OSSERVAtORIO LEttERARIO *** Ferrara
ANNO XVIII/XIX – NN. 101/102
e l'Altrove ***
NOVEMBRE-DICEMBRE/GENNAIO-FEBBRAIO 2014/2015
Rassegna di poesia, narrativa, saggistica, critica letteraria - cinematografica - pittorica e di altre Muse Periodico Bimestrale di Cultura
ISSN: 2036-2412
Osservatorio Letterario – Ferrara e l’Altrove EDIZIONE CULTURALE O.L. F.A.
FERRARA
OSSERVATORIO LETTERARIO *** Ferrara e l'Altrove ***
Copertina anteriore: Copertina dell’antologia solenne in occasione del 100° numero dell’Osservatorio Letterario, realizzata e progettata © dalla curatrice Melinda B. TamásTarr.
Fondato e realizzato nell'Ottobre 1997 dalla Dr.ssa/Prof.ssa Melinda B. Tamás-Tarr Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” SEGNALATO DA RADIO RAI 1 IL 25 MARZO 2001 ISSN: 2036-2412 ANNO XVIII/XIX - NN. 101/102 NOVEMBRE-DICEMBRE/GENNAIO-FEBBRAIO 2014/2015 Rassegna di poesia, narrativa, saggistica, critica letterariacinematografica-pittorica e di altre Muse O.L.F.A. Periodico Bimestrale di Cultura Registrazione Tribunale di Ferrara n. 6/98 del 14/04/1998 Direttore Resp. & Edit./Caporedattore/Titolare: Melinda B. Tamás-Tarr Corrispondenti fissi o occasionali: Mario Alinei (I), Gábor Czakó (H), Imre Gyöngyös (Nuova Zelanda), Michelangelo Naddeo (I), Gyula Paczolay (H), Emilio Spedicato (I), Fernando Sorrentino (Ar) Collaboratori fissi ed occasionali di questo fascicolo: Imre Madarász, Paczolay Gyula (H), Umberto Pasqui (I), Erzsébet Sóti, László Tusnády ed altri Autori selezionati Direzione, Redazione, Segreteria Viale XXV Aprile, 16/A - 44121 FERRARA (FE) - ITALY Tel.: 0039/349.1248731 Fax: 0039/0532.3731154 E-Mail: Redazione:
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Copertina posteriore (interno): Le nove Muse (disegno) di Miklós Borsos (artista ungherese), La Musa musicante (superficie di una coppa etrusca della metà del sec. V a.C.), La pastorella o: «L’inizio delle Arti» (scultura) di István Ferenczy (artista ungherese), Le nove Muse (pavimento a mosaico della Villa Romana di Trier del II sec.).
ABBONAMENTO Persone fisiche/Természetes személyek: € 41 in caso di spedizione piego libro ordinario; € 43 in caso di spedizione piego libro Racc.; € 45 in caso di spedizione piego libro Racc. A.R. (Italia); € 80 (tutti i Paesi dell’Europa - spese di spedizione inclusa), € 95 (Paesi dell'Africa, dell'Asia, Americhe - spese di spedizione inclusa) € 108 (Oceania - spese di spedizione inclusa) Costo di un fascicolo di numero doppio per l’Italia: € 16,88 spedizione tramite piego libro ordinario, € 19,43 spedizione tramite piego libro Racc., € 20.03 spedizione tramite piego libro Racc. A.R., imballo incluso Sostenitore/Támogató: € 65 (Italia) Persone giuridiche/Jogi személyek: € 60 in caso di spedizione piego libro ordinario; € 63 in caso di spedizione piego libro Racc.; € 65 in caso di spedizione piego libro Racc. A.R. (Italia); € 90 (tutti i Paesi dell’Europa - spese di spedizione inclusa), € 105 (Paesi dell'Africa, dell'Asia, Americhe - spese di spedizione inclusa) € 130 (Oceania - spese di spedizione inclusa) Costo di un fascicolo di numero doppio per l’Italia: € 16,88 spedizione tramite piego libro ordinario, € 19,43 spedizione tramite piego libro Racc., € 20.03 spedizione tramite piego libro Racc. A.R., imballo incluso Sostenitore/Támogató: € 150 (Italia) L'abbonamento può decorrere da qualsiasi mese e vale per i sei numeri singoli o per tre numeri doppi. Si deve allegare sempre la fotocopia della ricevuta del versamento. Intestare a MELINDA TAMÁS-TARR sul C.C.P. N. 10164440 Le coordinate bancarie per il pagamento dall’estero: IBAN: IT 11 K 07601 13000 000010164440 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Info dettagliate: http://www.osservatorioletterario.net/abb.htm
La redazione della rivista è terminata e chiusa alle 23:16 del 21 settembre 2014.
SOMMARIO EDITORIALE — Lectori salutem! – a cura di Melinda B. Tamás-Tarr………...............................…………….…5 POESIE & RACCONTI — Poesie di: Gianmarco Dosselli (Irina dei monti)…6 Mariano Menna (Alienazione, Il crepuscolo, Iris)…6 (Racconti di: Gianmarco Dosselli (Conversazione in taxi)…7 Umberto Pasqui (Il galeone, Fenomeno, Ragù d’Erzegovina)…9 Franco Santamaria (I cavalli di grano [tratto dal 1° cap. del romanzo inedito]...10 Ambra Simeone (Certi insonni nel mezzo delle ore)…11 Grandi tracce — Vittorio Alfieri: VITA/Adolescenza [Cap. V] 7)…12 Selma Lagerlöf: La Sacra Notte (Trad. di Alberta Albertini)………………..........................……13 DIARIO DI LETTURA & PRESENTAZIONI — Galleria Letteraria & Culturale Ungherese: Lirica ungherese— Dezső Kosztolányi: Orazione funebre [Halotti beszéd] (Trad. di Melinda B. Tamás-Tarr...15 Prosa ungherese — Cécile Tormay: La vecchia casa [A régi ház] XVI. (Traduzione di Silvia Rho - Melinda B. Tamás-Tarr)…16 L’angolo dei bambini: La favola della sera…(Selezione a cura di Melinda B. Tamás-Tarr)/La stella e il campanile (Traduzione di Filippo Faber)...19 Saggistica ungherese —Imre Madarász: Un amore italo-ungherese…20 Erzsébet Sóti: Jacopo Passavanti, un “exemplum” della sua epoca alto-medievale 2)…22 Recensioni & Segnalazioni — Mario Sapia: Cespugli di memoria (Rec. di Mttb)…26 Maturità infantile: Sintesi critica della quasi-poesia di Ambra Simeone (Rec. di Valerio Gaio Pedini)…26 Lorenzo Spurio: La cucina arancione (Rec. di Iuri Lombardi)…27 “Patroclo non deve morire” di Ivan Pozzoni (Rec. di Mariano Menna)…28, Melinda B. Tamás-Tarr (a cura di): Rassegna solenne; Miscellanea ungherese e italiana (Rec. di Umberto Pasqui)…31 Lettura d’Estate – a cura di Melinda B. Tamás-Tarr (Tim C. Leedom-Maryjane Churchville: Il libro segreto dei papi…31, Un romanzo di Grazia Deledda: Annalena Bilsini …32, Due libri di Vasco Pratolini: Il Quartiere, Cronache dei poveri amanti……………………..................………………32, 33 TRADURRE-TRADIRE-INTERPRETARETRAMANDARE — Selma Lagerlöff: Szentséges éj/La Sacra Notte (Trad. in ungherese dall’italiano di Melinda B. TamásTarr)…33 Tábory Maxim: Találkozásom Faludy Györggyel/L’incontro con György Faludy (Trad. di Melinda B. Tamás-Tarr)............................................…35 COCKTAIL DELLE MUSE GEMELLE — PAROLA & IMMAGINE — Franco Santamaria Sogni di farfalla…37 Giuseppe Roncoroni: Cronache dal Sarcofago…38 SAGGISTICA GENERALE — Anett Julianna Kádár: Dante in musica – Il fallimento e il successo della Sinfonia Dante...39 Vincenzo Latrofa: L'Epistola sulle definizioni e descrizioni delle cose di al-Kindī 1)...42 Bhagyashree Balestrieri: La valenza dell’amore in alcune opere di Hari-vansh Rai Bachchan (1907 – 2003) 1)...51 Ivan Pozzoni: Il dovere morale intelle(a)ttuale neo-avanguardista di «guastare» i giovani; Memoria, «necessità autobiografica» ed American dream. H. C. Bukowski.................................55 L'ECO & RIFLESSIONI ossia FORUM AUCTORIS — Daniele Boldrini: Una vicenda deltizia, Giro alla foce...57, 58 Articoli brevi dal blog di un amico d’Ungheria/Giuseppe Dimola: Eger, non solo cantine, Attila in Italia, Viaggio in Ungheria 80 anni fa...61, 62, 63 Umberto Pasqui: Crespo e Genesi; Una «Biblia pauperum» dalla contemporanea Andalusia...63, Mario
Sapia: L’Europa unita: Il sogno anche di Dante...65, In memoriam Magda Olivero, Signora della Lirica/La Signora della Lirica... di Emilio Spedicato....................68 «IL CINEMA È CINEMA» — Servizi cinematografici/Giuseppe Dimola: L Italia e Ungheria a Cannes, L’ungherese Mundruzzó vince a Cannes...70, 71 L'Arcobaleno—Rubrica degli immigrati stranieri ed autori d'altrove scriventi in italiano: Melinda B. Tamás-Tarr: Diario d’estate 2014................................71 APPENDICE/FÜGGELÉK — VEZÉRCIKK: Lectori salutem! (Bttm).............................................................79 LÍRIKA —Bodosi György: Bodosi György túlvilági bolyongásai, Rövid eposz alexandrinusokban...80 Cs. Pataki Ferenc: Imádkozz értem is, Bűntetlen gondolat...81 Elbert Anita: A fehér csend szárnyai...82 Gyöngyös Imre: Shakespeare-sorozat XXII. [24. szonett]...82 Hollósy-Tóth Klára: Reggeli áhitat...83 Horváth Sándor: Alkonyi szonett, Egyút szonett...83 Pete László Miklós: Ősz mosolya...83 Szirmay Endre: Minden logobás, Sienában...84 Tolnai Bíró Ábel: Istenről álmodtam az éjjel............................................84 PRÓZA—B. Tamás-Tarr Melinda: Nyári napló 2014...84 Czakó Gábor: Bájoska, Péter vízen jár...86 Szitányi György: Út a Fényveremhez–5.)...87 Tormay Cécile: A régi ház XVI.)...90 Assisi Szent Ferenc kis virágai, XV. Fejezet (Ford. Tormay Cécile)...93 Tusnády László: Gyermekszemmel/I. Haranghullás...94 ESSZÉ — Madarász Imre: Quasimodo magyar hangon...99 Tomory Zsuzsa: Jövőnk nevében...101 Tusnády László: Gyökereink / V. Megvalósulás és részesülés..................................................................103 HÍREK-VÉLEMÉNYEK-ESEMÉNYEK [Notizie-opinioni-eventi] —- Mostra di incisioni ungheresi: di István Zádor, István Imre, Lajos Novák, Ilona Fehér, István Bai-Föglein...104 Congresso multidisciplinare internazionale: «Vedere oltre. La spiritualità dinanzi al morire»...105 Emléktábla Korompay Emánuel Aladárnak az ELTÉ-n...105 Szűcs Marika: Dr. Szűcs István emlékére....106 KÖNYVESPOLC — Géza Gárdonyi: Stella di Eger (Traduzione di Patricia Nagy/ Az „Egri csillagok” olaszul...111 Rassegna solenne (Szerk.: B. Tamás-Tarr Melinda): L’indice/Tartalom...112 POSTALÁDA – BUCA POSTALE: Lettere inviate alla Redazione..................................................................113
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Editoriale ____di Melinda B. Tamás-Tarr____
Lectori salutem! Come potete vedere sulla copertina del presente fascicolo, è uscito il volume progettato in occasione del 100° fascicolo della nostra rivista ed è stato spedito a tutti coloro che l’hanno ordinato. Chi vorrà averlo o recuperare la rivista pure solenne, potrà ordinare le seguenti edizioni: RASSEGNA SOLENNE, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2014, a colori, copertina rigida, € 77,50: tramite la redazione; in bianco/nero, copertina morbida, € 30,00: http://ilmiolibro. kataweb.it/schedalibro.asp?id=1065921; estratto, in bianco/nero, copertina morbida, € 14,50: http://ilmio libro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1071790; OSSERVATORIO LETTERARIO NN. 99/100. seconda edizione della prima edizione speciale a colori, € 35,00: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id= 1063990. (Nb.: Tutte le edizioni pubblicate dal 2009 sono recuperabili al seguente indirizzo della vetrina dell’O.L.F.A.: http://ilmiolibro.kataweb.it/community.asp ?id=74180.) Con le edizioni sopraccitate, oltre al 100° numero del fascicolo, abbiamo potuto festeggiare anche il nostro periodico maggiorenne, dato che siamo ancora in cammino nel corso del 18° anno! In questa seconda, sontuosa antologia solenne si leggono le opere di quasi 50 autori selezionati – ungheresi ed italiani –, tra cui 12 classici e 37 contemporanei. Nella prima parte di 558 pagine sono riportate opere in lingua italiana, mentre nella seconda parte quelle in ungherese. Sotto il nome degli autori inseriti in ordine alfabetico troviamo poesie, racconti, saggi, articoli. Prima di partire per le ferie sabbatiche lunghe (19. 06 – 20. 09) ho avuto forti emozioni piacevoli: la prima grande emozione riguardava le elevate celebrazioni del 2 giugno della Festa della Repubblica Italiana tra cui è avvenuta anche la consegna del diploma d’onorificenza agli insigniti ferraresi, me compresa. Dalla commozione con grande fatica trattenevo le lacrime. Questo momento pregiato sarà uno di quelli più indimenticabili della mia esistenza. La seconda gradevole sorpresa era la seguente @-
lettera inviata dalla referente italianista della Biblioteca Nazionale Ungherese «Széchenyi» di Budapest l’11 giugno scorso che condivido volentieri con Voi, eccola: «Újabb könyveket szeretnénk felajánlani ajándékba, megköszönve megtisztelő támogatását! [Vorremo offrirle altri libri in regalo per ringraziarla del suo sostegno con cui ci onora!] 1. La Chiesa cattolica dell'Europa centroorientale di fronte al comunismo: atteggiamenti, strategie, tattiche / a cura di András Fejérdy. - Roma: Viella, 2013. - 216 p.; 21 cm. - (Bibliotheca Academiae Hungariae - Roma. Studia; 2.) ISBN 978-88-6728-1510 2. L'Ungheria angioina / a cura di Enikő Csukovits; [pubbl.] Istituto Balassi - Accademi d'Ungheria in Roma; [trad. ... di Dávid Falvay e Andrea Moravcsik]. Roma: Viella, 2013. - 342 p. : ill.; 21 cm. - (Bibliotheca Academiae Hungariae - Roma. Studia; 3.) ISBN 97888-6728-176-3 3. Sylvia Sass: Diedi il canto agli astri. Istituto Balassi. 2013. ISBN: 978-615-5389-06-1 4. Kiáltványok a szabadságról: Kemény Judit (19182009) életmű-kiállítás: Magyar - Olasz Kulturális Évad 2013: Római Magyar Akadémia, 2013. szeptember 12 - október 13. Mani esti per la libertà: mostra dell'opera completa di Judit Kemény (1918-2009): Anno Culturale Ungheria - Italia 2013: Accademia d'Ungheria in Roma, 12 settembre 13 - ottobre 2013 / [... kurátorai ... Bretus Imre, Németh Pál]; [... szerk., tanulm. ... Bretus Imre]. - [Budapest]: ARTendo, 2013. - 95 p.: ill., részben színes; 29 cm Bibliogr.: p. 92-94. ISBN 978-963-08-7170-9 űzött 5. Francione, Giancarlo La Cappella ungherese: storia, memoria e mito di un monumento che parla di pace. Vittoria: Comune di Vittoria, 2004. 6. Az olasz reneszánsz komédia: XV-XVI. század / Nyerges László. - Budapest: Balassi, cop. 2003. - 134 p.: ill.; 24 cm Bibliogr.: p. 129-130. és a jegyzetekben. Összefoglalás olasz nyelven ISBN 963-506-558-2 űzött: 2000,- Ft 7. Az udvari élet művészete Itáliában: szöveggyűjtemény / szerk. Vígh Éva. - Budapest: Balassi, cop. 2004. - 418 p.: ill. ; 24 cm Bibliogr. a jegyzetekben ISBN 963-506-573-6 űzött 8. Megkezdett öröklét: Dante a XX. századi Magyarországon / Szabó Tibor. - Budapest : Balassi, 2003. - 256 p.: ill.; 24 cm Bibliogr.: p. 229-244. Összefoglalás olasz nyelven ISBN 963-506-500-0 űzött. Köszönettel és üdvözlettel [Grazie e cordiali saluti]: Havas Petra» I volumi sopraccitati, come accordo, per mia richiesta, sono arrivati al seguito del mio rientro. Prima della mia partenza estiva alcuni destinatari hanno già
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subito segnalato la ricezione della rivista e dell’antologia di cui potete leggere le reazioni più significative nella rubrica della «Postaláda/Buca Postale». Così sono riuscita a partire tranquillamente per un breve riposo e svago estivo per poi dedicarmi agli studi, alle consuete letture ed alle varie attività intellettuali ed artistiche… Ora, infine, eccoci di nuovo al nostro regolare appuntamento autunnale-invernale a cavallo del 18° e 19° anno del nostro «Osservatorio Letterario» con un fascicolo più modesto di estensione rispetto a quello precedente di cui edizione assieme all’antologia ad esso abbinato economicamente era notevolmente più gravosa… Però ho l’enorme soddis azione che nonostante tutte le diverse difficoltà ed ostacoli ce l’abbiamo fatta! È arrivato il momento del congedo, Vi auguro prima di tutto buona salute, poi buona lettura, belle festività natalizie e di buon Capodanno con l’immenso desiderio e con la forte speranza che i conflitti bellici in corso finalmente cessino e tacciano le armi definitivamente in ogni parte del mondo, arrivi la PACE per tutti gli abitanti della nostra Terra!!! - Mttb -
POESIE & RACCONTI Poesie______ Gianmarco Dosselli (1954) — Flero (Bs)
IRINA DEI MONTI
Anima spoglia. Cuore crudo per la solita delusione cocente. Il tuo triste canticchiar, ad ogni nube plumbea, vizio infallibile per scordar il primo amore perduto! Chi sei, o voce sdilinquita? Mendace presenza in quella casa piena di cretti, tra i monti dalle mille gobbe e ove, da lontano, s’ode suonar la manfrina. Perché vivere solinga, tra il razzolio delle galline? Sai cantare nell’intimo? Mi farei un bellimbusto fatuo dirimpetto al glamour tuo. Donna malleabile; ardi al centro del cuore e conquista il mio in cerca di mutuo affetto. Sarò con te, e potremmo patullarsi nell’ozio cercando il cielo di porpora. Fonte: www.dosselli.it Mariano Menna (1994) — Napoli
ALIENAZIONE
I passanti sono ombre indistinte: avanzano incessanti nelle notti senza fine, 6
osservando le vetrine dei negozi che nutrono la sete di possesso. Ho stracciato il solerte calendario che si diverte a smuovere le ore, ma non c’è sipario al suo rumore prolungato. Mi manca il fiato spesso - i giornali mi soffocano i giorni sono guerre mai reali. La casa mi protegge dal progresso, è un bunker ed io confesso: il cuore è una granata nel petto e aspetto l’esplosione, inerte. Lo specchio riflette un uomo nudo: sono io - ho creduto ma non mi riconosco. (27 marzo 2014)
IL CREPUSCOLO Muore lentamente tra le acque un bagliore: è fuoco che si spegne all’imbrunire. La luce indietreggia al cospetto del tempo, s’inchina alla notte, elegante signora, lasciando nel buio le sue lacrime lucenti: lucciole cosmiche che danzano nel cielo. Nell’immensa quiete crepuscolare prendono vita i melanconici pensieri, infinite tracce dell’umana ragione: la loro notte calerà col nuovo giorno, con il risveglio di spaventosi automi, con i rumori del quotidiano incedere. IRIS* Servirebbe un fiore per ogni lacrima nascosta, un futile ornamento, che però salva il sorriso perché il colore dei petali passa su ogni viso: cancella la tristezza per troppo in noi riposta. Come l’amore sboccia con un sorriso assecondato, così un bocciolo nasce grazie ai raggi del sole; in entrambi i casi non servirebbero parole: la magia di un attimo è silenzio incontrastato. Iris a primavera, come un pennello sulla terra, la natura dipinge con le dita arcobaleni, sui prati gli innamorati si stringono sereni: le loro labbra tornano felici a farsi guerra. Il tempo non aspetta mai le liete conclusioni, le stagioni passano e cancellano i colori, ma le ore poi ritornano e con esse pure i fiori: sbocceranno gli iris e nasceranno nuovi amori. * Seconda classificata al Concorso Nazionale di poesia “Città di San Giorgio a Cremano” edizione 2013.
