a tököt amely egy éjszaka támadt s egy másik éjszaka elhervadott; amelyért kezed nem munkálkodott; amelyet nem ápoltál, nem neveltél, lombja alatt csak lustán elhevertél.
E disse a Giona Iddio: «Tu certo giustamente ti affliggi e mi rimproveri, nell’ira tua fremente per la frondosa e grossa cucùrbita contorta la cui ombra fuggì dalla tua testa assorta?». Rispose a tanto Giona, torbido e velenoso: «Perciò tutta la vita sarò offeso e sdegnoso!». Disse allora il Signore: «Per la zucca hai rimpianto che in una notte crebbe, e in un’altra il suo manto sfiorisce, per cui mai le tue mani hanno oprato, che tu non hai curato giammai, né coltivato, sotto i cui rami solo pigramente disteso ti sei, quando gli ardenti rài del sol t’hanno offeso.
És én ne szánjam Ninivét, amely évszázak folytán épült vala fel? melynek tornyai vetekedve kelnek? mely mint egy győztes harci tábor terjed a sivatagban, és utcái mint képeskönyv amit a történet irt, nyilnak elém? Ne szánjam Ninivének ormát mely lépcsőt emel a jövőnek? A várost amely mint egy fáklya égett nagy korszakokon át, és nemzedékek éltek fényénél, s nem birt meg vele a sivatagnak annyi vad szele? Melyben lakott sok százszor ezer ember s rakta fészkét munkálva türelemmel: ő sem tudta, és ki választja széllyel, mit rakott jobb-, s mit rakott balkezével?
E tu vorresti ch’io non provassi pietà per Ninive, per questa secolare città le cui torri s’adergono a gara, che si sferra nel deserto, siccome un gran campo di guerra. le cui strade a me innanzi come un libro illustrato s’aprono, che la storia ha scritto ed esaltato? Il pinnacol di Ninive non devo compatire che par salga la scala ardua dell’avvenire? La città che simile a una teda riluce negli evi e della cui risfavillante luce vissero lungo tempo diversi ceppi umani, che non fu sopraffatta da venti o da uragani? Nella quale abitavano uomini a mille a mille, costruendo pazienti le lor case tranquille: e, chi potrebbe dirlo? non sapevan neanche quello che edificavano le man destre e le manche?
Bizd azt reám, majd szétválasztom én. A szó tiéd, a fegyver az enyém. Te csak prédikálj, Jónás, én cselekszem. Ninive nem él örökké. A tök sem, s Jónás sem. Eljön az ideje még, születni fognak ujabb Ninivék és jönnek uj Jónások, mint e töknek magvaiból uj indák cseperednek, s negyven nap, negyven év, vagy ezer-annyi, az én szájamban ugyanazt jelenti.«
Or tu a me li confida, io li discernerò, La parola è la tua, l’arma è la mia però. Predica pure, o Giona, e a me lascia l’agire. Ninive non è eterna, e dovrà pur perire, né la zucca, né Giona hanno l’eternità. Giungerà ancora il tempo, quando nuove città come Ninive, e nuovi Giona saran creati, come da questi semi nuovi fusti slanciati: poiché quaranta giorni, od anni, o mille ancora, significan lo stesso nella mia bocca ognora».
Igy szólt az Ur, és Jónás hallgatott. A nap az égen lassan ballagott. Messze lépcsős tornyai Ninivének a hőtől ringatva emelkedének. A szörnyü város mint zihálva roppant eleven állat, nyult el a homokban.
Così parlava Iddio, e il buon Giona taceva. Il sole lentamente nel cielo procedeva. Lontano, dall’immensa calura dondolate, sognavano di Ninive le torri gradinate. La tremenda città, come una bestia ingente stirava nell’arena il suo corpo possente. 9
Babits, Il Libro di Giona, trad. di P. Castruccio, trascrizione digitale di M. Ceccarelli (da Oszk, ottobre 2006)
JÓNÁS IMÁJA
LA PREGHIERA DI GIONA
Hozzám már hűtlen lettek a szavak, vagy én lettem mint túláradt patak oly tétova céltalan parttalan s ugy hordom régi sok hiú szavam mint a tévelygő ár az elszakadt sövényt jelző karókat gátakat. Óh bár adna a Gazda patakom sodrának medret, biztos útakon vinni tenger felé, bár verseim csücskére Tőle volna szabva rim előre kész, s mely itt áll polcomon, szent Bibliája lenne verstanom, hogy ki mint Jónás, rest szolgája, hajdan bujkálva, később mint Jónás a Halban leszálltam a kinoknak eleven süket és forró sötétjébe, nem három napra, de három hóra, három évre vagy évszázadra, megtaláljam, mielőtt egy mégvakabb és örök Cethal szájában végkép eltünök, a régi hangot s, szavaim hibátlan hadsorba állván, mint Ő sugja, bátran szólhassak s mint rossz gégémből telik és ne fáradjak bele estelig vagy mig az égi és ninivei hatalmak engedik hogy beszéljek s meg ne haljak.
Ormai sono infedeli a me le mie parole O pur son divenuto come un ruscel che vuole straripar, titubante, senza mèta né riva, e reco nell’ondosa corrente fuggitiva i miei vecchi, consunti, molti discorsi inani come il torrente porta con sé gli argini vani, e la siepe, e i piloni divelti e sradicati. Oh, se il Padrone desse ai flutti infaticati del mio ruscello un letto, che per strade sicure portasse verso il mare, fosse magari pure cesellata da Lui la preziosa rima e approntata de’ miei numeri sulla cima, e fosse la sua Santa Bibbia, aperta sul mio scaffale, la mia metrica, di guisa che pur io come Giona, suo servo pigro, prima nascosto, poi, come Giona stesso, disceso nel riposto ventre della balena, nel vivo e allucinante buio, dove il supplizio è tremendo e costante, non per tre giorni, ma per tre mesi, tre interi anni, o secoli, alfine ritrovi i miei pensieri – innanzi ch’io sparisca nella fauce abissale d’una Balena ancora più cieca ed eternale – e la mia vecchia voce, e messe le mie care parole in impeccabile ordine militare, possa dir con coraggio quanto il Signor mi spinge a dire, e quanto può la mia guasta laringe, senza che mai mi stanchi, né sera, né mattina, mentre del viver mio il corso già declina; fin quando la possanza celeste o ninivita mi lascia ancor parlare, e rimanere in vita.
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