Mariano Menna è nato a Benevento nel 1994. Ha conseguito la maturità scientifica presso l’istituto Polispecialistico Gandhi di Casoria. È iscritto al primo anno
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del corso di laurea in Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. Nel 2012 è risultato vincitore del Concorso Nazionale “Scrittura attiva” di Tricarico, nella sezione giovani, con la poesia “La ballata del vagabondo”. Nel 2013 ha pubblicato due raccolte di poesie “La grande legge” e “ La pagina bruciata”, entrambe edite da Marco Del Bucchia rispettivamente a maggio e novembre; è risultato secondo classificato nella sezione “Giovani” del concorso Nazionale “Città di San Giorgio a Cremano” con la lirica “Iris” . È membro cofondatore della corrente artistico-letteraria del Labirintismo, il più grande movimento d’avanguardia del 2000 con più di 200 iscritti. Nel 2014 si è classificato al 3°posto nella 5^ edizione del premio letterario internazionale “Le parole dell’anima” Città di Casoria (NA) con il libro di poesie “ La pagina bruciata” ; al 2° posto alla IX edizione del Premio Artistico - Letterario Internazionale Napoli Cultural Classic con l’inedita “Il crepuscolo”. È stato inserito nelle antologie “Poesia per Dio” , curata dalla casa editrice “La Ziza” con la poesia inedita “La scelta” (marzo 2014) e “Fondamenta instabili”, curata da deComporre Edizioni. Alcune sue poesie sono apparse su blog e riviste online come “ L’ombra delle parole” di Giorgio Linguaglossa, “Alla volta di Leucade” di Nazario Pardini, “ La distensione del verso” di Sandra Evangelisti, “ Le Reti di Dedalus” di Marco Palladini e “Poetrydream” di Antonio Spagnuolo. Racconti_______ Gianmarco Dosselli (1954) — Flero (Bs)
CONVERSAZIONE IN TAXI
Sono assai attratto dal mondo piccolo intimo, intimo e ospitale dei tassì romani. È un mondo totalitario su cui il tassista regna come un principe assoluto di rado geniale. Che sia un libico fuggito dal suo Paese in fiamme o un nativo di Trastevere, è il padrone indiscusso, non solo nella scelta dei clienti e degli itinerari ma anche negli argomenti di conversazione e nelle conclusioni filosofiche. Mi chiamo Fausto Florioli, giornalista, bresciano doc, inviato a Roma per una intervista esclusiva a due monsignori vaticanisti. Lasciato l'aeroporto di Centocelle, subito mi metto alla ricerca della prima autopubblica. Devo confessare che mentre da un lato sono attratto dai tassisti, dall'altro mi incutono timore. Come spesso mi capita coi tassisti bresciani: a seconda del guidatore con cui incontri casualmente, i viticoltori o sono martiri o delinquenti; gli studenti in sitin o sono nullafacenti o ipnotizzati dai dirigenti scolastici; gli stranieri o tolgono il pane di bocca agli italiani o sono i capri espiatori della xenofobia imperante... L'unica sulla quale concordano tutti è che i tassisti sono strenui lavoratori, sottopagati, spremuti dal fisco, sfruttati e incompresi. E ci sono i muti, gli scorbutici che troncano ogni tentativo di conversazione con un cipiglio scoraggiante. Nella capitale che genere di tassista mi capiterà? Certamente anche ai romani tutto irrita: il tempo (la pioggia, la neve, il sole e l'afa), la situazione politica (siamo governati da gente incompetente e venale) e soprattutto gli altri utenti della strada. Mi intrufolo casualmente nell'abitacolo della prima auto in fila. Al volante una donna. Con il blue jeans e la
camicia bianca, e i lunghi capelli raccolti in un nodo, la tassista sembra un bel ragazzo aitante e slanciato. Fornisco l'indirizzo: Piazza San Pietro. Il traffico è lento a causa del selciato scivoloso. Pioviggina. Si è in settembre. Il tergicristallo del veicolo funziona male: strofina l'acqua sul vetro ma non riesce a spazzarla via. Lei punta gli occhi addosso a me, scrutando il retrovisore. «Appuntamento col Papa?» «Magari! Invece, incontrerò due illustri monsignori.» «Prepotente gente clericale. Un giorno chiesi al segretario di monsignor Marini la dispensa per potermi prendere un marito di più, perché con quello solo che ho la notte sentivo freddo.» «Cosa? Scusi?», chiedo con un bel sorriso strizzato come si fa coi matti. «Fatico capirla. Se vorrà essere più esplicita...» «Desidero un altro matrimonio in chiesa, non al municipio.» «Ah, capito l'invenzione dei due mariti! Ma non si può!» «Perché non si può! Non siamo libera Chiesa in libero Stato? Guardi che la legge del matrimonio l'ha fatta Cristo e Cristo non è più tornato in terra a sostituirla.» «Suvvia, siete una donna e vi immelmate troppo in questa insensata faccenda!» «Donna io! Amo abiti maschili. Sa, credo che mio padre abbia desiderato che io fossi nato maschio, anche se non lo ammetteva mai.» «Figli suoi in quel portaritratti?», le chiedo tanto per sbarazzare di quell'accidioso commento. «Sì, due deliziose creature. Pensi, due giorni fa li ho affidati a zia Cecilia che possiede un solo televisore. I miei adorati vogliono i cartoni animati in tivù, ma zia proibisce loro di accendere il video perché sta discutendo con tre amiche. A uno dei miei gli viene l'idea; scende in cantina, vede un topino nella trappola, libera il roditore dalla gabbia e lo getta tra le donne. Costoro, prese dal panico, fuggono di corsa. Finalmente, per i miei due adorati la delizia dei cartoni animati televisivi.» «Li definisce adorati per quel che fecero? Mi sorprende, signora. Io avrei indotto loro al più civile e corretto comportamento verso gli adulti.» «Sono già educati! Specialmente il mio Armandino del quale l'ultima nota scolastica mi ha entusiasmata. Il mio adorato, a soli sette anni, è un latin lover, proprio come piace a mamma. » «”Nota”, “latin lover”... Vuole darmi delucidazioni?» «La bella maestra di geografia lo ha pregato, una volta entrato in classe, di dire “Buongiorno, signorina” e non “Salve, pupa”. «Cribbio! Se ha solamente sette anni non è da lui iniziare a corteggiare in quel modo.» «Eppure! Sapete, all'età di due anni è stato a una trasmissione televisiva in diretta. Un pediatra stava spiegando al pubblico tutto ciò che un bimbo di due anni dovrebbe interessarsene. Il professionista annuncia: “Ora, pubblico gentile, la nostra graziosa valletta mostrerà al piccolo due oggetti: una bambola e una macchinina identica alla Ferrari. Armandino sceglierà, per sentimento da maschio, la Ferrari perché oggetto interessato ed emblematico.” La valletta gli si accosta e Armandino osserva prima la bambola e fa un mugugno; guarda la Ferrari ma... qualcosa di altro lo attrae: acchiappa i seni della 7
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valletta! Scandalo in tivù, diranno poi. Riparato l'incidente, il pediatra allontana la valletta mentre il mio adorato figliolo sta spogliando la bambolina e con le manine accarezzare i seni. Allora, a questo punto, quel mascalzone del conduttore ha bloccato la diretta.» «Inaudito! Stento a credere! Mi sa che lei non è sincera.» «Come si permette! Francamente, desidero essere schietta e aperta, non una bugiarda come lei!» «Mi scusi se l'ho offesa! E suo marito non reagì allo scandalo?» «Mio marito è mentalmente imbranato da nascita, come nei movimenti. Stanotte si è sognato di giocare a pallone con Totti. C'è un calcio di rigore: tira il pallone dopo una rincorsa ma... realmente colpisce le mie chiappe! L'ho schiaffeggiato, l'ho scacciato dal letto e l'ho mandato a dormire nella vasca da bagno.» «Non ne ha di colpe orrende, signora! Tutto è stato nell'indicazione involontaria del corpo. Stava dormendo, mi scusi sa... Si dice che le reazioni nel sonno dell'uomo è dipeso dalle letture e dai computer.» «Ecco, me lo immaginavo! Gli uomini hanno molto in comune con le e-mail: il 99% di loro non è altro “spam”. In quanto le letture, mio marito predilige i gialli sexy. Spero che impari a leggere col metodo Braille: eviterà il consumo dell'energia elettrica durante la notte.» «Leggere di notte fa l'uomo saggio.» «Dicono che gli uomini saggi sono i mariti migliori. Tutte falsità perché gli uomini saggi non diventano mariti.» «Cribbio, come faccio a comprenderla?» «Non possedete qualità, senza offesa! Siete del Nord? La vostra tonalità di voce mi dice che siete piemontese.» «Lombardo. Giornalista del settimanale “Bresciareligione”» «Ecco la ragione di recarvi nel territorio papale. Attenzione, strada facendo potrebbe insinuarsi qualcuno tra i duri romani che non desidera precisamente il suo contatto con il Vaticano.» «In questo istante lo sa solamente lei. Spero di non rischiare grosso, dunque!» «Tranquillizzatevi! Io amo il territorio di San Pietro.» «Dio sia lodato.» «Siete figlio di papà?» «Mio padre ha una certa influenza.» «Poverino, che si curi.» «Non si tratta di malattia. “Influenza”, ossia ha certa autorità. È presidente onorario di un istituto di credito.» «Beato lui. Mio padre è un restauratore di mobili come suo padre prima di lui e come lo sarei dovuto divenire io. Lasciai presto tale lavoro perché il volante è la mia passione.» «Quanti anni avete?» «Trentotto. Fatti cinque giorni fa.» «Seppur in ritardo, i miei più fervidi auguri. Immagino un bel dono da suo marito.» «Oh... per la prima volta si è presentato a mani vuote. Il gioielliere lo ha consigliato di aspettare che scenda un po' il prezzo dell'oro.» «Molto burlesco suo marito. Che coincidenza, lei è vergine come me.» «Scherzate! Ho due figli; come si è vergini!» 8
«Lei ha il mio stesso segno zodiacale della vergine: di questo m'intendevo.» «Dio quanto sono surrogata. Senta, desidera vedere Montecitorio?» «Volentieri. Vedere la casa d'Italia è bello.» Il tassì si ferma quasi al centro alla strada. Un vigile si accosta. «Mia brava tassista, ma che cosa combina? Non si può sostare qui, neppure a motore acceso.» «Volevo mostrare la munificenza del palazzo al mio cliente che arriva dalla Lombardia.» «Comprendo perfettamente. Ma in questo spazio non può perché qui ci passano ministri, segretari di partito, deputati e senatori.» «Che m'importa! La mia autovettura è munita di antifurto.» «Già visto abbastanza; possiamo andare», intervengo, e ordino alla tassista di ripartire. «Il signor vigile intendeva altra spiegazione.» «Quel vigile è uno scalmanato! Che ne dite del Colosseo? Maestoso edificio. Conosce la sua storia?» «Non veramente molto. Ne sarei grato se lei mi facesse partecipe del tesoro del suo sapere.» «Non ne so nulla! Di Roma conosco solamente le strade, tutte le vie e i teatri.» «A proposito di teatri, al piccolo bellissimo Siccoli danno commedie di Erodoto, di D'Annunzio, di Goldoni... Un teatro genialecostruito da un bresciano otto anni fa.» «La scorsa settimana il pubblico sembrava impazzito.» «Davvero? Un grande successo?» «Ecco... c'è stato un principio d'incendio in galleria subito domato dagli inservienti. Che fato!». Squilla il cellulare. «È proibito dal codice stradale, ma qui si tratta di mio figlio Luca. Pronto?... No, andare solo in piscina è troppo pericoloso; hai solo sei anni... Beh, anche se papà nuota solo questo è diverso. Lui ha una assicurazione sulla vita... Basta brontolare, fai il bravo e resta a casa con Armandino.» Dopo eseguito un “contorno” al Colosseo, con velocità folle corre verso Porta Venezia arrivando, infine, sulla via Vittorio Emanuele. «Tra poco ci immetteremo in via della Conciliazione», annuncia estasiata la tassista. «Il limite di velocità è cinquanta! Sul bagnato potrebbe sbanda-re. Sii cauta», borbotto. «Nessun timore. In fondo non ho nessuna voglia di essere ricoverata in ospedale.» «Era forse ferita in modo molto grave?» «Ma no, neppure un graffio. Ero ricoverata nel reparto psichiatrico. Ecco, sullo sfondo, la celeberrima Piazza San Pietro. Dove vuole che mi fermi?» «Qui... qui... va benissimo!», balbetto. «Mannaggia! Ho dimenticato di mettere in funzione il tassametro e non so il prezzo della corsa. Dato che lei è un bell'uomo le sconto: costo del viaggio venti euro. Purtroppo...» «Purtroppo... che cosa?» «Ho due figli da mantenere e irata con il clero, vostro amico, che ha rifiutato la dispensa per potermi prendere un ulteriore marito. Il prezzo della corsa è equivalente a cento euro.» Dopo tre minuti di diatriba raccapricciante, la tassista riesce ad avere la meglio. «Basta, mi arrendo! Tenete pure cento euro!»
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«Grazie e buona giornata, mio caro lombardo. Entri pure in san Pietro; la Chiesa è il cuore della cristianità e tutto ciò che Dio che ha creato l'ha fatto con molta perfezione.» «Escludendo lei, cara signora!» «Me! Perché?» «Lei è la più perfetta pazza che Lui abbia mai creato!» Fonte: «Rassegna solenne», Edizione O.L.F.A., Ferrara 2014, pp. 640; tratto dalle pp. 292-296. Umberto Pasqui (1978) ― Forlì
IL GALEONE
Il termometro al mercurio, all’improvviso, segnava 42 gradi. Non si sentiva la febbre, solo una spossatezza forse causata dai primi caldi e dal lavoro intenso. Si spaventò fino a tornare bambino. Pur avendo quasi quarant’anni chiamò la mamma. Che fare? Tutta la colonnina era turchina: agitando con vigore il termometro, l’indice scese a 38,5. Disdisse ogni appuntamento, tra cui una cena cui teneva tanto. Iniziò a vaneggiare tuffandosi in ogni particolare del passato che riemergeva con insistenza. Si ricordò di quella sabbia giocattolo, conservata in un contenitore che voleva suggerire un’origine orientaleggiante. Egli era un bambino: versandola nell’acqua creava forme strane ma non poté godersi appieno lo spettacolo tanto agognato in quanto irruppe, non ne rammentava i motivi, un barbuto insegnante dal volto serio, benché già conosciuto. L’ospite bloccò l’esperimento della sabbia, che scivolò via nei gorghi del lavandino del bagno. Poi gli balenò in testa il desiderio antico di un galeone di plastica, di cui allora si faceva tanta pubblicità. Era il regalo per eccellenza, anelato per anni ma mai ottenuto. Non seppe mai perché. Forse era troppo costoso? Troppo ingombrante? Pensando al galeone giocattolo, comunque, la febbre calava, o forse non era mai arrivata. Ma un regalo desiderato da bambino, ricevuto da adulto fa lo stesso effetto? Con l’adolescenza la fissa del galeone era scomparsa, o rimasta latente. Da adulto, ebbe ben altri pensieri. Fatto sta che il malato, o il malato immaginario, non più bambino da tempo, ricevette una visita del babbo col cane. Passando da un mercatino dell’usato aveva trovato quel famoso galeone in plastica e, per scherzo o per altri motivi, ebbe a comprarlo. Lo consegnò al figlio che improvvisamente riprese colore. Se ne vergognava (e mai lo disse con alcuno) ma giocò con esso fino a guarire del tutto. Poi chiuse il galeone in libreria, sotto vetro, come se l’avesse sempre avuto: ne era fiero e contento, ma non lo guardò quasi più. FENOMENO Un misterioso fenomeno atmosferico aveva trasformato la popolazione in pesci. Erano mantenute in tutti, sì, le fattezze umane, ma non vi era più nulla di umano. Né il respiro, né il bisogno di bellezza, né l’anima, né il desiderio pertinace e risorgente. Scomparvero perfino i ricordi, e il senso del tempo.
Tanto che nessuno sapeva più cos’era la coscienza, nessuno aveva cognizione di parlare o scrivere, né far di conto. L’importante era sopravvivere, e basta, nel freddo silenzio dagli occhi grandi. Ciò durò per almeno una settimana, la prima di giugno. In questo periodo ciascuno continuò ad essere senza pensare di esserlo. Il ricordo dell’umanità era perduto. Poi svanì tutto, grazie all’anticiclone. Non proprio tutto, sarebbe meglio dire svanì in parte. Ormai per i più la conversione da uomo a pesce era diventata incontrovertibile. Infatti, il signor Graniti, laureato a suo tempo presso la Facoltà di Non Rispondere, dopo qualche tempo ebbe un barlume dell’antico sé. Si era appena sposato, e non sapeva bene come dirlo alla moglie. “Ho un segreto” – macinava dentro le viscere, stranamente consapevole della singolare mutazione. “Ho un segreto” – ripeteva, facendo le prove per il momento in cui avrebbe dovuto confidarsi con la moglie. “Ho un segreto”. “Di cosa si tratta”? – chiese lei, decisamente apprensiva. “Non te l’ho mai detto, ma sono un pesce”. RAGÙ D’ERZEGOVINA Improbabile come il ragù mangiato in Erzegovina. Improbabile come quella volta in cui vidi dei cammelli in Assia. “Lassù – mi diceva il padrone di casa in un inglese assai poco comprensibile – sulla collina c'è una specie di arena all'aperto, non certo come quella di Verona”. E rideva. Ridendo si aprì una fessura nella parete del corridoio sovrastante. Da essa si spalancava un vuoto, un vuoto che dava davvero l'idea, la percezione, di sentirsi risucchiarsi il sangue, l'anima. Una sensazione prossima allo svenimento, all'implosione della carne, un mancamento, una frana intestina, interiore. Improbabile come il ragù mangiato in Erzegovina, in quella pensione colorata all'eccesso e fuori dal tempo, improbabile come la sagoma di quei cammelli nella lontana regione del vento. Eppure era così, era vero così. Nel vuoto vorticavano tante lettere e si disponevano fino a trarne un significato. La parola scritta si posava sul pavimento trasparente e formava gli oggetti corrispondenti. E anche le città, se si trattava di nomi di città. Non mi ero mai accorto che i nomi delle città, per un certo senso, raffigurano il luogo stesso. Qualche esempio? Roma: dove la lettera “r” ricorda le colonne mozze del foro in rovina, la “o” è il colosseo, la “m” può essere l'arco di Costantino o il Ponte Milvio, la “a” l'abbraccio di San Pietro. Milano, dove “m” è il Duomo, la “l” la verticalità del Pirellone, la “n” la galleria Vittorio Emanuele. E Venezia, dove la “z” è il corso del Canal Grande, “ia” sono le forme tondeggianti di San Marco ed “e” ricorda una gondola. Forlì, dove la “f” è la torre civica, la “o” la grande piazza, “rl” ripete la facciata dell'Abbazia di San Mercuriale e la “i” con l'accento ricorda la statua di Icaro o il monumento alla Vittoria. E Rimini, nella grafia, non è l'immagine del ponte di Tiberio o delle onde del mare? Ero così rapito da tale immagini e da tali pensieri che non mi ero accorto che quella ragazza mi aveva messo dell'erba tagliata sui miei pantaloni, come per catturare la mia attenzione così persa, come per attrarmi in uno scherzo. Ella, dalla bellezza così enimmatica, dagli occhi scuri che potenziano uno sguardo vagamente sdegnato, forte, incisivo. Quello
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sguardo mi trasse dal vuoto e mi riportò nel vero, mi scossi, finalmente. Eppure, questo racconto, così improbabile, quanto resisterà al tempo? Supererà il ricordo? Lascerà qualcosa in un tempo in cui la memoria digitale sarà svanita per sempre? Nasceranno nuovi amanuensi o le tracce del nostro presente si smarriranno nel vuoto? Franco Santamaria (1937 ) ― Poviglio (Re)
I CAVALLI DI GRANO romanzo inedito Tratto dal 1° capitolo
[...] “Domani si deve andare al paese. Per sapere se Vincenzo Caputo fa la zona del Monte, quest’anno, e accordarsi per la trebbiatura”. Salvatore si era alzato anche lui da tavola. Si avvicinò al fratello fermo sull’uscio ad osservare la campagna resa più assolata dal giallo delle stoppie e dell’erba secca. “Se non ci preoccupiamo di farlo subito”, continuò, “rischiamo di trebbiare chissà quando. Tomasino Dralano, dopo l’incidente dell’anno scorso, non salirà più al Monte”. Giovanni assentì senza voltarsi. “Tolto lui, solo Vincenzo Caputo nel nostro paese ha la trebbia adatta a zone come il Monte”. I proprietari di trebbie funzionanti da ferme sulle aie andavano sostituendole con le moderne mietitrebbie, ottime a mietere e trebbiare insieme direttamente nei campi, però inadatte per terreni fortemente in pendio. “Se nemmeno lui viene, addio! Dovremo rivolgerci, noi e tutti i contadini del Monte, a qualche trebbiatore dei paesi di montagna e questo ci costerà tutta la raccolta”. “La strada per venire qui, sul petto del Monte, è molto rischiosa. Tomasino Dralano non farà più questa zona, è sicuro. Lo giurò l’anno scorso. È inutile andare a chiederglielo”. Giovanni ricordò la scena: Tomasino per terra con un braccio spezzato, la trebbia rovesciata di lato, il trattore fuori dalla carreggiata, quasi sull’orlo di un burrone. La trebbia aveva lasciato la masseria e saliva più su, sul Monte, per portarsi in un’altra aia. Lui e Salvatore erano accorsi richiamati dalle grida, avevano aiutato prima a rimettere il trattore in carreggiata e poi Tomasino a salire sul trattore per essere portato al paese. E Tomasino che giurava che mai più ci sarebbe salito sul Monte! “Sì, è inutile andare da lui!”, ripeté Salvatore. Si fermò un attimo, poi riprese con stizza: “Ma che diamine! Quando anche Tomasino e Vincenzo decideranno di to-gliersi quel tipo di trebbia, chi salirà più su questa montagna? Con la mietitrebbia è impossibile passare da un campo all’altro, qui, sul Monte”. Aveva parlato tutto d’un fiato, visibilmente preoccupato per la trebbiatura di quell’anno e soprattutto degli anni futuri. Per un attimo spinse l’immaginazione all’aspetto estremo del problema: il ritorno alla battitura del grano con buoi e muli, così come si faceva un tempo molto remoto. Proseguì quasi seccato: “Mi chiedo perché i nonni hanno scelto la montagna per avere una proprietà. Nel 10
territorio di Tursi ci sono anche terreni pianeggianti o appena collinari”. “Non hanno potuto scegliere”, corresse Giovanni, “hanno dovuto comprare qui perché non avevano i soldi per comprare della terra in pianura. Roba per ricchi la pianura”. “Già!” Il nonno paterno era emigrato in Sudamerica intorno agli anni ’20. Aveva lavorato in una ‘fazenda’ delle sterminate pampas argentine ‘più di una bestia’, di notte e di giorno, e aveva risparmiato patendo anche la fame pur di fare subito ritorno al paese, di cui sentiva un’insopportabile nostalgia. Dal paese era stato lontano solo cinque o sei anni, ma tanto gli era bastato per mettere da parte un po’ di soldi e comprare, ritornando, della terra sulla costa del Monte. “Ma poi”, riprese Giovanni ricordando ciò che aveva imparato a scuola, “i grandi proprietari trovavano conveniente vendere terreni montagnosi e aridi e tenere per sé la parte migliore dei loro fondi. Questo succedeva già ai tempi dei nostri nonni, ma in seguito, con la riforma agraria, divenne ancora più conveniente. Era lo Stato a pagare e pagava come se acquistasse terra di prima qualità!” Parlando, lentamente erano giunti accanto ai due cavalli di grano in mezzo all’aia, finiti di alzare da poco. Qui, ogni anno, i fratelli Alonsi trasportavano i covoni dopo averli raccolti per i campi, e li disponevano in due alte e voluminose mete (i ‘cavalli’), l’una di fronte all’altra così da accogliere nel mezzo la trebbiatrice. Dopo l’aia, la costa della montagna riprendeva la sua fisionomia degradante e sconnessa, con campi mietuti e macchie di lentischio e, di tanto in tanto, colonie di querce nane, di pini e di arbusti di sottobosco. Sparse qua e là si alzavano le piccole gobbe dei calanchi. “È il nostro Golgota, questa terra. Scomoda e poco generosa, ma questa nostra terra sul Monte mi dà la gioia di vedere il sole prima di quelli che vivono giù, in pianura, la mattina!”, osservò Giovanni. Salvatore lo guardò sorridendo, quasi canzonatorio di quel dire ‘poetico’ del fratello, ma gli impose deciso: “Andrai tu al paese domani mattina. Io intanto finirò di livellare l’aia tra i cavalli di grano”. Giovanni fece un gesto di disappunto, passandosi una mano sulla fronte sudata e poi sulla guancia. Non amava andare in paese. “Contavo di finirlo io questo lavoro. Oggi pomeriggio”. “Nel pomeriggio avremo da spostare, controllare e sistemare i cassoni. Ce n’è uno quasi sfondato”. I due si separarono. Giovanni attraversò lo stretto corridoio tra le biche, a passo lento come a misurarne le dimensioni e valutarne il grado di resa, come aveva fatto al termine dell’accavallamento. E come allora, provò un forte sentimento di sconforto. Proseguì poi verso il ciglio dell’aia dove sorgevano macchie di lentischio che quasi racchiudevano un rettangolo di pochi metri quadrati di terreno ricoperto da cespugli di avena secca. Il sole scottava, una lamiera infuocata sul petto nudo. “Oggi è davvero duro!”, osservò a voce alta. Si fermò nel mezzo del rettangolo di terra, volto verso la distesa di aranci lungo il fiume Agri, mentre veniva invaso da un’onda di ricordi tristi ed evanescenti come il riverbero che saliva dai campi di stoppie. [...] Fonte: http://www.modulazioni.i
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Ambra Simeone (1982) ― Monza (Mi)
CERTI INSONNI NEL MEZZO DELLE ORE Un nuovo mondo, ma poi sempre lo stesso. Solite sedie sporche di qualcosa, solito bancone pieno di mosche, soliti tizi senza lavoro, né arte, né parte. L’unica scoperta è sapere cosa ci troverai sul pavimento, sui tavolini, sui sedili imbottiti a metà. A volte un pezzo di pane, altre volte uno scolo di bottiglia, noccioline ammuffite, e di tanto in tanto la vera pacchia; un tizio nuovo, uno che non è di lì. Nuovo mondo ma poi sempre lo stesso, e lo conosce bene lui, dentro il bar sotto casa. La casa di tutti quelli che non ce l’hanno, di tutti quelli che come lui non riescono a dormire più di tre o quattro ore a notte. Eccolo là, il nuovo acquisto, il forestiero che mai avrebbe immaginato. La novità buona per tenersi svegli, quel buon motivo, oltre alla voglia di scappare via dal solito letto di chiodi. Ma poi come attaccare bottone? La notte è ancora tanto lunga, troppo lunga, per rimanere senza scambiare due parole. «Ehi... me la offri una birra?» L’altro alza gli occhi scavati, e fa cenno al barista. Troppe mani e pugni sono volati lì su quel bancone; pieno di ti amo, di claudia & marcella amiche per sempre, di peppe & monica tutta la vita insieme e tante altre stronzate che ci ha scritto su la gente. Beve soltanto lui, quel che basta per farsi venire il sonno e poi non esagera mai. L’alcool è solo un buon amico per incontrare altri amici. Chi altro può dire lo stesso? Qual è la storia dello straniero? Ora deve scoprirlo... Forse ha la sua età; e poi non si capisce mica tanto bene, perché i suoi quaranta sembrano trenta, e ne è orgoglioso. E cosa fa di bello nella vita? Mani da muratore, da camionista o semplicemente da vagabondo? Certo che sembra un tipo fine, un tipo importante... forse, a pensarci bene, è solo un po’ eccentrico. Eccolo là, il nuovo arrivato, alle 3 del mattino. Nuovo mondo, ma poi sempre lo stesso; tutto da scoprire in quella notte che lo ha buttato fuori dal letto come tante altre, mentre mastica le sue noccioline e manda giù un po’ di fuoco. Alle 5 del mattino, Sara nella solita stanza. La sua bambina che non smette di piangere, nessuno che l’aiuta a farla addormentare. Che so... una nonna premurosa, un padre amabile, comprensivo, un marito che porta i bimbi a scuola, che lava i piatti, pulisce un po’ la casa; insomma uno di quelli che si vedono solo nei telefilm americani. E invece no, da sola con Martina che non smette di piangere, che forse ha già scoperto tutto della vita, perciò non le riesce di smettere. Martina con gli occhi come il cielo in inverno e lacrime di pioggia e nuvole che non vogliono andar via. La mamma che le canta la ninnananna e l’abbraccia, tante coccole, perché riesca a dormire e a sognare.
Riservato solo a lei tutto quell’amore, che tanti l’hanno rifiutato, e non solo gli uomini. bambina fortunata; una manna d’amore solo per lei, cuore di mamma. Ancora sonno, Sara, che anche stanotte non dormirà più di tre o quattro ore, ma non le importa affatto. Saluta così il nuovo giorno e il lavoro part-time, finché il suo capo glielo permetterà. «Ultimamente arrivi sempre tardi a lavoro! Perché tutti quei giorni di malattia? E perché non fai qualche straordinario in più come gli altri?» Il capo isterico non sa; i capi non sanno mai, e non c’è bisogno di aggiungere altro. Martina dolce bambina, ora prende sonno. Così finalmente appoggia il biberon sul lettino rosa e prende sonno anche la mamma, prima dell’alba; quelle poche ore che le sono rimaste. Solo tre ore, massimo quattro per dormire. La storia si ripete in quella piccola casa. Una stanza in affitto, neppure sua veramente. Un letto a una piazza e mezzo, che all’occorrenza diventa tavolo da pranzo, scrivania, prima fila per il cinema. Lavoro oscillante come tutti, studio oscillante più degli altri; e nessuna novità, almeno non per lui. Così esce fuori sul piccolo balcone che dà sul palazzo di fronte; a prendere un po’ d’aria, a giocare con le stelle, che tra poco spariranno. Stavolta non vuole piangere, vuole ridere e ridere fino a farsi male, fino a quando i muscoli del viso gli fanno male. Come quella volta al parco dei mostri, quando entravano nelle statue e pensavano di spaventare i turisti, saltando fuori all’improvviso e dire: «Siamo qui, ci vedete?» Ecco perché vuole reagire, almeno stavolta e non pensare a lei, donna che pensava fosse sua per sempre. Pazza più di lui, ma non fino a questo punto. Poteva aspettarlo, poteva dargli l’ultima possibilità; lui poteva darsi l’ultima possibilità. Il balcone è nero, come sempre; lì non ci arriva mai la luce, neppure di mattina. Sergio fuma la sua sigaretta, altro che boccata d’aria. Si sporge per vederci meglio, una volta per tutte, perché non riesce a vedere oltre tutto quel nero. Dove finisce il balcone e dove inizia il marciapiede di sotto? Squilla il telefono, ma non risponde. Potrebbe essere Nino con il solito cornetto, lui proprio non riesce mai a dormire. Voglio un’altra mezz’ora fuori il mio balcone, manca poco e poi si vedrà. Bussano alla porta, torna dentro. Quando la apre vede lei una maschera di lacrime, non sa perché è tornata, ma gli molla un bacio sul naso, poi sulle labbra, e poi solo lacrime ancora. «Va bene, va bene» le dice «usciamo a vedere l’alba.» Quasi le 6 del mattino, aria umida stranamente. Prendono il solito mp3 nel cassetto; i Nirvana di Nevermind, due cuffiette per ognuno, e sapete già come va a finire. Il balcone sembra meno alto, il buio sotto sta scomparendo. Ora si vede il marciapiede con le mattonelle rialzate dalle piogge e dagli alberi. La voce sottotono di Kurt, canta Polly. Alzano il volume abbracciati a terra e niente più parole. Lui e lei con la coperta di pile poggiata sulle gambe, con il giorno che
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nasce e la notte che hanno ucciso. Alba... ultima scena con lieto fine.
…Grandi Tracce… Grandi Tracce… Grandi Tracce... Vittorio Alfieri (1749-1803)
VITA
Epoca seconda
ADOLESCENZA
Abbraccia otto anni d'ineducazione. CAPITOLO QUINTO
Varie insulse vicende, su lo stesso andamento del precedente. Nell'inverno di quell'anno 1762, il mio zio, il governatore di Cuneo, tornò per alcuni mesi in Torino; e vistomi cosí tisicuzzo, mi ottenne anche alcuni piccoli privilegi quanto al mangiare un po' meglio, cioè piú sanamente. Il che aggiunto ad alquanta piú dissipazione che mi procacciava quell'uscire ogni giorno di casa per andare all'Università, e nei giorni di vacanza qualche pranzuccio dallo zio, e quel sonnetto periodico di tre quarti d'ora nella scuola; tutto questo contribuí a rimpannucciarmi un pochino, e cominciai allora a svilupparmi ed a crescere. Il mio zio pensò anche, come nostro tutore, di far venire in Torino la mia sorella carnale, Giulia, che era la sola di padre; e di porla nel monastero di Santa Croce, cavandola da quello di Sant'Anastasio in Asti, dove era stata per piú di sei anni sotto gli auspici di una nostra zia, vedova del marchese Trotti, che vi si era ritirata. La Giulietta cresceva in codesto monastero di Asti, ancor piú ineducata di me; stante l'imperio assoluto, ch'ella si era usurpato su la buona zia, che non se ne potea giovare in nessuna maniera, amandola molto, e guastandola moltissimo. La ragazza si avvicinava ai quindici anni, essendomi maggiore di due e piú anni. E quell'età, nelle nostre contrade per lo piú non è muta, ed altamente anzi già parla d'amore al facile e tenero cuore delle donzelle. Un qualche suo amoruccio, quale può aver luogo in un monastero, ancorché fosse pure verso persona che convenientemente l'avrebbe potuta sposare, dispiacque allo zio, e lo determinò a farla venire in Torino; affidandola alla zia materna, monaca in Santa Croce. La vista di questa sorella, già da me tanto amata, come accennai, e che ora tanto era cresciuta in bellezza, mi rallegrò anche molto; e confortandomi il cuore e lo spirito, mi restituí anche molto in salute. E la compagnia, o per dir meglio il rivedere di tempo in tempo la sorella, mi riusciva tanto piú grato, quanto mi pareva che io la sollevassi alcun poco dalla sua afflizione d'amore; essendo stata cosí divisa dal suo innamorato, che pure si ostinava in dire di volerlo assolutamente in isposo. Io andava dunque ottenendo dal mio custode Andrea, di visitare la mia sorella quasi tutte le domeniche e giovedí, che erano i nostri due giorni di riposo. E assai spesso io passava tutta la mia visita di un'ora e piú, a pianger con essa alla grata; e quel piangere, parea che mi giovasse moltissimo; sicché io tornava sempre a casa piú sollevato, benché non lieto. Ed io, da quel filosofo ch'io m'era, le dava anche coraggio, e l'incitava a persistere in quella sua scelta; e che finalmente essa poi la 12
spunterebbe con lo zio, che era quello che assolutamente vi si opponeva il piú. Ma il tempo, che tanto opera anco su i piú saldi petti, non tardò poi moltissimo a svolgere quello di una giovanetta; e la lontananza, gl'impedimenti, le divagazioni, e oltre ogni cosa quella nuova educazione di gran lunga migliore della prima sotto la zia paterna, la guarirono e la consolarono dopo alcuni mesi. Nelle vacanze di quell'anno di Filosofia, mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano, dove si davano le opere buffe. E questo fu un segnalato favore che mi volle fare lo zio architetto, che mi dové albergare quella notte in casa sua; stante che codesto teatro non si poteva assolutamente combinare con le regole della nostra Accademia, per cui ogni individuo dev'essere restituito in casa al piú tardi a mezz'ora di notte; e nessun altro teatro ci era permesso fuorché quello del re, dove andavamo in corpo una volta per settimana nel solo carnevale. Quell'opera buffa ch'io ebbi dunque in sorte di sentire, mediante il sotterfugio del pietoso zio, che fece dire ai superiori che mi porterebbe per un giorno e una notte in una sua villa, era intitolata il Mercato di Malmantile, cantata dai migliori buffi d'Italia, il Carratoli, il Baglioni, e le di lui figlie; composta da uno dei piú celebri maestri. Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per cosí dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni piú interna fibra, a tal segno che per piú settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e nausea per quei miei soliti studi, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d'idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi. E fu questa la prima volta che un tale effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente impresso nella memoria, perch'egli fu assai maggiore d'ogni altro sentito prima. Ma andandomi poi ricordando dei miei carnovali, e di quelle recite dell'opera seria ch'io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno dopo un certo intervallo, ritrovo sempre non vi essere il piú potente e indomabile agitatore dell'animo, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta piú affetti, e piú vari, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell'atto del sentir musica, o poche ore dopo. Essendo scorso cosí il mio primo anno di studi nell'Università, nel quale si disse, dai ripetitori (ed io non saprei né come né perché) aver io studiato assai bene, ottenni dallo zio di Cuneo la licenza di venirlo trovare in codesta città per quindici giorni nel mese d'agosto. Questo viaggetto, da Torino a Cuneo per quella fertilissima ridente pianura del bel Piemonte, essendo il secondo ch'io faceva da che era al mondo, mi dilettò, e giovò moltissimo alla salute, perché l'aria aperta ed il moto mi sono sempre stati elementi di vita. Ma il piacere di questo viaggio mi venne pure amareggiato non poco dall'esser costretto di farlo coi vetturini a passo a passo, io, che quattro o cinque anni prima, alla mia prima uscita di casa, aveva cosí rapidamente percorso quelle cinque poste che stanno
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tra Asti e Torino. Onde, mi pareva di essere tornato indietro invecchiando, e mi teneva molto avvilito di quella ignobile e gelida tardezza del passo d'asino di cui si andava; onde all'entrare in Carignano, Racconigi, Savigliano, ed in ogni anche minimo borguzzo, io mi rintuzzava ben dentro nel piú intimo del calessaccio, e chiudeva anche gli occhi per non vedere, né esser visto; quasi che tutti mi dovessero conoscere per quello che avea altre volte corsa la posta con tanto brio, e sbeffarmi ora come condannato a sí umiliante lentezza. Erano eglino in me questi moti il prodotto d'un animo caldo e sublime, oppure leggiero e vanaglorioso? Non lo so; altri potrà giudicarlo dagli anni miei susseguenti. Ma so bene, che se io avessi avuto al fianco una qualche persona che avesse conosciuto il cuor dell'uomo in esteso, egli avrebbe forse potuto cavare fin da allora qualche cosa da me, con la potentissima molla dell'amore di lode e di gloria. In quel mio breve soggiorno in Cuneo, io feci il primo sonetto, che non dirò mio, perché egli era un rifrittume di versi o presi interi, o guastati, e riannestati insieme, dal Metastasio, e l'Ariosto, che erano stati i due soli poeti italiani di cui avessi un po' letto. Ma credo, che non vi fossero né le rime debite, né forse i piedi; stante che, benché avessi fatti dei versi latini esametri, e pentametri, niuno però mi avea insegnato mai niuna regola del verso italiano. Per quanto io ci abbia fantasticato poi per ritornarmene in mente almeno uno o due versi, non mi è mai piú stato possibile. Solamente so, ch'egli era in lode d'una signora che quel mio zio corteggiava, e che piaceva anche a me. Codesto sonetto, non poteva certamente esser altro che pessimo. Con tutto ciò mi venne lodato assai, e da quella signora, che non intendeva nulla, e da altri simili; onde io già già quasi mi credei un poeta. Ma lo zio, che era uomo militare, e severo, e che bastantemente notiziato delle cose storiche e politiche nulla intendeva né curava di nessuna poesia, non incoraggí punto questa mia Musa nascente; e disapprovando anzi il sonetto e burlandosene mi disseccò tosto quella mia poca vena fin da radice; e non mi venne piú voglia di poetare mai, sino all'età di venticinque anni passati. Quanti buoni o cattivi miei versi soffocò quel mio zio, insieme con quel mio sonettaccio primogenito! A quella bestiale filosofia, succedé, l'anno dopo, lo studio della fisica, e dell'etica; distribuite parimente come le due altre scuole anteriori; la fisica la mattina, e la lezione di etica per far la siesta. La fisica un cotal poco allettavami; ma il continuo contrasto con la lingua latina, e la mia totale ignoranza della studiata geometria, erano impedimenti invincibili ai miei progressi. Onde con mia perpetua vergogna confesserò per amor del vero, che avendo io studiato un anno intero la fisica sotto il celebre padre Beccaria, neppure una definizione me n'è rimasta in capo; e niente affatto so né intendo del suo dottissimo corso su l'elettricità, ricco di tante nobilissime di lui scoperte. Ed al solito accadde qui come mi era accaduto in geometria, che per effetto di semplice memoria, io mi portava benissimo alle ripetizioni, e riscuoteva dai ripetitori piú lode che biasimo. Ed in fatti, in quell'inverno del 1763 lo zio si propose di farmi un regaluccio; il che non m'era accaduto mai; e ciò, in premio di quel che gli veniva detto, che io studiava cosí bene. Questo regalo mi fu annunziato tre mesi
prima con enfasi profetica dal servitore Andrea; dicendomi che egli sapeva di buon luogo che lo riceverei poi continuando a portarmi bene; ma non mi venne mai individuato cosa sarebbe. Questa speranza indeterminata, ed ingranditami dalla fantasia, mi riaccese nello studio, e rinforzai molto la mia pappagallesca dottrina. Un giorno finalmente mi fu poi mostrato dal camerier dello zio, quel famoso regalo futuro; ed era una spada d'argento non mal lavorata. Me ne invogliai molto dopo averla veduta; e sempre la stava aspettando, parendomi di ben meritarla; ma il dono non venne mai. Per quanto poi intesi, o combinai, in appresso, volevano che io la domandassi allo zio; ma quel mio carattere stesso, che tanti anni prima nella casa materna mi aveva inibito di chiedere alla nonna qualunque cosa volessi, sollecitato caldamente da lei di ciò fare, mi troncò anco qui la parola; e non vi fu mai caso ch'io domandassi la spada allo zio; e non l'ebbi.
7) Continua
Selma Lagerlöf (1858 – 1940)
LA SACRA NOTTE
A cinque anni ebbi un gran dolore. Non so se ne ebbi mai uno più grande. Tutti i giorni fino a quel giorno, la mia Nonna stava seduta nell'angolo del sofà nella sua cameretta e raccontava le fole. Io non so altro, che Nonnina sedeva e raccontava; raccontava da mattina a sera e noi bimbi si stava seduti quieti vicino a lei ad ascoltare. Che vita meravigliosa! Per nessun bimbo gli anni dell'infanzia erano stati così belli come per noi. Non ricordo molto della mia Nonna. Ricordo soltanto che. aveva dei bei capelli bianchi come la neve; che andava molto curva, sedeva sempre nel suo cantuccio del sofà e faceva la calza. Poi ricordo ancora che, finito il racconto, soleva posarmi la mano sul capo e dire: «E questo è così vero come io vedo te e tu vedi me». Rammento ancora che sapeva tante belle canzoni, ma non cantava tutti i giorni. Una di queste canzoni diceva d'un cavaliere, d'una fanciulla del mare e il ritornello era: «Freddo freddo soffia il vento sul vasto mare». Poi rammento una piccola preghiera ch'ella m'insegnava e un verso del salmo. Di tutte le fole che mi raccontava ho soltanto un ricordo vago e lontano. Una sola ne rammento e così chiara, che potrei raccontarla. È la leggenda di quando nacque Gesù. Ecco, questo è l’unico ricordo che ho della mia Nonna dopo quello rimasto vivo e incancellabile: il mio dolore sconfinato quando l'hanno portata via. Alla mattina, quando vidi vuoto il cantuccio del sofà, pensai: come potranno le ore della giornata giungere a sera? Questo lo ricordo bene. Questo non lo dimenticherò mai più. E ricordo che noi bimbi fummo condotti a baciare la mano della Morta, e l'angoscia di baciarla; ma qualcuno ci disse che per l'ultima volta potevamo ringraziare la Nonna di tutta la gioia che ci aveva donato.
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E ricordo come tutti i racconti e le canzoni se ne andarono via di casa, chiuse in quella bara nera, e non tornarono mai più. Ricordo che qualche cosa era scomparso dalla vita, come se dietro un mondo pieno di bellezza e di luce, dove noi si poteva entrare e uscire a nostro piacimento, si fosse chiusa una porta, che nessuno avrebbe saputo più riaprire. E ricordo che noi bimbi s'imparò a poco a poco a giocare con i giocattoli e le bambole; a vivere come gli altri bimbi e potevamo avere anche l'apparenza di non sentire più la mancanza della Nonna e di non avere più nessun ricordo di lei. Ma oggi, dopo quarant'anni, oggi ancora mentre siedo qui e raccolgo le leggende di Gesù udite laggiù nella terra d'oriente, oggi ancora si ridesta in me il ricordo della piccola leggenda quando nacque Gesù, che la mia Nonna usava raccontare. Ed ora mi prende il desiderio di ripeterla e metterla in questa raccolta. *** Era il Natale. Tutti erano andati in chiesa meno la Nonna ed io; credo che noi due fossimo le sole persone rimaste a casa. Non eravamo andate con gli altri, l'una perché troppo giovane, l'altra perché troppo vecchia. E s'era tutte e due tristi di non poter ascoltare il coro mattutino e veder i lumi di Natale. Ma mentre stavamo sedute in quella solitudine, la Nonna cominciò a raccontare : «C'era una volta un uomo, che uscì fuori nella notte per cercare del fuoco. Andò di casa in casa picchiando: — Oh, buona gente, apritemi! La mia donna ha dato alla luce un bambinello ed io devo aver del fuoco per scaldare lei e il piccino. Ma era notte profonda, tutti dormivano, nessuno ascoltava. L'uomo camminò a lungo, a lungo; quando, lontano, vide un chiarore. Rivolse i passi verso quella parte e vide un gran fuoco bruciare all'aperto; e intorno al fuoco gran numero di pecore bianche addormentate e un vecchio pastore a guardia del gregge. Quando l'uomo si avvicinò alle pecore vide tre grossi cani ai piedi del pastore: si destarono, spalancarono le fauci per abbaiare, ma non si udì alcun latrato; poi arricciarono il pelo, mostrarono le zanne scintillanti al fuoco e si gettarono su l'uomo. Egli sentì che tentavano di addentarlo alla gola, alle mani, alle gambe, ma le zanne non obbedivano al morso e l'uomo non ebbe alcun impedimento. Volle allora avvicinarsi al fuoco; ma le pecore giacevano così fitte dorso a dorso, che egli non poteva passare. Ma poi passò su i corpi delle pecore addormentate e nessuna si destò e neppure si mosse.» A questo punto la mia curiosità non poté più frenarsi e interruppi la Nonna: — Perché, Nonna, le pecore non si movevano? Ma essa rispose: — Aspetta un poco e lo saprai — e continuò : «Quando l'uomo giunse vicino al fuoco il pastore alzò gli occhi. Era costui un vecchio burbero e arcigno, duro verso tutti. Vedendo lo straniero afferrò il lungo bastone acuminato e glielo lanciò contro; ma il bastone sibilò per l'aria e quando stava per colpirlo, deviò andando a cadere lontano sul campo.» 14
Qui dovetti interrompere di nuovo la Nonna: — Perché Nonna il bastone non voleva colpire quell'uomo? Ma la Nonna non pensò nemmeno di darmi retta e continuò: «Ora l'uomo si fece vicino al pastore e gli disse: — Amico, aiutami e dammi un po' di fuoco. La mia donna ha dato alla luce un bambinello e devo scaldar lei e il piccino. II pastore avrebbe voluto dirgli di no; ma pensando che i cani non lo avevano morso, che le pecore non si erano mosse; che il bastone non l'aveva colpito, fu preso da timore e non osò negarglielo. — Prendine quanto ne vuoi — disse. Ma non c'era né un ceppo acceso, né un ramo, solo un grande braciere; e lo straniero non aveva né pala né orciuolo per prendere e portar via la brace. Quando il pastore se ne accorse ripetè con gioia cattiva: — Prendine quanto ne vuoi — e pensava: “Non potrà prendere nulla.” Ma l'uomo si chinò e con le mani prese i carboni più accesi e li mise nel mantello. I carboni non gli abbruciarono né le mani né il mantello ed egli li portò via come fossero noci e mele.» Qui interruppi la Nonna per la terza volta: — Perché Nonna, i carboni non volevano bruciare quell'uomo? — Lo saprai — rispose la Nonna, e continuò: «Quando il vecchio pastore, burbero e arcigno, vide questo strano caso, cominciò a stupirsi: “Che notte può essere questa che i cani non mordono, le pecore non si spaventano e il fuoco non abbrucia?” — e richiamò indietro lo straniero: — Che notte è questa? E come avviene che tutte le cose hanno pietà di te? — Non te lo posso dire se non lo vedi da te — e riprese la via del ritorno per portare il fuoco alla donna e al bambinello. Ma il pastore pensò di non perderlo d'occhio per sapere il perché di quei casi così strani, e si levò per seguirlo sino alla sua dimora. Vide che l'uomo non aveva nemmeno una capanna, e la donna e il bambinello giacevano in una grotta ove non erano che nude pareti di pietra. Allora il pastore pensò che l'innocente poteva morire di freddo in quella grotta; e, sebbene duro di cuore, si commosse e volle difendere il neonato dal freddo. Sciolse il sacco, tolse una morbida e candida pelle di pecora e la diede allo straniero per fare un giaciglio al bambinello. Nel momento in cui anch'egli sentiva la pietà, vide ciò che non aveva potuto veder prima e udì ciò che non aveva potuto udir prima. Intorno a lui era una fitta schiera di piccoli angeli con le ali d'argento. Tutti avevano un liuto e cantavano ad alta voce, che nella notte era nato il Salvatore, Colui che doveva salvare il mondo dai peccati. Allora comprese perché tutte le cose non volevano far male ed erano così soavi. E non solo intorno al pastore vedeva gli angeli, ma li vedeva ovunque: nella grotta sul monte e a volo sotto la volta celeste. Venivano a frotte e passando sostavano e gettavano uno sguardo al bambinello. Era grande giubilo, grande letizia e canti e suoni nella notte oscura, dove egli prima non aveva potuto veder alcuna cosa. Ed era così felice che i suoi occhi
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ora fossero aperti e potessero vedere, che cadde in ginocchio e ringraziò Iddio.» Qui la Nonna trasse un sospiro: — Ma ciò che il pastore vide, potremmo vederlo anche noi, perché ogni notte di Natale gli angioli volano sotto la volta del cielo, e se sapessimo vedere, li vedremmo anche noi. E la Nonna mi posò ancora la mano sul capo e disse: — E questo lo devi sempre rammentare, perché è vero come io vedo te e tu vedi me. Non dipende né da
lumi o da lampade, né dalla luna o dal sole, ma soltanto dai nostri occhi, poter vedere lo splendore di Dio. Tratto da Selma Lagerlöf, Le leggende di Gesù; La Nuova Italia, Editrice Firenze 1929, pp. 172; Trad. di Alberta Albertini. N.d.R. Nel racconto ci sono alcune orme d’espressioni che a prima vista potranno sembrare grammaticalmente errate, esse, però, sono corrette, sono un tipico modo di dire toscano come ad es.: «noi bimbi si stava seduti», «noi si poteva entrare», ecc.
DIARIO DI LETTURA & PRESENTAZIONI ____________Galleria Letteraria & Culturale Ungherese____________ Lirica ungherese Kosztolányi Dezső (1885-1936)
HALOTTI BESZÉD
Dezső Kosztolányi (1885-1936) ORAZIONE FUNEBRE
Látjátok feleim, egyszerre meghalt és itt hagyott minket magunkra. Megcsalt. Ismertük őt. Nem volt nagy és kiváló, csak szív, a mi szivünkhöz közel álló. De nincs már. Akár a föld. Jaj, összedőlt a kincstár.
Vedete, fratelli, è morto a un tratto e soli ci ha lasciato. Nell’inganno ci ha tratto. Lo conoscevamo. Non era genio né eccelso, ma era un cuore al nostro appresso. Ma non c’è più adesso. È come la terra. Ahi, si rinserra l’enorme eccesso.
Okuljatok mindannyian e példán. Ilyen az ember. Egyedüli példány. Nem élt belőle több és most sem él, s mint fán se nő egyforma két levél, a nagy időn se lesz hozzá hasonló. Nézzétek e főt, ez összeomló, kedves szemet. Nézzétek, itt e kéz, mely a kimondhatatlan ködbe vész kővé meredve, mint egy ereklye, s rá ékírással van karcolva ritka, egyetlen életének ősi titka.
Voi tutti prendetene esempio. Tale è l'uomo, esemplare unico. Solo di sua specie viveva e esiste ancora e come l’albero priva di foglia che s’assomigli, neppur nell’evo immane sarà chi a lui somigli. Guardate questo capo e i cari occhi infossati. Guardate, queste mani che si disperdono nelle nebbie immani pietrificandosi come reliquia che con cuneiforme incise reca l'antico segreto d’una vita unica.
Akárki is volt ő, de fény, de hő volt. Mindenki tudta és hirdette: ő volt. Ahogy szerette ezt vagy azt az ételt, s szólt, ajka melyet mostan lepecsételt a csönd, s ahogy zengett fülünkbe hangja, mint vízbe süllyedt templomok harangja a mélybe lenn, s ahogy azt mondta nemrég: «Édes fiacskám, egy kis sajtot ennék», vagy bort ivott és boldogan meredt a kezében égő, olcsó cigaretta füstjére, és futott, telefonált, és szőtte álmát, mint színes fonált: a homlokán feltündökölt a jegy, hogy milliók közt az egyetlenegy.
Chiunque fosse, poco conta. Era luce, calore. Tutti sapevano e dicevano quel che era. Gli piacevano certi cibi. La sua voce dalle labbra ora sigillate dal silenzio nelle nostre orecchie risuona come campane di chiese sommerse nell’acqua. Diceva poc’anzi: «Caro figliuolo, mangerei un po’ di formaggio», o beveva vino e guardava felice il fumo di un’ardente sigaretta da poco stretta tra le dita e correva, telefonava, tesseva sogni come i fili variopinti e gli splendeva in fronte il segno che lo proclamava tra i milioni unico.
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Keresheted őt, nem leled, hiába, se itt, se Fokföldön, se Ázsiába, a múltba sem és a gazdag jövőben akárki megszülethet már, csak ő nem. Többé soha nem gyúl ki halvány-furcsa mosolya. Szegény a forgandó tündér szerencse, hogy e csodát újólag megteremtse.
Puoi cercarlo invano, non lo troverai né qua, né nella Città di Capo, neppure in Asia, neanche nel passato e né nel ricco venturo, chiunque può nascere, ma non lui. Mai più s’accenderà sul suo viso quel pallido, strano sorriso. La mutevole, fatata fortuna per rifare il miracolo è troppo meschina.
Édes barátaim, olyan ez éppen, mint az az ember ottan a mesében. Az élet egyszer csak őrája gondolt, mi meg mesélni kezdtünk róla: «Hol volt..», majd rázuhant a mázsás, szörnyű mennybolt, s mi ezt meséljük róla sírva: «Nem volt...» Úgy fekszik ő, ki küzdve tört a jobbra, mint önmagának dermedt-néma szobra. Nem kelti föl se könny, se szó, se vegyszer. Hol volt, hol nem volt a világon egyszer. 1933
Miei cari amici, tutto questo somiglia all’uomo di quella favola in cui la vita all’improvviso pensò a lui e di cui noi narriamo: «C’era una volta…» Poi gli crollò la grave, orrenda, celeste vòlta «Non c’era ...», raccontiamo con pianto stavolta: Giace colui che tentò il bene, muta, diaccia statua di se stesso. Non lo destano lacrima, né verbo, né farmaco. C’era una volta, oppure non c’era nel creato...
1933
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
Prosa ungherese Cécile Tormay (1876 – 1937)
LA VECCHIA CASA*
(A régi ház, Budapest, 1914)
XVI La casa rimase vuota e il silenzio si annidò fra le pareti. Il corridoio rammentava i passi casuali che avevano risonato lungo di esso, il ticchettìo dell'orologio a colonnine riempiva tutte le camere, non attutito da alcun altro rumore. Anna trovò così la casa quando rientrò con suo marito dal viaggio di nozze, che era stato interrotto e al quale più tardi non avrebbe più potuto pensare che come a un bel sogno incompiuto. Ore volanti, parole sussurrate, dolci ansie fanciullesche dei giorni spensierati... e poi l'abitudine agli abbracci di Tamás. La notizia della morte del padre spezzò il sogno e non fu mai più possibile di continuarlo a sognare. Altre cose vennero. Venne la vita e così il primo anno trascorse. Poi, col passare del tempo, lemme lemme, nella vecchia casa il silenzio tornò di nuovo sereno. Il sole oltrepassò le finestre e le camere ogni tanto ripresero ad echeggiare di qualche timida risata; poi a un tratto ammutolivano, quasi vergognandosi d'aver osato, quasi fosse apparsa, ammonendo, l'immagine di coloro che se n'erano andati da quelle porte per non mai più ritornare. E così passò un altro anno ancora. Le pareti ingiallite della vecchia casa si riscaldavano dal sole. Nel cortile-giardino i rosai innalzavano i loro rami fioriti di stupende corone. Le camere già risero liberamente di un giulivo riso fanciullesco. Tutta la casa sorrise come un buon vecchio che si sente di nuovo un poco ringiovanire. In quel tempo Anna cantava delle meravigliose canzoncine. Non le aveva imparate da nessuno, venivano da sé, e il loro ritmo armonico sembrava 16
come il dondolio di una culla. Poi ella aveva sollevato il bimbo con un gesto misterioso che è più splendido ancora di quello dell'amore e di cui segreto il suo braccio era da tempo esperto. E nel frattempo ella pensava allora che quello fosse il gesto per legare l'umanità: una infinita e benedetta catena intrecciata dalle braccia femminili sopra il globo, catena che fu cominciato con la prima donna e con l'ultimo fanciullo sarebbe terminato. — Mamma... — balbettò il piccolo György1. Anna dopo di lui, mentre gettava uno sgaurdo sull’incorniciata immagine sbiadita della signora Krisztina, ripeteva piano quella parola che aveva sempre conosciuto ma non aveva mai potuto rivolgere a sua madre. Anna tese l'orecchio; aveva udito aprire il portone e dei passi inoltrarsi pel corridoio… — Tamás, ti ho tanto aspettato! Avrebbe voluto dirgli altre cose ancora, cose più ardenti, dirgli che lo amava, ma quelle parole si vergognavano di uscire ed altre si sostituivano sulle sue labbra. Ella si volse a suo marito come in attesa di un bacio. Però Illey non se ne accorse del gesto della moglie. Altre cose aveva in mente e pensieroso baciò le mani di Anna dirigendosi verso la luce della finestra e si mise a leggere una lettera. — È arrivata da casa… — disse. — Da casa? Non è forse questa la tua casa? — Anna drizzò lentamente il capo che teneva un po' piegato di un fianco. Tamás non udiva e non vedeva nulla quando si trattava di llle. Il vecchio spano2, la guardia forestale, il parroco, tutta quella gente laggiù ricorrevano con i loro problemi, proprio come se egli fosse ancora sempre il loro padrone terriero. Si occupava dei loro affari ed i suoi occhi risplendevano quando parlava di loro. Anna lo osservava immobile. Di nuovo la impadronì quel pensiero dal quale non poteva liberarsi quando Tamás parlava di llle. Talora le sembrava che suo
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marito se ne andasse, che fosse molto lontano da lei, altrove. — Tamás! — disse piano per richiamarlo a sé. Illey sorrise distratto e continuò a leggere la lettera. Il volto di Anna divenne serio e impenetrabile e la tenerezza, che poco prima ella aveva lasciato scorrere dal cuore senza controllo, ora si isteriliva dolorosamente dentro di lei. Fece per andarsene. — No, non andartene — le disse Tamás —, vieni qui! Leggila pure... Ma Anna non si avvicinò. Rigidamente tenne il suo capo. Dopo l'inutile umile gesto cercò di riprendere il giusto equilibrio. — Lascia stare, Tamás — e nella sua voce c'era quasi dell'avversione —, io non conosco neppure quella tua gente. — Perché dici questo? — Illey si volse a lei con rimprovero. Il tono della voce di Anna aveva tornato a spegnere nella sua anima quella speranza recondita con la quale egli ancor sempre pensava Ille e quella speranza, suo malgrado, prendeva sopravvento. Se potesse spiegare ad Anna queste cose, dirle che tutto quello che riguardava llle, si era annidato nel suo cuore e che egli sentiva nostalgia per la sua terra... Ella l’avrebbe potuto capire? E quelle parole si formavano con insistenza nel suo cervello, egli ne udiva persino il tono, gli sembravano umilianti, come se chiedessero l’elemosina. Però egli sapeva che non le avrebbe mai potuto pronunciare. In questo momento Anna vide lo sguardo severo e freddo del marito. — Perché sei adirato, Tamás? — E gettò uno sguardo alla lettera di Ille. — Ma non capisci te l’ho detto solo così. Tutto ciò mi è estraneo. — Hai ragione! — Egli ebbe un sorriso breve e risentito. Ad un tratto capì che Anna era rimasta completamente estranea alle cose che sono vive nel suo sangue, che facevano parte del suo passato. È estranea e forse ella voleva sempre restare così. Nel silenzio che seguì parve ad entrambi essere tornati indietro di essere allontanati, ma in realtà nessuno dei due si mosse. Poi fu Tamás che se ne andasse e Anna lo seguì con lo sguardo. Nei primi tempi, se non si comprendevano dimenticavano presto ogni malinteso nell'abbraccio. Più tardi era sufficiente il lieve debole pianto infantile nella vicina camera per dimenticare tutto e correre verso la camera e ritrovarsi uniti e stringersi le mani alla soglia della porta. Oggi ciascuno era rimasto solo. Le parole pronunciate gelavano i pensieri di Anna e quelle non dette la inquietavano. Giocava distratta col figlioletto, si trastullava nei cassetti del tavolino da cucire, poi lasciò stare. Volle giungere suo marito, appoggiare il capo sulla sua spalla e fare delle domande e rispondere per allontanare l’oscurità e le incertezze che emergeva tra di loro. Ma Tamás aveva degli ospiti. Dalla stanza verde provenivano le voci dei signori e si sentiva il fumo delle loro pipe. Parlavano della riconciliazione del re con la nazione, dell'incoronazione e di colui che ha incoronato, del Parlamento e di grandi cambiamenti nazionali. Da quando era ristabilita la Costituzione, llley era entrato al servizio dello Stato ed era occupato al Ministero dell’Agricoltura. Anna udì che di là dalla
stanza secondaria disse qualcosa di un’azienda agricola più intensiva. Come parlava Tamás con pacatezza e ragionevolezza mentre il suo cuore era ancora greve e triste. Ad un tratto, dalla porta chiusa, echeggiò una risata di suo marito. Le sopracciglie di Anna divennero rigide e dritte. Si volse dalla porta come se la avessero offesa. Da quel giorno Tamás llley cominciò a frequentare sovente la caccia. I suoi amici, proprietari terrieri di campagna, lo invitavano. Anche laggiù ad llle, la sua paludosa foresta era ricca di selvaggina. Così quando si liberava dall'ufficio prendeva il fucile e partiva, poi tornava a casa di buon umore col volto abbronzato dal sole. Nella stanza verde, là, dove il costruttore Ulwing soleva conservare i suoi piani da costruzione, giacevano le armi. E sopra il divano, al posto dei ritratti degli architetti Fischer von Erlach e Mansard pendeva un quadro inglese raffigurante una scena di caccia. Nelle piccole nicchie dello scrittoio stavano le cartucce e dinanzi all'orologio a colonnine giaceva un coltello da caccia, opera artistica di gran pregio. Anna aveva la sensazione che Tamás non amasse la casa, né la stanza verde, né i buoni vecchi mobili ampiamente imbottiti. — Ma guarda, Anna, queste sedie attorno alla tavola, paiono proprio delle pingui borghesi al mercato che tengono le mani sui fianchi e sembrano scoppiare di benessere. Sorrise in silenzio: — Ma è possibile che tu non veda come sono buffe? Anche a casa, ad Ille, c'era una corposa poltrona simile, era nella camera dei ragazzi. Noi la chiamavamo «la signora Mayer» e le infilavamo una cesta al braccio. Anna arrossì un po' ed imbarazzata accarezzò la fodera a righe. — Ci prendono in giro — diceva come parlando alla poltrona —, pure noi ci apparteniamo l'una all'altra. E improvvisamente si ricordò della scala della casa dei Geramb, di Bertha Bajmóczy... di un'offesa antica…, di una passata collera. E ad un tratto anche le parole del nonno si ravvivarono nella sua memoria: «Io sono un libero cittadino…» Alzò il capo e piegò indietro con superbia il collo giovanile. — Come sei bella così! — disse Tamás con mutato tono di voce. Le spalle della donna si scossero. Quella era la voce di un tempo ed ella la risentì come una coccola. Si guardarono. — Mi ami ancora? — chiese Tamás col suo bacio e la coprì fra le sue braccia. Anna tra le braccia del marito sentiva dissolversi ogni suo pensiero e se stessa. Ora buttò indietro il capo priva di superbia, con quel gesto ancestrale della donna che sente la vittoria di colei che pareva essere vinta. — Amore mio... Poi si tennero a lungo, strettamente, e tra loro due regnò il grande silenzio dei radi, misteriosi, incontri. Quando finì il silenzio, terminò pure la loro intesa ed entrambi tornarono in sé. Il pomeriggio dell'indomani Anna ricevette un telegramma e portandolo fece di corsa le scale. La sua voce era piena di gioia. — Un telegramma di Kristóf! 17
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— È ancora a Baden-Baden? — chiese Tamás con ironia. — Arriva stasera. — Sarebbe ora… Anna abbassò gli occhi, avvilita. C'era sempre un po' d'ironico disprezzo nella voce di Tamás quando parlava di Kristóf e questo le faceva pena. Certo, dalla morte del padre, suo fratello aveva sempre viaggiato; ma Ottó Füger dava ampie notizie e assicurava che trovandosi a casa avrebbe lavorato. Gli affari andavano bene. In casa ora si faceva più lusso che mai. Kristóf aveva fatto rinnovare i vecchi pavimenti di legno, le sale venivano ricoperte da un tappeto e in scuderia si trovavano due bei cavalli da tiro. Al posto di Netti serviva in tavola un servitore e Flórián apriva la porta vestito di una livrea da portiere. Anna riceveva quanto denaro abbisognava per l'andamento della casa, ella non intendeva di affari. Se Tamás non era soddisfatto di tutto ciò, perché non si interessava? Certo il suo dovere sarebbe stato il suo dovere di rivedere i registri. Perché lo rifiutava sempre? Anna pensava che egli disprezzasse gli affari poiché nei suoi pensieri la ditta ed il nome UIwing erano tutt'uno, sentiva una soffocata, sorda offesa in quell'indifferenza ostile di suo marito. Nei primi tempi ella spesso parlava di ciò a Tamás, ma egli taceva sempre in segno di rifiuto. Di tutto questo cercava di dirgli qualcosa, ma egli, come se avesse letto nei pensieri di Anna, la prevenne : — Lascia stare, angelo mio, non voglio intromettermi negli affari della ditta UIwing… — Si rammentò di quanto aveva detto a suo suocero chiedendogli la mano di Anna dicendo che bisogna mantenere anche le cose non promesse… Stese le braccia e prese sua moglie sulle ginocchia. — Restiamo insieme… stasera devo partire: domani dovrò andare a caccia. Anna attorniò col braccio il collo di Tamás. Anche se lo desiderasse non sarebbe riuscita a convincerlo di rimanere. Ma c'era un argomento che, ella lo sapeva, lo avrebbe trattenuto dal partire. Soltanto le dita delle sue piccole mani s’incrociavano sopra il capo del marito come se volessero supplicarlo di non andarsene. Però Tamás le non vide, non percepì nulla di ciò. — Non riesci ad immaginare quanto belli sono adesso i boschi. Anna scosse il capo. Ella voleva sentire tutt’altra cosa e le sue mani mute lo imploravano invisibilmente stringendosi ancora più forte mentre si chinò vicino alle labbra di Tamás. Ella non si scoraggiò, ora sapeva qualcosa che di certo lo avesse potuto trattenerlo. Vittoriosa gli sorrise negli occhi: — Sai che giorno sarà domani? Tamás divenne di buon umore. — Certo lo so; sarà domenica. Potrò andare a caccia. — È il terzo anniversario delle nostre nozze — disse Anna sottovoce. — Davvero? Domani? — Gli occhi di Tamás divennero ancora più caldi di un ricordo riconoscente e strinse forte contro di sé la moglie. Sentiva il contatto del suo corpo snello che si piegava nelle sue braccia. Il suo visino dolce stava stretto al suo e dai capelli s’espandeva un profumo di violetta; egli se ne inebriò. 18
«Però non dice che resterà a casa… — pensò Anna — Questo non lo dice mai.» Quasi la umiliava quella carezza che non si occupava che del corpo. «Sempre, solo quello... non lo voglio.» Con un gesto improvviso allontanò il marito e si rassettò i capelli. Tommaso sentì un vuoto freddo nel suo grembo ove dondolava Anna. Un momento si guardò confuso nell’aria, poi si riprese. Il suo amore era il prepotente desiderio del maschio, non il languido mendicare della tenerezza. Ostinatamente corrugò le sopracciglia. — A che ora parte il treno? — chiese Anna, e si sentì stanca dello sforzo che faceva di parer indifferente. Illey sentì la voce della moglie estranea. «Non mi trattiene, mi respinge» — e mentre pensò questo il suo volto ad un tratto si oscurò dal ricordo del suo desiderio umiliato. Tirò fuori l'orologio, lo rimise in tasca, senza averlo guardato e si affrettò nei preparativi. Tirò fuori le sue armi. Dalla cartuccera uscì un odore asprigno che vi era ancora rimasto dentro dall'ultima volta, qualcosa che sapeva della foresta. Le cinghie di cuoio scricchiolavano delicatamente proprio così come a caccia, quando se le metteva sulle spalle ed esse si soffregavano l'una contro l'altra. I pensieri di Tamás erano già oltre la camera, lontano spaziavano per i liberi campi, sotto il sole. Anna uscì dalla camera senza parlare. La sera mentre addormentava il figlioletto pensò agli anniversari trascorsi… Da quando la vita si era mutata così tra lei e Tamás? Era cambiata poco alla volta, non se ne era neppure accorta. Il bimbo già dormiva. Anna aprì la porta della stanza del Sole e, quasi inconsciamente, dopo tanto tempo, tornò a sedere al pianoforte. Ma non suonò, non cantò; solo appoggiò il capo allo strumento musicale come l'avrebbe appoggiato sulle spalle di una persona cara. Quando Kristóf arrivò, egli vedeva la sorella ancora accanto al pianoforte muto. Anna guardò suo fratello quasi con terrore. Come era cambiato dall'ultima volta! L'abito di taglio inglese gli pendeva floscio dal corpo, i suoi bei capelli pieni di riflessi argentati si erano assai diradati sulle tempie venate d'azzurro, le pupille chiare avevano lo sguardo stanco. — Dov'è Tamás? Come! A caccia? ! — Sei stato ammalato? — chiese Anna che gli stava seduta di fronte alla tavola da pranzo. — Ti pare? Perché? Ma, è stata una cosa da niente. Kristóf mangiava in fretta e parlava quasi affannosamente: — Non ho nulla, ma i miei nervi non sono molto a posto. Peccato, perché mi serviranno. Voglio fare grandi opere; ho imparato tante cose nuove, ma per queste occorrono nervi saldi. Accese il sigaro, ma il fiammifero gli tremava particolarmente fra le dita. — Sai Anna, una volta tutta la vita degli uomini era basata sui muscoli e questi si rendevano forti con una buona educazione fisica. Ora tutto si fonda sui nervi, ma nessuno si cura di essi. Torse un po’ la bocca. Con una mossa particolare, a piccoli scatti, più volte fece scivolare il palmo sulla fronte. Per un attimo era indeciso ma poi domandò alla sorella:
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— Dimmi, Anna, hai anche tu talora il senso che delle corde sottili ti tremino nel collo, fin su nel cervello? — No, non sento mai questo — disse Anna guardandolo fisso. Kristóf rise confuso: — Neppure io lo sento, ma ho sentito parlare di ciò. Un mio amico me lo ha raccontato… Lo sai, i nervi… Anna si strinse convulsamente le mani, ma il suo volto rimase impassibile. — Dì al tuo amico che è ammalato, e si faccia curare. Kristóf mandò in alto il fumo del sigaro. — I nostri vecchi erano assai più resistenti di noi. Ma si capisce, la nostra generazione ha subito troppi colpi durante l'infanzia. Ti ricordi quando la palla di cannone colpì in pieno la casa? E poi l'incendio? Chi era debole di natura ne restò sconvolto; chi era forte, quello ancora si è fatto più forte. Beata te, Anna, ti sei fatta più forte. Ed accanto a te si sta così bene, tu sei sicura e tranquilla. — Allora rimani sempre accanto a me, mio piccolo Krisztó. — Sì, e... dì un po', di notte non ti accade di svegliare di scatto dal terrore improvviso? È vero, a una persona estranea queste cose non si possono chiedere, ma a te... Non hai talora l'impressione, quando sei sola nella stanza, che qualcuno, ad un tratto, si trovi dietro di te, appoggiato al muro, e osservi quello che fai? Anna guardò negli occhi del fratello con terrore. — Ma queste son pazzie... — Le fate della stufa... i topi del pianoforte, ricordi? — disse Kristóf, e sorrise spossato, guardando verso la stanza verde. — E il piccolo György? — si fece forza e sorrise fingendo una certa allegria: — Sarà quasi un signorino ora. Gli ho portato un cavallo da Parigi: ha la macchina dentro e si carica con la chiave, come gli orologi, e allora si mette a correre. I nostri poveri giocattoli a confronto di questo non erano granché! L’ussaro di legno e la bambola Lidi… È incredibile quante cose meravigliose inventano gli uomini! Poi cominciò a raccontare delle macchine, dei locomotivi a vapore, delle città, dei viaggi, dell'Imperatore di Francia, della Borsa di Parigi e della guardaroba dell'imperatrice Eugenia e frattanto fumava un sigaro dopo l'altro. Nella sua voce non c'era più la debolezza e gli occhi si ravvivavano di più in più. Quando scese giù dalla scala fischiettava come un uccello, come una volta. Anna lo aveva sentito intonato, ma non si era affatto tranquillizzata. Da quando la sorella si era sposata, Kristóf abitava al pianoterreno in due camere che una volta avevano servito d'ufficio e che erano rimaste vuote da quando l'azienda si era ristretta. Sul comò della profonda camera ad arco c'erano dei fiori; egli sapeva che li aveva portati Anna; ed era anche lei che aveva messo il tovagliolo di pizzo sul comodino. Per un momento si rallegrò di trovarsi nella sua casa e avvertì il lacchè di non disturbarlo al mattino, poiché voleva dormire. Ma in quell’istante si ricordò che l'indomani doveva trovarsi col capo contabile. Strada facendo aveva sottoscritto molte
cambiali perché Ottó Füger potesse mandargli del denaro. A Baden-Baden aveva sempre perduto, e il soggiorno di Parigi era stato disastroso per il suo portafogli. L'indomani doveva fare i conti. Ignorare quelle cose era stato comodo, ma ora, quello che ne sarebbe venuto non gli piaceva affatto. Avrebbe voluto allontanare quei pensieri, ma erano come le vespe, tornavano sempre e lo pungevano. E gli affari? Come andavano le imprese dacché lui era partito? Le notizie settimanali erano nel suo baule. Egli non aveva mai avuto tempo di consultarle. Tanto era lo stesso. A Parigi aveva seguito la Borsa, dove in un giorno ci si poteva arricchire: purché si avesse del sangue freddo, però. Certo non bisognava mai spaventarsi. Quanto denaro vi aveva visto! Quanto!... Spense la candela e rimase a giacere supino ad occhi aperti. I pensieri gli lasciarono un po' di tregua. Il buio era come un gran vuoto; eppure quante cose eran passate attraverso la sua oscurità! Le fate e i nani di una volta, Zsófi, il suo primo amore, poi le ragazze del marciapiede, attrici, donne, signore belle e distinte che di giorno restavano compassate e indifferenti e la notte divenivano ardenti ed audaci, con mille esigenze. Adesso fine. Non lo interessavano più! Ora si interessava solo di quel benedetto denaro che continuava sempre a scorrere incessantemente tra le mani della gente, come un grande fiume possente attraverso tutto il mondo. Bisognava incanalare quel fiume per far cambiare la sua corsa e farlo scorrere là dove l'uomo desiderava. Vedeva che si faceva così alla Borsa di Parigi ed egli ne aveva ancora dei capogiri. Quanto denaro... Il buio della notte, ad un tratto, non fu più un gran vuoto per Kristóf. Il denaro!... Con esso anche la bugia si trasforma in verità. Per questo la gente corre dietro in tutto il mondo. Per esso si umiliano, imbrogliano, uccidono, ammazzano di più per il denaro che per l’amore. Il denaro, l’onnipotente denaro… Ed ora Kristóf agognava il denaro, come un tempo aveva desiderato le donne. __________________________ 1
Giorgio Lo spano (in ungherese ‘ispán’) è un titolo amministrativo che corrisponde all'italiano gastaldo, in uso nel Regno d'Ungheria e nei paesi romeni e bulgari. * N.d.R.: Il testo originale si legge nella rubrica «Appendice». 2
Traduzione originale di Silvia Rho Traduzione riveduta, completata, note © di Melinda B. Tamás-Tarr 16) Continua
L’ANGOLO DEI BAMBINI: LA FAVOLA DELLA SERA... - Selezione a cura di Melinda B. Tamás-Tarr -
LA STELLA E IL CAMPANILE C'era una volta una stella che, avendo voglia di passeggiare, si mosse sull'immenso cielo. Ma passeggiò così in basso che andò ad urtare contro la cima d'un vecchio campanile.
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In quel campanile abitavano dei pipistrelli che avevano affittato una stanza a Uhu, il gufo, per una discreta somma. Uhu stava seduto sul davanzale della sua finestra e guardava con occhi tristi la notte silenziosa. Era una notte magnifica, così quieta e tranquilla, che pareva d'udire perfino il battito del cuore del mondo. Proprio in quel momento la stella andò a batter la testa contro il campanile che dondolò qualche attimo come un'altalena, col cuore in subbuglio. La stella intontita si guardò intorno: fu allora che incontrò gli occhi del gufo. — Oh, non sai ancora camminare? — domandò Uhu con sussiego. La stella era molto vergognosa d'aver urtato un campanile così grosso: e per di più le colava il sangue dal
naso. Il bravo uccello ne ebbe compassione e le prestò il suo fazzoletto. La stella, dopo che si fu asciugato il naso, si volse al gufo e gli disse : — Ti ringrazio tanto per la tua bontà! Per dimostrarti la mia riconoscenza, ti porterò con me in giro per il mondo. I due amici viaggiarono per l'immenso cielo, visitarono l'America, il Giappone e la Cina. Ma un giorno il gufo disse con nostalgia: — Tutto ciò è molto bello, molto interessante, ma io voglio tornare sul mio campanile, nella bella Italia. Fonte: «100 favole», raccolte da Piroska Tábori, S. A. Editrice Genio, Milano 1934, pp. 220. Traduzionie di Filippo Faber.
Saggistica ungherese Imre Madarász (1962) — Budapest/Debrecen
UN AMORE ITALO-UNGHERESE
La storia dei rapporti fra due nazioni è scritta non solo con il sangue di guerre cruenti e con documenti diplomatici e politici, ma, spesso in modo meno vistoso eppure più duraturo, anche dalle opere letterarie. E non necessariamente ed esclusivamente da capolavori canonizzati come classici. Anzi, da questo punto di vista non di rado libri generalmente ritenuti minori possono rivestire un’importanza maggiore di quelli con un posto eterno nel Parnaso nazionale o, addirittura, universale. Sulle lagune, il breve romanzo giovanile di Giovanni Verga è uno di questi. Non è mai stato annoverato fra le grandi opere della letteratura italiana né fra quelle del suo autore. Nella storiografia letteraria italiana e nella vasta letteratura critica su Verga viene o trascurato o accennato brevemente come il terzo tentativo, dopo Amore e patria e I Carbonari della montagna, di uno scrittore esordiente, di soli ventidue anni, ai primi passi su una strada che lo condurrà alle vette, opera cioè “ante litteram” di un futuro grande classico, interessante, al massimo, da un punto di vista biografico. Benedetto Croce, lo “scopritore” del genio verghiano nel suo saggio, fondamentale nella storia della fortuna e della critica dello scrittore catanese, di fatto “cancella” Sulle lagune dalla serie dei romanzi verghiani, cominciando così il suo testo: “Una peccatrice – il primo romanzo del Verga, pubblicato nel 1866…”, come se i tre romanzi precedenti non fossero 1 neanche esistiti. Luigi Russo mostra un pò di incertezza: da un lato sembra condividere il giudizio del Croce, sostenendo che “l’esordio letterario vero e proprio del Verga comincia con Una peccatrice”, dall’altro canto ritiene Sulle lagune “significativo”, ma solo da un punto di vista “autobiografico” di uno “scolaro ideale” di romanzieri romantici italiani non certo 2 di prim’ordine. È tipico il giudizio di Sarah Zapulla Muscarà che, proprio per la sua tipicità, vale la pena di citare più estesamente: “Queste acerbe prove iniziali di stile e d’immaginazione, pur appartenendo quindi alla preistoria della narrativa verghiana, contengono in nuce precorrimenti lontani ma significativi «presagi» (Debenedetti) del futuro universo artistico a cui lo 20
scrittore approderà con fatica, come sempre accade per le grandi conquiste, percorrendo un itinerario lento e travagliato che ci fa maggiormente apprezzare, con le inevitabili zone d’ombra iniziali lo splendore di un’arte 3 singolare e finalmente matura.” Un’opera, dunque, decisamente poco apprezzata (o, come vedremo più avanti, sottovalutata) dal punto di vista estetico che però ha la sua importanza come documento letterario, non privo di valore artistico, dell’amicizia e della “fratellanza d’arme” italo-ungherese di quell’epoca così gloriosa, anche per i rapporti fra i due popoli, che fu il Risorgimento. Per questo è poco spiegabile e tanto più deplorevole la trascuranza di questo romanzo in Ungheria. Edith Zányi, autrice dell’unica monografia pubblicata finora in lingua ungherese sul Verga, dedica a Sulle lagune un unico breve capoverso, come a una “stazione minore” della carriera letteraria del Verga sulla quale “non possiamo 4 soffermarci” . Géza Sallay, pur essendo un grande ammiratore del verismo verghiano, nelle poche righe scritte sul tentativo letterario del “giovane scrittore”, contrapposto al “maturo artista”, mette l’accento sui 5 suoi difetti linguistici. Per la prima edizione del romanzo bisognava aspettare fino al 1999, quando Sulle lagune (A lagúnákon) è stato pubblicato nella traduzione di Teréz Pollmann nella collana Classici Eötvös (Eötvös Klasszikusok) a cura e con il saggio 6 introduttivo dell’autore del presente articolo. Questo “racconto lungo” – per citare la (auto)definizione del genere letterario nel sottotitolo dato dallo stesso Verga – originalmente è stato pubblicato a puntate sulla rivista fiorentina La Nuova Europa fra il 13 gennaio ed il 15 marzo 1863. L’azione della narrazione è pressochè contemporanea alla sua pubblicazione: si svolge nel 1861 a Venezia, dove la città ancora “irredenta” festeggia con una “nobile dimostrazione patriottica… la notizia dell’entrata di 8 Garibaldi in Napoli”. Siamo dunque nel pieno della seconda guerra d’indipendenza, in una Venezia ancora 9 sotto “il giogo austriaco” , dove i patrioti aspirano alla liberazione e all’unità. E anche le patriote, come la
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protagonista Giulia Collini “parente” delle patriote della nobile schiera che va dalle protagoniste femminili della rivoluzione napoletana e della Repubblica Partenopea del 1799 alle “sorelle d’Italia”, alle donne “che fecero l’Italia” come Giulia Falletti, Teresa Confalonieri, Costanza Arconati, Giuditta Sidoli, Adelaide Cairoli, Anna Giustiniani, Cristina di Belgioioso, Maria Teresa Serego Alighieri Gozzadini, Clara Maffei, Olimpia Rossi 10 Savio, Antonietta de Pace, Virginia Castiglione… Giulia Collini sente “il giogo austriaco” anche sul proprio collo, essendo “protetta” (si fa per dire) dal conte austriaco Kruenn, almeno nelle intenzioni di sua madre perché in verità il nobiluomo (nobile, anche in questo caso per sangue e per rango, non certo per moralità) ha delle attenzioni non propriamente paterne nei confronti della bella giovinetta. Il cuore di Giulia batte invece per Stefano de Keller, ufficiale ungherese costretto a servire nell’esercito austriaco contro le sue convinzioni e i suoi sentimenti patriottici, essendo figlio di uno dei “molti martiri per la causa ungherese… 11 giustiziato dopo Arad che mietè tante nobili teste”. Giulia e Stefano sono dunque uniti non solo dall’affetto reciproco, ma anche dall’odio comune, nazionale e personale insieme, nei confronti della stessa tirannide, l’assolutismo asburgico. Il loro amore che supera il destino avverso e le forze nemiche superiori è tipicamente romantico. Nello stesso tempo, con il superamento delle differenze di popolo, di madrelingua, di rango, di campo è un simbolo della fratellanza delle nazioni oppresse, della „santa alleanza dei popoli”, dell’Europa delle nazioni dell’apostolato mazziniano, così caro al giovane scrittore siciliano, già veterano ed eroe della Guardia Nazionale garibaldina e redattore del giornale dal titolo eloquente Roma degli Italiani. “In qualunque terra voi siate – scrive il Mazzini nella sua «summa» filosofica Dei doveri dell’uomo – dovunque un uomo combatte pel diritto, pel giusto, pel vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, siete tutti fratelli. Una è la vostra origine, una la legge, uno il fine per tutti voi. Una sia la credenza, una l’azione, una la bandiera sotto cui 12 militate.” E il giovane Verga ha imparato questa lezione. Non c’è dubbio che l’ideologia del romanzo è superiore al suo apparato romanzesco-narrativo nel quale, anche se miste di elementi manzoniani (il motivo centrale degli innamorati perseguitati dalla sorte e dai tiranni) e foscoliani (negli ultimi capitoli epistolari), tuttavia dominano le caratteristiche del romanzo d’appendice avventuroso, di un romanticismo “secondo”, tardo e minore, quello dei seguaci italiani e francesi di Alexandre Dumas padre (con i momenti immancabili del segreto, dell’incognito, del riconoscimento, dell’equivoco, dei signori intriganti, del prete indegno, delle lettere segrete e trafugate e così via). La macchina narrativa abbonda di elementi convenzionali di moda nella letteratura “di massa” appena nascente, ma la concezione politica e storica che c’è dietro “salva” Sulle lagune dalla mediocrità o dalla valutazione riduttiva dei soli motivi anticipatori del futuro grande scrittore. La figura più interessante da questa angolazione visiva è senza dubbio Stefano de Keller modellato sugli eroi ungheresi delle lotte risorgimentali come Lajos Tüköry, István Türr, Nándor Éber, Lajos Winkler, Lajos Pálffy. Keller racconta così al
suo amico la sua storia antecedente all’“alzata della tela” del 10 febbraio 1861: “… non volevo essere uno dei satelliti dell’Austria, e studiai il disegno a Pesth, invece di darmi al mestiere delle armi, come mio padre. Venne la coscrizione, ed io fui soldato; ero uffiziale al 1858 nell’esercito del Lombardo-Veneto; in quel tempo diedi la mia dimissione da capitano e passai il confine; fui a Torino, la libera terra che sola allora in Italia accoglieva gli esuli di tutte le schiave nazioni; ivi seguitai a studiare la pittura per occuparmi, mentre rumoreggiavano le notizie di una prossima guerra coll’Austria. Combattei poscia nell’esercito sardo la campagna del ’59, e fatto prigioniero a S. Martino, degradato, fui costretto di nuovo a vestire l’esecrata divisa e a servire forzatamente nelle compagnie di disciplina… Legato per forza a questi carnefici della mia e della tua patria, seguito l’ungherese, io mi unii a te e a tutti i generosi giovani venziani che cospirano per scacciare i loro oppressori; ma io potei giovar poco alla vostra causa, sospetto presso i miei uffiziali e presso la maggior parte dei tuoi concittadini che veggono soltanto in me un uffiziale austriaco… Ebbene!… ciò forma il 13 mio inferno…” Il messaggio morale è chiaro: non si deve giudicare dai tratti esteriori, dalla divisa o dall’appartenenza nazionale, ma dal carattere personale, dall’individualità. È una concezione kantiana in perfetta armonia con l’insegnamento del Mazzini che sta alla base della “filosofia” del “Weltanschauung” del giovane Verga. Il breve romanzo veneziano dell’esordiente scrittore siciliano, con i limiti evidenti e necessari di un genio ancora “in progress” rimane tuttavia un monumento – 14 non sontuoso, per niente “oleografico” – della 15 “primavera di due popoli” . NOTE 1. Benedetto Croce: La letteratura della nuova Italia 3, Laterza, Bari, 1973, 5. Mario Puppo: Manuale critico-bibliografico per lo studio della letteratura italiana, Società Editrice Internazionale, Torino, 1979, 366–367. 2. Luigi Russo: Verga romanziere e novelliere, ERI, Torino, 1959, 23. Luigi Russo: Giovanni Verga, Laterza, Roma–Bari, 1983, 31– 34. 3. Sarah Zapulla Muscarà: Invito alla lettura di Verga, Mursia, Milano, 1976, 70. 4. Zányi Edith: Giovanni Verga, Magyar Nemzeti Könyv- és Lapkiadó Vállalat, Debrecen, 1943, 4. 5. Sallay Géza: Giovanni Verga (1840–1922) in Giovanni Verga: Don Gesualdo mester, Európa Könyvkiadó, Budapest, 1957, II. 6. Giovanni Verga: A lagúnákon – Camillo Boito: Érzelem, Eötvös József Könyvkiadó, Budapest, 1999. 9–61. 7. Zapulla Muscarà, 69. 8. Giovanni Verga: I romanzi brevi e tutto il teatro, Newton, Roma, 1996, 37. (Cfr. Giovanni Verga: I Carbonari della montagna – Sulle lagune, Università Cattolica, Milano, 1975) 9. Verga: I romanzi brevi, 93. 10. Madarász Imre: Parthenophei nagyasszonyok in Madarász Imre: Kultusz, vita, feledés. Olasz irodalom és kúltúrtörténeti tanulmányok, Hungarovox Kiadó, Budapest, 2008, 75–109. Antonio Spinosa: Italiane. Il lato segreto del Risorgimento, Mondadori, Milano, 1994.
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Cfr. Giovanni Spadolini: Gli uomini che fecero l’Italia, Longanesi, Milano, 1993. 11. Verga: I romanzi brevi, 40. 12. Madarász Imre: Mazzini, az Apostol, Nemzeti Tankönyvkiadó, Budapest, 1992, 38–63. Giuseppe Mazzini: Dei doveri dell’uomo – Fede e avvenire, Mursia, Milano, 1984, 58. 13. Verga: I romanzi brevi, 40–41. 14. Carlo Annoni: Il giovane Verga in Verga: I Carbonari della montagna – Sulle lagune, 50. 15. Unità italiana – indipendenza ungherese. Dalla primavera dei popoli alla ’finis Austrie’ a cura di Gizella Nemeth, Adriano Papo e Gianluca Volpi, Associazione Culturale Italoungherese „Pier Paolo Vergerio”, Duino Aurisina, 2009. Erzsébet Sóti — Peschiera del Garda (Vr)
JACOPO PASSAVANTI, UN “EXEMPLUM” DELLA SUA EPOCA ALTO-MEDIEVALE I motivi esaminati nelle predicazioni di Jacopo Passavanti 1. Introduzione dei motivi
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La parola motivo ha diversi significati e la sua definizione dipende dal campo del parlare dove viene usata. Il motivo ha un’origine latina, “MOTÍVUS da 2 MÒTUS part. pass. di MOVÈRE muovere.” Nei secoli questa parola ha ricevuto più significati oltre al significato della sua forma originale. Nel parlato o come primo significato viene usato al posto della causa o ragione. Nel campo delle scienze musicali rappresenta il tema di un pezzo di musica “quello che si riferisce a un particolare personaggio o a una situazione 3 drammatica in un'opera sinfonica o lirica.” Inoltre, “[n]elle arti figurative, nell'abbigliamento, nell'arredamento [rappresenta] un elemento decorativo 4 costante.” Finalmente per quanto riguarda il campo della letteratura, la parola motivo esprime quegli elementi periodici dell’opera letteraria o narrativa i quali 5 includono significati simbolici. “Il motivo narrativo può essere creato attraverso l’uso delle immagini, 6 componenti strutturali, lingua, o altri elementi narrativi.” Lo studio si concentra sul significato ultimo della parola motivo, cioè nell’opera di Passavanti il motivo rappresenta quegli elementi periodici che esprimono significati simbolici. Nel caso dello Specchio della vera penitenza di Passavanti, rappresenta gli elementi periodici e più frequenti, quali sono per esempio gli elementi naturali, come il fuoco o l’acqua, ma anche altri motivi come il legno, il tema della guarigione, quello 1
Rielaborazione del capitolo I motivi esaminati nelle predicazioni di Passavanti – Introduzione dei motivi della tesi Motivi caratteristici nelle prediche di Jacopo Passavanti di Sóti Erzsébet Eszter, Università Péter Pázmány, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Italianistica, Piliscsaba, 2011. 2 Piaginari, Ottorino: Vocabolario Etimologico Della Lingua Italiana Di Ottorino Piaginani, http://www.etimo.it/?term=motivo&find=Cerca Visitato: 04/03/2011 13:30 3 Sabatini, Francesco – Coletti, Vittorio: DISC – Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 1997. pp. 1605-1606. 4 Ibid. p. 1606. 5 http://en.wikipedia.org/wiki/Motif_%28narrative%29 Visitato: 04/03/2011 13:40 6 Ibid. la traduzione è mia.
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della cecità, l’apparizione dei colori, quella dei vari luoghi, la rappresentazione del diavolo, o quella dell’Inferno stesso. Questi elementi o motivi sono rinvenibili con frequenza nell’opera, anzi, spesso appaiono in varie forme. Nell’analisi seguente i motivi saranno studiati secondo vari punti di vista come, per esempio, secondo il loro raggruppamento, il confronto tra loro, o la loro comparazione. Con l’aiuto dello studio e della ricerca dei motivi nella predicazione di Passavanti si potrà vedere quale potrebbe essere il ruolo assunto dai motivi studiati. Se hanno un ruolo rinsaldante dal punto di vista positivo o negativo, cioè Passavanti li ha usati come mezzi d’intimidazione del popolo colpevole, o piuttosto come un mezzo d’incoraggiamento per il raggiungimento della vita eterna. 2. Le interpretazioni degli elementi naturali: l’acqua 7 e il fuoco Nel mondo secondo la tradizione aristotelica si distinguono quattro elementi naturali principali: l’acqua, il fuoco, la terra e l’aria, dove l’acqua è in opposizione con il fuoco e la terra con l’aria. Michel Scouarnec scrive su questi elementi che “[l]’essenzia dell’uomo è il frutto di una felice unione di elementi naturali che fondano la simbolica umana, comune a tutti, come pure 8 la simbolica cristiana.” Nel caso di Passavanti, però, tra questi quattro elementi l’acqua e il fuoco sono quelli che emergono e sono sottolineati e rappresentati più volte. Si può osservare inoltre che questi due elementi appaiono in varie forme durante la predicazione e non solamente nel loro stato grezzo. Tale apparizione è sottolineata anche da Michel Scouarnec: “Tuttavia, questi elementi naturali (terra, acqua, fuoco, aria…) non sono dei simboli che si trovano allo stato grezzo. Gli esseri umani stabiliscono nei loro confronti rapporti diversi a seconda delle epoche e dei luoghi e quando li fanno propri per comunicare tra loro, lo fanno costruendoli a partire dalla cultura propria colorandoli di 9 significati particolari.” In conformità a quest’avvicinamento degli elementi, in altre parole l’acqua e il fuoco, si può constatare che ci sono tanti vari avvenimenti nelle predicazioni. Per primo, l’acqua non è soltanto un elemento essenziale per l’uomo, ma può assumere anche il significato di un simbolo cristiano. Da quest’ultimo punto di vista l’acqua avrebbe diversi significati. Per esempio: “L’acqua è un simbolo di vita, un segno di rigenerazione e di purificazione. Lungo tutto il percorso biblico, l’acqua compare come segni di benedizione divina. […] L’acqua, però può anche essere l’arma della 10 maledizione divina.” In altre parole, si può osservare che l’acqua non è solo in opposizione con il fuoco, ma 7
Rielaborazione del capitolo I motivi esaminati nelle predicazioni di Passavanti – Le interpretazioni degli elementi naturali: l’acqua e il uoco della tesi Motivi caratteristici nelle prediche di Jacopo Passavanti di Sóti Erzsébet Eszter, Università Péter Pázmány, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Italianistica, Piliscsaba, 2011. 8 Scouarnec, Michel: I simboli cristiani, Gribaudi, Milano, 2000. p. 16. 9 Ibid. 10 Feuillet, Michel: Lessico dei simboli cristiani, Edizioni Arkeios, Roma, 2007. pp. 7-8.
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ingloba in sé stessa un’opposizione. Anche Michel Scouarnec richiama l’attenzione sul fatto che l’acqua ha effetti buoni e cattivi, poiché “l’acqua guarisce o contamina, fertilizza oppure distrugge, rinfresca o 11 riscalda […] viene ritenuta pura o impura.” Tuttavia la più importante opposizione che appare, nel caso dell’acqua, è l’opposizione della vita e della morte. Oltre alle opposizioni che l’acqua crea, emerge anche un altro punto di vista durante lo studio quest’elemento. Secondo Michel Scouarnec l’acqua può essere divisa 12 in quattro “dimensioni simboliche principali” : l’acqua germinante e fecondante, l’acqua medicinale, l’acqua battesimale o lustrale e l’acqua del diluvio. Nello Specchio della vera penitenza l’acqua può essere osservata nella forma di un mare o un pelago, di un fiume, oppure come un liquido in un vasello, o nella forma di lacrima o pianto, quella di sudore, di pioggia, e finalmente nella forma dell’acqua benedetta. Nel caso di queste apparizioni si può notare anche il fatto che l’acqua non soltanto appare in varie forme, ma accanto alla forma concreta comprende anche un significato simbolico in tutti i casi. L’immagine del mare o del pelago appare subito nella prefazione della raccolta delle predicazioni. Qui si legge la storia “di coloro che 13 rompono in mare” dove mare tempestoso rappresenta 14 il “dubitoso e angoscioso mare del mondo” o in altre parole il mondo il quale è pieno di prove della vita. Questa immagine del mare si dimostra anche nella predica sulla vergogna, dove Passavanti usa 15 l’espressione “tempestoso mare del mondo.” Timothy Kircher, analizzando l’immagine del mare nel periodo e nei lavori dei domenicani afferma che “[i] domenicani usano la metafora del mare per spiegare una concezione del mondo, del saeculum, come un’arena 16 governata dal tempo.” Per lo più, segnala anche il fatto che “Passavanti e i domenicani sostengono una teologia basata sulla possibilità dell’allontanamento dalle seduzioni del mondo e del tempo come un atto morale della volontà similmente alla nozione monastica 17 di fuga mundi.” Tutto ciò significa che il mare non è altro che il simbolo del mondo immorale circondato dalle seduzioni temporali, cioé con l’immagine del mare anche Passavanti esprime un tipo di temporalità. Dall’altro lato il mare, oltre alla temporalità, può esprimere la morte stessa e si può dire che raffigura l’arma della dannazione divina. L’altra apparizione dell’acqua nello Specchio della vera penitenza di Passavanti è il fiume. Per la prima volta questa immagine può essere notata nell’exemplum del morto risuscitato, il quale vestito 18 entra nel fiume infino a gola. Questa scena è molto simile al battesimo di Cristo, immerso nell’acqua del 19 Giordano. Si scopre anche dall’exemplum dell’uomo
che, da parte sua, vorrebbe vivere una vita terrena facendo penitenza sulla terra, come se fosse quello il Purgatorio in favore di salvare la sua anima. In altre parole, l’acqua del fiume, in questo senso, può comprendere la purificazione dell’anima, come indica 20 anche il significato della parola Purgatorio. L’altro avvedimento del fiume nelle predicazioni si può presentare citando san Gregorio, che affianca la Scrittura al fiume e dice che “la Scrittura è un fiume alto e basso, nel quale il leofante vi nuota, e l’agnello il 21 guada.” Dalla spiegazione si rivela che, da questo punto di vista, il fiume rappresenta l’approccio scientifico della Scrittura, cioè per gli uomini savi e letterati la Scrittura può sembrare senza fondo, mentre per l’uomo semplice porta un semplice ammaestramento. In questa rappresentazione dell’acqua si chiarisce che sia san Gregorio sia Passavanti vogliono riferirsi alla sapienza speciale che la Scrittura può contenere, la quale è raggiungibile per tutti i fedeli. Comunque, l’acqua nella forma di un fiume può essere considerata come benedizione divina e segno della vita. Inoltre va notato che l’acqua del mare è acqua salata, cioè simboleggia la morte, mentre il fiume comprende l’acqua dolce che rappresenta la vita. Dall’altro lato, però, l’acqua salata appare pure nella forma della lacrima. La lacrima e il pianto hanno un ruolo importantissimo nelle prediche di Passavanti, perché Passavanti mette in evidenza che il piangere simboleggia la confessione, cioè il piangere e le lacrime sono le basi della vera penitenza: “come confessare i 22 peccati suoi, piagnere e perquotersi il petto, orare.” Il predicatore ancora sottolinea l’importanza del piangere quando dice che “i Santi nella gloria di paradiso, i quali eglino nella presente vita spregiarono e schernirono, piangendo per la pena e per l’angoscia che 23 averanno” , cioè possono andare al paradiso soltanto coloro che sinceramente si pentono dei loro peccati. Per il pianto penitenziale si possono trovare tanti esempi nelle predicazioni, dove il predicatore usa diversi attributi per descrivere la profondità del dolore. Nella storia del conte di Niversa si vede che il cavaliere, “fortemente piangendo” racconta al conte la storia con 24 Beatrice come una confessione tardiva nel Purgatorio. Ma questo dolore si può notare anche nel caso di Pietro, che ha negato il nome di Cristo ma poi “pianse 25 amaramente il peccato suo” . Anche il cavaliere che ha rinnegato Dio e Cristo per il favore del diavolo, quando si rivolge alla Madre di Dio comincia “divotamente 26 òrare, con lagrime di doloroso pianto.” Anzi, Passavanti fa crescere la tensione descrivendo che il cavaliere finalmente “si partiva, dolente e tristo del peccato, ma lieto e consolato della perdonanza
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Scouarnec: I simboli, op. cit. pp. 32-33. Ibid. p. 33. 13 Passavanti, Jacopo: Lo specchio della vera penitenza, Felice Le Monnier, Firenze, 1856. p. 1. 14 Ibid. p. 5. 15 Ibid. p. 37. 16 Kircher, Timothy: The Poet’s Wisdom. The Humanists, the Church, and the Formation of Philosophy in the Early Renaissance, Brill, I Paesi Bassi, 2006. p. 188. la traduzione è mia. 17 Ibid. la traduzione è mia. 18 Passavanti, Jacopo: Lo specchio, op. cit. p. 15. 19 Matteo 3, 16 12
Purgatorio: lat. PURGARE, che sta per PURIGARE DE PURUS puro e desinenza –IGÁRE, che indica frequenza di atti. Lo stesso che Puri-ficare = Render puro, nettó, cioè Tor via la immondezza e la bruttura, il cattivo, il superfluo. In Ottorino Piaginari: Vocabolario Etimologico Della Lingua Italiana Di Ottorino Piaginani. http://www.etimo.it/?term=purgare Visitato: 5/3/2011 23:34 21 Passavanti: Lo specchio, op. cit. p. 295. 22 Ibid. 36. 23 Ibid. p. 41. 24 Ibid. p. 47. 25 Ibid. p. 34. 26 Ibid. p. 69.
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conceduta.” In questo caso è presente anche il potere medicamentoso del pianto e delle lacrime, cioè dell’acqua. Il predicatore in un altro exemplum descrive il caso di un nobile uomo in Francia il quale era molto vanitoso, ma infine “gli venne un dolore e un pianto di 28 contrizione” , e ha così abbandonato il vanitoso stile di vita. Nella storia un ’iscolario’ a Parigi, si può vedere che nel suo cuore è il “dolore di contrizione” e “tante 29 lagrime gli abbondarono negli occhi.” Fornisce un altro esempio la storia del monaco che ha lasciato il suo ordine ed è stato ferito da una saetta. Anche lui ha confessato i suoi peccati, mentre “tante lagrime 30 soprabbondarono con doloroso pianto.” Si può notare che anche Tais, la bellissima e famosa meretrice, riconoscendo i suoi peccati domanda mercede e 31 penitenza piangendo dal santo Panuzio. Anche il monaco, tentato dal diavolo nel diserto “con lagrimosi 32 sospiri dicendo il male suo.” In questi casi, si può notare che Passavanti descrive questo tipo di pianto sempre con aggettivi dolorosi, sospirosi, profondi che risorgono dal cuore dell’uomo. Così il pianto diventa un tipo di purificazione durante il quale il cuore viene purificato dalle pene e dal peso. L’effetto purificatrice dell’acqua si può notare specialmente quando appare anche l’immagine del bagno, ma nel senso del bagno di lacrime. Si può menzionare l’exemplum di quel giovane che, anche se era fedele cristiano, ha letto tanti libri filosofici ma quando si è ammalato ed è stato portato davanti al giudizio di Dio, piangendo ha promesso di non leggere più tali libri. Poi ritornando alla vita terrena “si trovò tutto 33 bagnato di lagrime.” L’immagine simile appare sia nella Bibbia sia nelle prediche di Passavanti. Il profeta Davide dice nel Salmo che “[i]o laverò per ciascuna notte il letto mio, e bagneròllo colle mie lagrime. Dove intende per ’notte’ la colpa del peccato: onde dice, che per ciascuno peccato egli bagnerà, e laverà la 34 coscienza sua con lagrime di doloroso pianto.” Davanti a questi esempi Passavanti menziona anche la storia di Maria Maddalena “che veggendo ella le macchie della sua sozzura, corse alla fonte della 35 misericordia a lavarsi.” Si può vedere che l’immagine del lavare e del bagno simboleggiano un tipo di purificazione che Passavanti stesso conferma nella sua predicazione, quando dice che “[t]utti i peccati si lavano, 36 anzi l’anima si lava da’ peccati nella confessione.” Riassumendo, si può notare che la lacrima benché sia, similmente al mare, acqua salata, eppure è capace di esemplificare la vita grazie alla sua capacità arcana. L’apparizione dell’acqua anche in forma di liquido, contenuta in un vasello o in una cisterna, ha una qualità beneficiale, e il vasello comprende la qualità malvagia. Per esempio, si può osservare quest’apparizione nella storia di Sant’Arsenio, che ha visto una persona che ha messo un vasello d’acqua in una cisterna rotta e forata.
Qui, secondo l’interpretazione di Passavanti, il vasello d’acqua rappresenta le buone opere, ma allo stesso 37 tempo la cisterna rotta rappresenterebbe le opere ree. Visto che le opere ree sono in preponderanza, in tal modo opprimono quelle buone. Dall’altro lato Passavanti si serve di un altro esempio in relazione al vasello pieno, in questo caso di liquore. Nella predicazione presenta ancora un vasello rotto, dal quale il liquore esce. Il vasello rotto, forato, rappresenta la nostra vita oppure noi stessi, perché noi pure siamo vaselli rotti con fori dove il foro significa il peccato. L’acqua oppure il liquore simboleggiano l’amore di Dio, che ci riempie e alla fine della nostra vita terrena ci dona la possibilità della vita eterna. Da questo punto di vista si può dichiarare che, in questa forma, l’acqua appartiene alla benedizione divina. Però l’apparizione più evidente della benedizione divina nella forma dell’acqua è l’acqua benedetta, poiché questa forma comprende anche la parola “benedetta” nella sua denominazione. L’immagine dell’acqua benedetta è dotata del potere divino, che è più forte del diavolo. Per quest’apparizione, Passavanti cita l’exemplum del cavaliere, nel quale guazzerone del vestito il diavolo si nasconde. Quando il cavaliere è in attesa della messa, il diavolo lo attenta di non toccare 38 l’acqua benedetta. Da questa scena si vede che il diavolo ha paura del potere divino. Inoltre, quando Passavanti predica dei diversi rimedi contro i peccati veniali, denomina allora anche la gettata dell’acqua benedetta, con fede e devozione, come il terzo 39 rimedio. Qui si vede che l’acqua, nella forma benedetta da Dio, ha enorme potere nel proteggere l’anima. Per quanto riguarda il fuoco, si può osservare che questo elemento, similmente comprende in sé un’opposizione. Secondo la definizione di Michel Feuillet “il fuoco è un simbolo ambivalente, poiché ha un ruolo purificatore o distruttore. Rappresenta la vita, 40 così come può dare la morte.” In altre parole il fuoco può rappresentare la vita con “[l]a sua potenza incontrollabile, la mobilità inafferrabile e la luminosità 41 abbagliante [che] ne fanno un’immagine di Dio” e con 42 la sua capacità di purificare “dà la Vita.” Dall’altro lato, però, la morte è rappresentata dal fuoco dell’Inferno che appare nel Vangelo di Matteo: “arderà la pula con 43 fuoco inestinguibile.” Nello Specchio della vera penitenza di Passavanti tutti e due significati principali del fuoco possono essere rinvenibili, cioè può significare sia la morte che la vita. Però la rappresentazione della morte con le diverse apparizioni del fuoco è più frequente. La più conosciuta presentazione del fuoco, simbolo della morte è il fuoco dell’Inferno, che è corredata sempre dell’aggettivo 44 “eterno.” L’immagine del fuoco eterno dell’Inferno è anche la più efficace nell’intimidazione degli uomini. Il fuoco è descritto anche come “ardente, che mai non si
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Ibid. Ibid. p. 84. 29 Ibid. p. 89. 30 Ibid. p. 128. 31 Ibid. p. 74. 32 Ibid. p. 209. 33 Ibid. p. 287. 34 Ibid. p. 72. 35 Ibid. p. 159. 36 Ibid. p. 152. 28
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Ibid. p. 27. Ibid. p. 62. 39 Ibid. p. 185. 40 Feuillet: Lessico, op. cit. p. 50. 41 Ibid. 42 Feuillet: Lessico, op. cit. p. 51. 43 Matteo 3, 12 44 Passavanti: Lo specchio, op. cit. p. 16. 38
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spegnea né scemava” in uno degli exempla di Passavanti. In questa storia, però, il predicatore fa luce sul fatto che “i mali cristiani erano ancora più profondati 46 nel fuoco ardente, e con maggiori pene di loro.” Per di più, vediamo anche uno scolaro che, dopo la morte, è stato dannato, ma ritorna al suo maestro per mostrargli quale sia l’Inferno. Mostrando il fodero della cappa, si può vedere che quella “è bracia, e fiamma d’ardente fuoco pennate, il quale sanza veruna lena [lo] arde e 47 [lo] divampa.” Passavanti menziona inoltre la sorte del primo scrittore e maestro dell’arte diabolica, che probabilmente è stato il figlio di Noè, l’anima triste di cui 48 è stata menata al fuoco eterno. Accanto all’Inferno anche la rappresentazione del Purgatorio appare nella predicazione di Passavanti. Va affermata però una differenza essenziale tra il Purgatorio e l’Inferno. Nella descrizione dell’Inferno, il Purgatorio si dimostra come se fosse l’Inferno: “in verso il centro della terra dov’è lo ’nferno, dove l’anime si 49 purgano in quello medesimo fuoco ch’è nello ‘nferno.” La differenza sta nel fatto che il Purgatorio è temporale e conduce verso la vita eterna, mentre l’Inferno è eterno e così comprende soltanto la morte eterna. Nell’exemplum del conte di Niversa, il demonio del Purgatorio è descritto come un cavallo che soffia una fiamma di fuoco ardente che simboleggia il fuoco del Purgatorio. La rappresentazione del fuoco come una fiamma appare anche nell’exemplum di un grande e nobile principe di Salerno, che vede “uscire una fiamma di 50 favillante fuoco” dal Mongibello. Il principe chiama Mongibello come “la bocca dello ‘nferno”, anzi, dice che ha visto “il segno del fuoco di Mongibello, che l’aspetta 51 per riceverlo e traboccarlo allo ‘nferno.” Da questa descrizione si chiarisce che, in questo caso, la fiamma del fuoco sostituisce chiaramente l’Inferno, cioè la morte. Ma la fiamma si presenta anche nella storia del monaco devoto, dove il fuoco si presenta sotto la forma di fiamma che si riaccende dalla favilla. Anche in questa situazione la fiamma, accrescendo dalla favilla, può avere un’interpretazione figurativa che simboleggia la 52 fiamma dell’innata concupiscenza. Questa fiamma, però, conduce verso l’Inferno, cioè verso la morte eterna. Il fuoco, nelle sue apparizioni nella predicazione di Passavanti, può avere anche la qualità di fare soffrire e tormentare l’uomo. Questa sofferenza viene espressa con l’aiuto delle diverse immagini, come si può notare anche nell’exemplum di Ser Lo, che insegnava logica e filosofia. Uno dei suoi studenti, dopo la morte, appare in una visione di Ser Lo e racconta quale pena e dolore deve soffrire nell’Inferno, a causa degli studi filosofici e logici. Così si vede come il fuoco dell’Inferno arda e divampi. Per di più, lo scolaro gli mostra il suo tormento attraverso una goccia di sudore che è stata focosa ed 53 acuta, e come il fuoco brucia la mano di Ser Lo.
Perciò in quest’exemplum, si vede che Passavanti si serve dell’immagine del fuoco senza pronunciare la parola stessa, rilevando solo la sua qualità ardente ed acuta. Il fuoco ardente il quale tormenta l’uomo appare anche nell’exemplum del conte di Niversa dove il corpo della donna uccisa arde. Però la qualità ardente del fuoco significa non soltanto il tormento del corpo, ma anche la morte dell’anima. Simile immagine si può notare anche nell’exemplum del povero chierico da 54 Arazzo il quale è sentenziato al fuoco a causa di un 55 assassinio ed è “divampato e arso” nel fuoco, ed è probabilmente arrivato nell’Inferno perché non si era pentito dei peccati. Un altro exemplum simile alla storia precedente è situato ancora ad Arazzo, dove i personaggi sono eretici, anche loro sono sentenziati al 56 fuoco. In questo caso, si vede ancora un fatto: chi non confessa i peccati arde nel fuoco, il che significa la morte sia corporale e sia spirituale. Dall’altro lato la morte può essere espressa con l’immagine dell’evanescenza, cioè quella causata dal fuoco. Nell’exemplum dalla gloria del mondo, Passavanti rappresenta questa qualità del fuoco attraverso l’immagine di una candela accesa, e accosta la stoppa della candela alla gloria del mondo. Piuttosto la morte e il fuoco possono essere connessi anche con l’immagine di una saetta che arde e uccide l’uomo. Questa saetta Passavanti la rappresenta predicando l’exemplum del monaco uscito dell’Ordine di Cestella, che è stato “ferito 57 d’una saetta a morte” oppure l’exemplum del chierico da Borgogna chi similmente è stato ucciso da una 58 saetta che “lasciòllo in quello medesimo luogo morto” per punizione divina. Il fuoco può apparire anche nella forma dell’amore, il quale rappresenta la vita eterna nella raccolta delle predicazioni di Passavanti. In quella predicazione, dalla quale si scopre come la vita di Cristo e dei santi c’induca a fare penitenza, Passavanti cita san Giobbe 59 che fa penitenza “nella favilla del fuoco.” Passavanti spiega questa frase, secondo la quale la penitenza è parzialmente di fuoco d’amore accesa, dove il fuoco, oppure la favilla, hanno un significato figurativo che rappresenta la vita e la luminosità del cuore, che può indurci non soltanto alla penitenza ma anche alla vita eterna. La favilla del fuoco, rappresentando la vita, appare anche in un’altra predicazione, dove Passavanti cita un frammento della Bibbia in cui ancora San 60 Giobbe usa l’espressione “favilla del fuoco” e congiunge palesemente la favilla con la vita. Passavanti, citando le parole di San Gregorio, affianca ancora l’amore al fuoco. Per di più, rappresenta un 61 cuore ardente dal fuoco dell’amore. Nel tema dell’amore, un altro tipo di fuoco appare nell’exemplum del conte di Niversa. In questo caso, amore riceve un attributo “ardente” che comprende l’immagine del fuoco e così si presenta “ardente amore di carnale 62 concupiscenzia.” Si può notare che Passavanti usa il
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Ibid. p. 43. Ibid. 47 Ibid. p. 44. 48 Ibid. p. 346. 49 Ibid. p. 46. 50 Ibid. p. 51. 51 Ibid. 52 Ibid. p. 210. 53 Ibid. p. 45.
Oggi: Arras in Francia Passavanti: Lo specchio, op. cit. p. 103. 56 Ibid. p. 107. 57 Ibid. p. 128. 58 Ibid. p. 224. 59 Ibid. p. 33. 60 Ibid. p. 227. (Giobbe 30, 19) 61 Ibid. p. 73. 62 Ibid. p. 48.
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fuoco anche nella descrizione del potere del dire, in altre parole, della predicazione quando vuole riferire al “fuoco del dire amoroso e fervente”, con il quale i predicatori provano ad incedere i vizi e stimolare l’uomo alla vita corretta. In conclusione, possiamo vedere che l’opera di Passavanti, lo Specchio della vera penitenza, è ricca nella rappresentazione delle varie forme di questi due elementi naturali. Si può osservare che le diverse apparizioni dell’acqua e del fuoco possono essere sia concrete che figurative, anzi, Passavanti qualche volta usa gli elementi naturali anche con la dominazione dei loro attributi che, evidentemente, riferiscono all’elemento dato e alla sua funzione. _____________________________ Testo esaminato: Passavanti, Jacopo: Lo specchio della vera penitenza, Felice Le Monnier, Firenze, 1856. Fonti critiche: Feuillet, Michel: Lessico dei simboli cristiani, Edizioni Arkeios, Roma, 2007. Kircher, Timothy: The Poet’s Wisdom. The Humanists, the Church, and the Formation of Philosophy in the Early Renaissance. Brill, I Paesi Bassi, 2006. Sabatini, Francesco – Coletti, Vittorio: DISC – Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 1997. Scouarnec, Michel: I simboli cristiani, Gribaudi, Milano, 2000. Sitografia: Piaginari, Ottorino: Vocabolario Etimologico Della Lingua Italiana Di Ottorino Piaginani, http://www.etimo.it Visitato: 04/03/2011 13:30 http://en.wikipedia.org/wiki/Motif_%28narrative%29 Visitato: 04/03/2011 13:40 RIELABORAZIONE DELLA TESI MOTIVI CARATTERISTICI NELLE PREDICHE DI JACOPO PASSAVANTI DI SÓTI ERZSÉBET ESZTER (RELATRICE: ACÉL ZSUZSANNA, CO-RELATORE: ARMANDO NUZZO), PUBBLICATA PRESSO L’UNIVERSITÀ CATTOLICA PÉTER PÁZMÁNY DI PILISCSABA, FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA, DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA, NELL’ANNO 2011.
2) Continua
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CESPUGLI DI MEMORIA Rossano tra storie, luoghi e personaggi Ferrari Editore, Rossano (Cs) 2014, pp. 200 15,00 €
«Il ricordo dei luoghi e degli amici più cari, la memoria del nostro passato, la rivisitazione delle emozioni di un tempo, dei sogni e dei pensieri dell’adolescenza sono metafora di quegli interrogativi esistenziali che percorrono la storia di ognuno di noi» - si legge nella brevissima introduzione dell’Autore. Questo libro è un viaggio interno e nel tempo nella città di Rossano, tramite i rammenti dello Scrittore apprendiamo varie informazioni della storia, degli eventi della città ove a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta si verificarono nuove metodiche di costruzione e modificazione della scena urbana: da borgo a città di mare. Il volume fornisce alcune tessere per ricostruire le memorie sociali di quegli anni, attraverso il vissuto dei suoi protagonisti. In questo saggio tra racconto ed immaginario dialogo con un amico, assieme all'Autore ripercorriamo una parte di vita in cui emergono vicende esistenziali, personaggi di vari strati sociali, fatti e storie coloriti con vigorose descrizioni, commenti conditi con giuste osservazioni critiche tra cui emerge una base solida di una classica e vasta preparazione culturale nonché professionale. Con i suoi cespugli di memoria ci vengono dimostrati dei mosaici della sua vita vissuta assieme e quelli della sua città natia in cui il Nostro di nuovo risiede che fanno parte edificante della storia variopinta della Nazione, dell’intera Italia. Quindi, attraverso di qeste righe conosciamo anche diversi costumi, abitudini, mentalità, tecnologia ed i loro mutamenti della società italiana. - Mttb MATURITÀ INFANTILE: SINTESI CRITICA DELLA QUASI-POESIA DI AMBRA SIMEONE
“Ho qualcosa da dirti – Quasi poesie” deComporre Edizioni – 2014, pag. 64, 7,00 €
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Quel miscuglio di termini posti a formare un ossimoro (maturità infantile) potrebbero or ora apparire come una mostranza di non piacimento della poetica di Ambra Simeone, ma se letto da un lettore dotato di acume e soprattutto di una certa cultura romantica invero appaiono come un’ammissione di soddisfacimento letterario che va oltre al temine di sproloquio: maturità riferita a cosa poi, questo mi è sempre impossibile da, non dico comprendere, poiché la comprensione è una virtù di pochi eletti e i letti servono per dormici sopra, ma quanto meno capire… bah, lo possiamo annoverare tra i misteri del surrealismo italiano di Buzzati e Landolfi. Basti or ora pensare al concetto su cui si
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fonda la poetica di un autore - o potremmo tradurlo direttamente come visionario (ammesso che anche la visionarietà non sia una forma di schizofrenia ad oltranza, e ciò significherebbe che il Cristo della Pulzella D’Orleans e il Gobbo di Alda Merini non sono poi così tanto differenti) - che ebbe il nome di William e il Cognome di Blake: il quale sosteneva, in parole spicce, che la visione più matura si ha da bambini, poiché è da bambini che l’immaginazione tende ad essere più sviluppata e logicamente un adulto ne sarà progressivamente privato, perché troppo concentrato sul pragmatismo, che di concreto, in realtà non ha alcunché, fuorché, quella che con un termine saporito quanto crudo definirei “anomalia”, e da questa anomalia Ambra è riuscita con una corsa graziosa, timida, ma ancor di più scazzata, a sfuggire: e in questo paradosso che vede tale scelta come un atto di mancanza io noto un certo eroismo. E ora potrei ben fare un appunto: l’eroismo non sta nel grido, quanto nella consapevolezza del momento opportuno in cui quel grido possa essere esternato: e Ambra Simeone, si evince dalla sua poetica, ne è consapevole. Ma non è questo il nucleo fondante della mia sintesi: la mia sintesi vuole dare una dimensione ad uno stile poetico che Ambra ha trovato dopo trent’anni (potevano essere anche cento, che il risultato sarebbe stato comunque interessante) e direzionare da un punto di vista critico il lettore che si appropinqui a leggere tali opere, ergo mi duole per Ambra, a questo punto, dover categorizzare, poiché “siamo animali categoriali”. Entro quali parametri si può trovare la poesia di Ambra: semplice, entro nessun parametro vigente, poiché ciò che vige alla fin fine annoia ed è destinato ad un insapore termine. Ma poiché, nella nostra profonda ignoranza creiamo qualcosa, è necessario che per questo qualcosa si formino nuove categorie: a) anarchia formale; b) consapevolezza della presa di distacco; c) estraneazione postmoderna; d) dubbio circostanziale; e) semplicità verbale seguita da un’altrettanta complessità concettuale: questi, in base alla mia tesi, sono i parametri in cui ci si deve muovere per valutare la poetica di Ambra, ed è necessario che spieghi il significato di tali categorie, con relativi esempi. Per anarchia formale si va ad intendere un distacco dagli stili vigenti, una messa al bando, un navigarci attorno, senza farne parte: non sta nel centro degli stili, sta in un una centralità propria e punta ad un direzione propria, senza l’aiuto, né tantomeno il consenso di alcuno: e se vi è un ostacolo, lo si supera et anzi è meglio che si faccia finta che non sia un ostacolo: un comportamento da bambina sfacciata, da bambina matura. non sono mai riuscita di togliermi di testa la voglia di [usare l’a capo, scrivo una cosa e me lo dicono in tanti, che non c’è [mica bisogno dell’a capo, ma io lo faccio lo stesso, dicono, sai non c’è bisogno [che lo usi, non sono poesie […] A ciò sussegue una consapevolezza di questo allontanamento, di questa presa di distacco, ed, a mio giudizio, con tale consapevolezza raggiunge apici filosofici notevoli e genera una poesia degna di essere il frutto di un costante studio di Milosz. Ergo tutto ha un suo rafforzamento in una progressiva estraneazione dai canoni del postmoderno minimale, che definirei
dimostrazione della stagnazione letteraria vigente. In tutto ciò vi è un continuo porsi domande, uno status che con ironia rasenta l’angoscioso secondo voi i telegiornali, adesso come adesso, a cosa [servono? io me lo chiedo spesso, il meteo, per esempio, a cosa [serve saperlo? non so, basta che la mattina ti affacci alla finestra e vedi [che tempo a […] […] basta sapere che ne muoiono troppi ogni giorno, [per malattie, guerre, omicidi, violenze o per negligenza dei medici, [magari per suicidio […] Gli ultimi due punti sono i parametri linguistici che firmano la poetica di Ambra e lo notiamo, ad ogni verso: questa semplicità del verbo, che dà melodia al suono, che incornicia una complessità concettuale ammirevole. io dico che non ha costi un’idea, ma che orse un po’ su ci devi lavorare, quel tanto perché si capisca un poco, non molto, perché altrimenti ti viene su troppo imbellettata, ma neanche troppo poco, che se no sembra una cretinata, insomma che non ha costi un’idea […] E attualmente un’idea di costi non ne ha e non ne deve avere - anche se pare più il contrario -, aggiungo io, e ringrazio che tale idea l’abbia condivisa, per salvare qualcosa che risulta distrutto: la Poesia, o quanto meno per creare la Quasi - Poesia.
- Valerio Gaio Pedini -
Lorenzo Spurio
LA CUCINA ARANCIONE La cucina arancione: quando la de-costruzione diventa un atto di verità TraccePerLaMeta edizioni, 2013 pp. 238 10,00 €
La cucina arancione, la raccolta di racconti di Lorenzo Spurio edita nel 2013 da Tracce per la meta edizioni, oltre ad essere un libro interessante, pieno di spunti e di riferimenti, oltre ad essere una netta e chiara (inequivocabile) indagine di un mondo minuto, emarginato, nascosto, che alberga in noi oltre che ai margini prestabiliti dal sociale, è soprattutto un'opera post-moderna in cui l’Autore si colloca a pieno in un filone preciso della letteratura contemporanea (a mio avviso l'unica possibile): quella del post-moderno. Filone che se in apparenza un critico può nutrire perplessità nel definirlo, ha tuttavia dei connotati precisi che di seguito vorrei esprimere in termini storiografici. In primo luogo, la caratteristica principale del postmoderno è sicuramente la de-costruzione di ogni classica funzione che per secoli ha avuto la letteratura. E in primo piano, la de-costruzione del classico (de-
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mode e anti-storico) mette in luce non solo un mutamento di rotta sulla lingua (non più conservatrice), non solo nello stile, che diventa per forza di cose un catalizzatore di eventi linguistici e ipertestuali, ma compie una rivoluzione – e consentitemi di affermare gobettiana – nel porre come protagonista della propria storia l'emarginato, il prossimo del quotidiano, volendo l'uomo medio gonfio di solitudine e di paranoie, di paure e di fobie. Questa è in primo luogo la caratteristica della Cucina arancione. Un libro rivoluzionario – in termini, ripeto, gobettiani della parola – che mai come adesso nel panorama editoriale italiano s'era visto. Infatti, in luce di quanto sostenuto sino ad ora, l'opera di Spurio è una indagine diretta, quasi un punto di osservazione continuo, una sequenza di storie apparentemente lontane dalla normalità che quasi al lettore medio creano scandalo. L’Autore si cala nei panni di un viaggiatore di un mondo sconosciuto, da noi tutto saputo ma celato per timore del pregiudizio, in cui lui stesso da scrittore è costretto, vuoi per piacere della scrittura, vuoi perché curioso, a narrarci questa realtà costituita solo da muri, da alte saracinesche di paure e fobie, di paranoie e di ripetizioni. Ripetizioni di gesti, di riti quotidiani che andando ad oggettivare la materia d'indagine diventano interessanti spunti su di un contesto o più contesti sommersi alla maggioranza delle persone. E la ripetizione dei gesti, delle paure che si rinnovano regolarmente in un tempo x sono parte integrante di una nostra forma mentis che il più delle volte allontaniamo da noi per paura. L'indagine di Spurio (notevole critico letterario e studioso di un certo tipo di letteratura psicologica) fonda sulla ripetizione la propria poetica, quasi avesse assorbito in pieno e in modo positivo e costruttivo la lezione dei funzionalisti francesi, in particolare di Deleuze e Derrida. Infatti tra le righe della cucina arancione si possono cogliere una serie di spunti che legano, volente o non, la narrativa alla questione del linguaggio psicanalitico. E questo viene fuori, emerge come un relitto dalle acque profonde del mare, quasi portato a galla dalle correnti di una volontà remota, non solo nei contenuti (in cui il protagonista è l'anti-eroe), ma in particolare nella lingua. Una lingua che nell'atto della descrizione si fa distante e riesce ad oggettivare la cosa narrata quasi come se l'autore non volesse intaccare l'oggetto conferito con la propria emozione o personalità. Esperimento questo che somiglia molto alla lezione del romanzo scientifico dei naturalisti francesi, del Verga e del Capuana per un contesto agreste e italiano, per il teatro somigliante all'epicità di Brecht. In altre parole, si tratta di una lingua diretta, senza inflessioni emotive, che racconta il narrato con scientificità e rigore assoluto, dando al lettore la possibilità di interagire all'interno della storia come figura protagonista. Figura che ha il compito di ultimare il racconto attraverso una riflessione che trova con l'ipertestualità del testo una propria alchimia. E questo è tipico del post-moderno. Altro aspetto, direi non marginale, è il discorso dello spazio/tempo come nel racconto Jonny, in cui una realtà cela e si sovrappone ad un altra, per cui il tempo e lo spazio diventano un disegno teatrale, drammatico della nostra vita. Spazio/ tempo che si annida e si esplicita in più tempi e in più spazi attraverso riti 28
quotidiani, paure, cose non dette. Questo aspetto svela in Spurio una cultura sociologica del vedere la letteratura, nello specifico la narrativa, in cui il pensiero 2 di Durkheim e di Debord trapela come interrogativo mai risolto sul nostro tempo. Quel senso di morte (fisica e simbolica) che si respira in Durkheim pare lambire, albergare nei personaggi della Cucina arancione, come se la vita di questi si alimentasse di uno spazio/tempo proprio, fosse costellata di suicidi violenti sia verbali che fisici. Si tratta in sostanza, di attentati verso il proprio essere continui che pare non trovino soluzione. In secondo luogo, il contesto calato in un contesto altrettanto drammatico, allude o può ricordare la famosa società dello spettacolo di Debord, in cui l'idea dell'altro e della propria persona è minacciata dall'equivoco costante e continuo dei giornali e delle immagini. Ed eccoci al punto: la cucina arancione, pur essendo un libro di racconti, è una sequenza di scene drammatiche in cui la realtà di noi tutti trova il suo naturale palcoscenico. Si tratta di una scena dolorosa, piena di traumi e paure, di muri invalicabili, in cui l'osceno non avendo più pudore di sorta (e dico in termini letterari giustamente) balza in primo piano facendo dell'opera un 3 teatro alla Artaud . Si tratta della narrativa del crudele: dello svelamento della verità. Di una verità dolorosa, antipatica, sofferente che alberga nell'uomo, ad ogni livello o estrazione sociale, che fa della vita una 4 esistenza ferita . ________________________ Durkheim, Il suicidio, Bur, 2013 2 Debord, la società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, 2011 3 Artaud, il teatro e il suo doppio, Einaudi, 2000 4 Moravia, l'esistenza ferita, Feltrinelli, 1999 - Iuri Lombardi De-Comporre 2013, 80 p., 10,00 €
“Patroclo non deve morire” di Ivan Pozzoni letto da Mariano Menna «Il titolo del libro di Ivan Pozzoni è Patroclo non deve morire, è un enunciato imperativo che non ammette eccezioni; nella storia Patroclo muore in combattimento, nell’opera di Ivan Pozzoni invece Patroclo deve continuare a vivere affinché la Storia non si concluda e si aprano altri scenari». [Giorgio Linguaglossa] La poetica di Pozzoni descrive con maestria le problematiche irrisolvibili dell’oltremoderno ed il nichilismo evidente della società odierna, mostrandone le insite contraddizioni. Nella poesia “Desaparecido” (pag. 30) possiamo infatti leggere: […] Cosa siamo davanti alle montagne che ci circondano, sdraiate in punta di nuvola smunta da millenni e malanni
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d’uomini morti, abbondate lì, a caso, dalle risate di divinità emigrate verso altre spiagge, verso altri nidi? […] […] I miei libri nelle librerie, nelle biblioteche, i miei articoli nelle riviste delle università, e io, desiderio inattuato di camminare […]; o, ancora, nella poesia “L’annegato” (pag. 21): […] Noi, costretti a nuotare tra le onde dell’oltremoderno, tra i ri lussi luidi di una eternità lessibile […]. Inoltre, è costante il riferimento alla “liquidità” e, quindi, alla concezione della società del filosofo Zygmunt Bauman: […] Passare da un mondo all’altro, da uno stato all’altro, ino alla liquidità […]. (Divieto di sosta) Il linguaggio di Pozzoni potrà sembrare a talvolta pesante, con “paroloni” mai visti prima in poesia, ma ciò è dettato dalla brillante consapevolezza di mostrare la svalutazione della parola, del pensiero e quindi dell’uomo stesso, in un mondo disumano che fa della fredda tecnica il proprio fulcro. In un contesto del genere, in una società senza socialità, l’uomo si ritrova ad essere niente altro che un automa che esiste (in quanto corre) senza vivere, un tipico prodotto in serie della catena di montaggio. […] Le mie mani pleonastiche adesso, graffiano, batto[no, martellano una cassa d’acero risucchiata nel ventre duro del terreno lottizzato d’un cimitero, e i bozzi fatti sulla cassa non staranno mai a dimostrar[mi d’essere stato vivo anch’io. (L’acero contuso) Pozzoni descrive una società che uccide senza armi, senza la necessità di appellarsi ad alcol, droghe ed altri rispettabili strumenti di autodistruzione: la vita uccide molto di più con la noia, con lo stress estremo e con l’alienazione lavorativa. […] certi che stress estremo, noia, attività lavorative in[adatte, frustrazione esistenziale ci uccideranno, senza intervento alcuno di alcolismo, droga, prostituzio[ne […]. Nonostante ciò, Pozzoni ci mostra gli altri strumenti d’ausilio all’autodistruzione, come nella poesia “L’impiccato” (pag. 45), nella quale egli descrive la nonvita di un individuo comune, mostrando perfettamente la sua concezione sociale della poesia: […] Quando ti è venuta a mancar l’aria, strozzato da bollette, fatture, decreti ingiuntivi dalla recessione, creata ad arte, da un capitalismo mo[bile interessato a mandare a fondo nazioni intere
con la celerità inafferrabile dei movimenti informatici in rete, e ogni banca, sempre disposta a mendicare aiuti, ti ha ri iutato l’elemosina di un sostegno, e ogni strozzino, sempre disposto a conceder credito alla ame d’aria, ha rassegnato le sue dimissioni, e ogni ufficiale giudiziario, distratto dal sogno di diventar docente di diritto romano in Università Statale, ha disseminato di sigilli i tuoi incubi, e ogni amico, assillato dal terrore di raggiungerti nella zona rossa della cartogra ia dell’in erno, ha rinunciato a dare ascolto ai tuoi noiosi rammarichi, e ogni senso della vita ha deragliato dai soliti binari, boicottato da bollette, fatture, decreti ingiuntivi, trovasti come rimedio, contro strangolamento finanziario, l’ultimo respiro di impiccarti a un albero. La stessa visione può essere riscontrata nei testi “La solitudine del giocatore di video-poker”, “Sogno un mondo all’incontrario: la ladra d’Antan” e può essere letta come una scia che accompagna tutta la raccolta. Si può riscontrare una critica accesa della presuntuosa figura del “maestro” o “poeta wate-r” nella poesia “I miei versi hanno titoli difficili”, dove Pozzoni mette in risalto la propria abilità dialettica, degna di un principe del foro, e l’ironia bonaria e allo stesso tempo pungente che lo caratterizza: […] Il maestro A consiglia maggiore stringatezza, il maestro B non teme vincoli d’estensione, il maestro C inneggia a maggior levigatezza il maestro D chiede abrasione, e, in mezzo, l’autore junior a barattare illibatezza contro un warholiano quarto d’ora d’attenzione. Scrivi sulle città in fiamme, no, canta della società annacquata, oh, infiamma di sesso i versi, ehi, versati acqua nelle mutande, metti su fogli bianchi A4 il contrario di ciò che ti chiedono i critici o una critica di ciò che ti chiedono i contrari, accetta l’omaggio di tutti, tutti sono maestri di tutto […]. Nei versi del poeta monzese è evidente un disagio esistenziale, uno spleen baudelairiano che giunge alla sua massima espressione nella poesia “Non mi ci trovo” (pag. 43): […] Non mi ci trovo, seduto ai margini della vita sociale, arrancante tra divanetti in similpelle nera e risate, contra atti […], o ancora: […]Vorrei scendere, in corsa […]. Lo spleen, malessere tipico del decadentismo, è legato alla natura sensibile del poeta e al suo farsi osservatore distaccato dello sfacelo della società; Pozzoni dà sfogo 29
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a tutta la sua sensibilità e mette in evidenza le differenze tra uomo ed animale, con conseguente nostalgia per la vita allo stato brado (come un moderno Diogene di Sinope) nel testo “Memorie da cavia” (pag. 46):
Pozzoni è dunque un Baudelaire dell’oltremoderno (chiaramente non per forma) che meriterebbe senz’altro una corona d’alloro: corona d’alloro considerata anacronistica ed inutile dallo stesso poeta nel testo già precedentemente citato “Non mi ci trovo”:
[…] Gabbia n. 13, irrequieto, incatenato in catena di smontaggio, osservo il gatto cieco imprigionatomi di fronte e, dimenticati naturali odii di razza, vorrei leccare ogni sua erita […]
[…] Non mi ci trovo, laureato d’alloro come maiale in lenta cottura […].
[…] Gabbia n. 21, mi hanno strappato entrambe le ali in cerca di un rimedio contro i mali dell’uomo. Mi auguro che, almeno lui, mai smetta di volare. Nella poesia “Anacreante” è presente sullo sfondo la considerazione del rapporto Arte/Tecnica, con riflessioni che potrebbero riportare alla mente il libro “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” del filosofo tedesco Walter Benjamin, chiaramente inserite nel contesto odierno: […] C’è chi dice che imito, scimmiotto made in China, accusandomi di non esser molto innovativo. Come se l’originalità non osse sogno romantico trapiantato nell’era delle catene di montaggio, ove sorseggiar bottiglie democratiche, tutte uguali, di Caribbean with rum with coconut […].
L’efficacia della poesia di Ivan Pozzoni è data stilisticamente dalla rapidità del discorso che, allo stesso tempo, risultata musicale, e dalla frequente rima, che meriterebbe un discorso a parte: essa è “improponibile”, impensabile, indomabile e nasce da parole già inusuali, probabilmente più utilizzabili in campagne pubblicitarie ed altro che in poesia; ciò che ne deriva è una continua sorpresa, un'attesa della fine del verso per scoprire “cosa Pozzoni si sarà inventato questa volta”. Consiglio a tutti, umani e non, di addentrarsi nei versi di Ivan per poi uscirne arricchiti e, allo stesso tempo, rincretiniti. Il testo che chiude la raccolta, “Ballata dell’amore distante”, può essere paragonato al fiore intatto tra le macerie, presente nella “Guernica” di Picasso: nonostante la condizione abominevole della società, nonostante il malessere interiore, nonostante tutto, insomma, Pozzoni riesce a pensare all’amore, alla positività, alla dolcezza (chiaramente a modo suo):
[…] L’amore ha bussato alle ante delle mie inestre, i miei occhiali anti-rottura, con nocche delle dita delicate, diverse dalle mie rovinate dai cazzotti sferrati e ricevuti, accecandomi della meraviglia di acquistar di nuovo un’opportunità da sprecare, di avere ancora un treno da attendere alla stazione di Milano. Sei la bellezza di una nuvola ingoiata dai reattori di un Tupolev Tu-144, sei il sorriso radioso di un bambino in riabilitazione oncologica, sei una matita temperata allo spasimo, mi crivelli i dorsi delle mani, abissali come il cratere Chicxulub hai occhi che estinguono i miei banchi di nebbia. L’amore ha spazzato via ogni mio cavallo di risia con la naturalezza di un lancia iamme, ha stanato anticorpi e mine anti-donna disseminati nei territori delle mie battaglie, regalandomi un abbonamento settimanale al telefono cellulare con cinquemila minuti da spandere. Sei l’arcobaleno tossico che colora i mari di pioggia delle città industriali, stingendo mi macchi i vestiti, mi dipingi il viso, rivolandomi addosso, contamini di radioattività i miei movimenti, costringendomi ad insinuarti sottocute, sei lo splendore del combattimento e della resa, del combattimento e della resa, lo splendore dello spazio bianco da riempire o da strappare. L’amore che mi istruisce ad aver cura di te, te che dormi sul divano con la serenità del cucciolo di tigre, te che sogni farfalle e codici isbn, mi diseduca a curarmi delle mie cure, mi trasforma in milite ignoto deposto nel sacrario della tua spensieratezza. Amore distante che sconfiggi il terrore della morte con lo stesso valore di immortalità dell’arte, ravvivi lo zelo missionario d’un eremita in rime torte avvezzo a sopravvivere in disparte. - Mariano Menna -
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RASSEGNA SOLENNE Miscellanea ungherese e italiana A cura di Melinda B. Tamás-Tarr Edizione O.L.F.A., Ferrara 2014 pp. 640 30,00 € “Rassegna solenne” è il titolo di un grosso volume pubblicato per l'Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove. Solenne un po' per lo spessore (in tutti i sensi) ma anche per l'occasione rilevante del centesimo numero della Rivista dell'Osservatorio. Fa il paio con l'Antologia giubilare “Altro non faccio” pubblicata nel 2011. Artefici sono l'ideazione e il coordinamento di Melinda Tamás-Tarr, ferrarungherese che da anni, con tenacia, porta avanti iniziative culturali. L'antologia, pertanto, in oltre seicento pagine contiene opere di quasi cinquanta autori ungheresi e italiani, classici e contemporanei. Si tratta, dunque, di un importante e corposo “assaggio” bilingue di quanto, nella considerevole esperienza della Rivista, è stato fatto. Una Rivista, tra l'altro, che grava sulle spalle dell'indefessa Melinda Tamás-Tarr che con orgoglio e senza troppe smancerie promuove un significativo lavoro di collezione e valorizzazione delle culture italiana e ungherese di ogni tempo. Per la “squadra” di scrittori o poeti italiani scendo in campo anch'io, tra le pagine 424 e 441. E con me grandi firme del passato, tra cui il mio concittadino Lorenzo Stecchetti (cioè Olindo Guerrini) e Guido Gozzano. Tra i vivi, posso fare i nomi di Gianmarco Dosselli, Ivan Plivelic, Ivan Pozzoni, Emanuele Rainone, Franco Santamaria, Mario Sapia, Ambra Simeone. E tanti altri che si sono dedicati maggiormente alle traduzioni o alla saggistica. E poi c'è un'ampia fetta magiara, con nomi difficili da ricordare (e da scrivere) ma assolutamente da scoprire e approfondire. Mi piace citare l'argentino Fernando Sorrentino che in quest'antologia ripropone l'ormai classico L'irritatore (in seconda stesura), sempre godibile a leggersi. […] (Fonte: http://birrapasqui.blogspot.it/2014/08/rassegna-solen ne.html)
Ordinabile: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1065921 - Umberto Pasqui -
Lettura d’Estate — A cura di Melinda B. Tamás-Tarr Tim C. Leedom, Maryjane Churchville
IL LIBRO SEGRETO DEI PAPI
Dagli archivi segreti del vaticano l'inchiesta sul lato più oscuro della chiesa Newton & Compton Editori, Roma 2012 pp. 325 9,90 €
«Dalle sante crociate al tribunale dell'Inquisizione, dalla condanna di Galileo e Copernico al rogo di Giordano Bruno: qualsiasi idea o persona non conforme ai dettami della Chiesa o in contrasto con le sue retrograde convinzioni scientifiche, artistiche o storiche è stata bollata come eretica ed eliminata con i metodi più atroci. Crimini che i papi hanno continuato a commettere nel XX e XXI secolo: pensiamo agli accordi con Mussolini, Franco e Hitler, alla "via dei monasteri" per aiutare la fuga dei criminali nazisti, per non parlare dell'olocausto canadese, il più dimenticato di tutti i crimini, in cui 50.000 bambini nativi canadesi rapiti e seviziati morirono, insieme con i familiari che li reclamavano, per mano dei preti cattolici. E parallelamente si allarga lo scandalo finanziario del Vaticano, e crescono i sospetti di collusioni con la mafia e i governi militari conservatori. Mentre continua a opporsi all'eutanasia e al controllo delle nascite, il papa sostiene ancora oggi l'arrogante superiorità della Chiesa, rifiutando il dialogo e attaccando chi rifiuta di piegarsi alla dottrina cristiana.» - si legge tra le altre nella prefazione. Lo trovo come un’analisi superficiale contenente accuse urlate a squarciagola con tanta arroganza contro la Chiesa. Un romanzo di Grazia Deledda (1871-1936) ANNALENA BILSINI Oscar Mondadori 1974, pp. 180 Illustrazione della copertina: Ferenc Pintér*
Con Annalena Bilsini, romanzo della piena maturità, Grazia Deledda, di Premio Nobel per la letteratura (1926), risolve in una narrazione perfettamente e armonizzata le proposte del verismo e quelle di una libertà fantastica incline ad animare le cose di arcani significati. Abbandonato l'ambiente sardo per la terra padana, la scrittrice impersona nella protagonista - una contadina madre di cinque figli l'idea di sanità spirituale, di riscatto umano attraverso il lavoro che costituisce il nucleo vitale della narrazione. Rimasta vedova in giovane età, Annalena Bilsini non si è risparmiata fatiche e sacrifici per assicurare a sé e ai suoi un poco di benessere, e per conservare un difficile equilibrio familiare, sempre compromesso dalle impennate dei vivacissimi figli. Ormai nonna, ma non insensibile al richiamo di una vita affettiva più completa e appagante, la donna si sente attratta dal suo padrone, vittima a sua volta di un infelice matrimonio. Ma la rinuncia alla passione per fedeltà al proprio ruolo di madre - motivo ricorrente nel romanzo - suggella l'unità etica e artistica dell'opera in una superiore comprensione della fragilità e delle risorse umane.
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Annalena Bilsini (1927) ci porta lontano dagli sfondi immobilmente arcaici fra cui vive in povertà e solitudine la gente di Sardegna. Siamo nella pianura padana: terre pingui, dove la civiltà agricola è in sviluppo, la meccanizzazione si espande e i rapporti sociali hanno un'elasticità che apre larghe speranze di futuro ai ceti popolari. La vicenda della famiglia Bilsini assume così una coloritura idillica, che può sconcertare i lettori di altre opere deleddiane: la festa di battesimo su cui il libro si chiude sancisce il passaggio dei protagonisti alla condizione di contadini agiati, futuri proprietari dell'antico feudo gentilizio che hanno preso in affitto da un onesto e disinteressato piccolo industriale del luogo. Non si saprebbe davvero quale valore di testimonianza attribuire a questo ottimistico quadro di vita campestre e paesana, nei primi anni del fascismo. Ma la scrittrice trascura ormai del tutto l'attenzione per gli assilli e i problemi materiali dell'esistenza, cui l'educazione veristica la rendeva un tempo sensibile. A occuparla è ora il proposito di celebrare liricamente il lavoro, risorsa infallibile della tenace volontà giovanile, applicata a domare quel grande organismo vivente che è la terra. E lo stile della scrittrice assume tersa levità, si arricchisce di echi musicali, immergendo i personaggi in un clima di favoleggiamento incantato. In questo romanzo la tecnica rappresentativa della scrittrice si è senza dubbio illeggiadrita, rispetto alle movenze scabre e magari faticose di molti romanzi anteriori. Il ritratto della protagonista, nella sua doppia personalità di energica mater familias e di creatura non insensibile al richiamo del sesso, ha una bella ricchezza di toni e sfumature. Siamo tuttavia in una zona alquanto prossima all'Arcadia. Il gusto della semplicità, della salute, della pulizia morale vi si esplica con efficacia appropriata; ma l'apologia dell'ordine, in campo sociale come in quello sentimentale, è troppo roseamente piena per assicurare al libro la complessità dinamica e arrovellata che caratterizza le opere più felici della scrittrice. (Tratto dall’introduzione all’opera a cura di Vittorio
Per la grande casa editrice milanese Pintér realizzava le copertine e le illustrazioni interne di libri. Iniziò con la collana Segretissimo, della quale dipinse le prime 14 copertine, ma è ricordato in particolare per il Commissario Maigret e i gialli di Agatha Christie; tuttavia, le tavole migliori le dipinse per la collana Oscar Mondadori. Il suo mezzo espressivo preferito era la tempera, che usava con straordinaria maestria dando vita a scene surreali, venate di una forte componente espressionista. Pintér è considerato uno dei più importanti illustratori europei e non a caso il suo nome rientra nei cataloghi internazionali Graphis e Gebrauchsgraphik. Nel 1989 Pintér dipinse i 22 Trionfi dei Tarocchi dell’Immaginario, pubblicati da Lo Scarabeo di Torino con la presentazione dello storico dell’arte Federico Zeri. Tra il 2000 e il 2002, Pintér lavorò ai 56 Arcani Minori, anche questi editi da Lo Scarabeo. Sebbene colpito da una grave malattia, Pintér continuò a lavorare fino al 28 febbraio 2008, data della sua scomparsa. Nel giugno dello stesso 2008 i disegni delle copertine di Pintér (insieme a quelle di Karel Thole e Carlo Jacono) furono esposte a Lucca nella grande mostra Copertinando. Nell'ottobre del 2011 la casa editrice Scarabeo ha pubblicato le tavole di un Pinocchio a cui Ferenc Pintér aveva lavorato, su richiesta di Pietro Alligo, negli ultimi anni della vita, ma che era rimasto inedito. Una cinquantina di tavole che ci appaiono come la summa dell'opera dell'artista: tempere veloci e controllate, pennellate dense e corpose, grande sapienza prospettica. Un'edizione tra le più belle del capolavoro collodiano. (Fonte: Wikipedia) Siti web attinenti: http://www.ferencpinter.it/ https://itit.facebook.com/pages/FerencPint%C3%A8r/1228266 88246
Due libri di Vasco Pratolini (1913-1991)
Spinazzola)
* Ferenc Pintér (Alassio, 19 ottobre 1931 – Milano, 28 febbraio 2008) è stato un illustratore e pittore italo-ungherese.
IL QUARTIERE Oscar Mondadori 2001, pp. 208 6,20 €
Ferenc Pintér nacque ad Alassio, presso Savona, nel 1931. Suo padre, József Pintér, era un pittore ungherese mentre la madre, Anna Antonazzi, veniva da Firenze. Nel 1940, la famiglia Pintér si trasferì a Budapest per curare una malattia tubercolare di József, ma l’operazione chirurgica non ebbe buon esito e dopo pochi anni Ferenc rimase orfano di padre. Non fu ammesso all’Accademia di Belle Arti di Budapest per aver dimostrato una libertà di pensiero non conforme al totalitarismo comunista di quegli anni. In seguito alla rivolta del1956 e all’arrivo dei carri armati sovietici, riuscì a fuggire in Italia. Appena arrivato a Milano, ottenne come primo lavoro la realizzazione di un gigantesco murale (80 m²) per la Radio Marelli. Nei tre anni successivi, Pintér continuò a realizzare manifesti pubblicitari per importanti aziende italiane finché, nel 1960, avviò una collaborazione con Arnoldo Mondadori Editore che durò 32 anni.
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Ambientato in uno dei rioni più popolari di Firenze negli anni intorno al 1935, il romanzo coglie un gruppo di ragazzi e ragazze nel passaggio dall'adolescenza alla prima giovinezza. I protagonisti, nel viluppo d'affetti che li unisce, sono posti tutti sullo stesso piano, senza che l'esperienza di nessuno di essi venga mai privilegiata, e in questo senso si potrebbe parlare di romanzo "corale". Di fatto, nell'opera il memorialismo e il tono lirico e intimistico della prima maniera vengono trascesi in una dimensione narrativa più ampia, con un risultato tra i più alti della carriera artistica di Pratolini. All'apparire del romanzo, Pietro Pancrazi lo salutò come «uno di quei suggestivi libri che si scrivono (chi li scrive) a un solo punto della vita: quando ci si è staccati dalla giovinezza, ma non se ne è perso tutto l'umore». A distanza di anni II Quartiere si offre ancora ai lettori di oggi in tutta la sua intatta freschezza.
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Che cos'è Il Quartiere, che cosa rappresenta nella trama del libro? In dimensioni politiche e sociali possiamo dire che, nell'ideologia implicita dell'opera, Il Quartiere sta a indicare, in prima istanza almeno, alcunché di naturale, il luogo di una comunità organica. Ma si badi, la concezione de Il Quartiere come comunità organica, non è, come ha creduto di ravvisare qualche critico, una concezione statica, regressivamente idilliaca (come di un «buon selvaggio» ritrovato sulle rive dell'Arno). È vero, in parecchi passi, l'autore sembra dar credito a questa interpretazione; ma andando al di là delle singole formulazioni, penetrando nella «connessione sottocutanea» delle parole e nell'intimo tessuto ideologico dell'opera si perviene a scalzare questo sospetto. La concezione de Il Quartiere come comunità organica è pervasa da una tensione utopistica (non astratta, ma tutta calata nella vicenda e riscontrabile nel leitmotiv della speranza); ed è inoltre implicitamente ma profondamente dialettica. Il Quartiere è, sì, un'isola nel fiume della vita (e con questo si avallerebbe l'interpretazione negativa in chiave di «isolamento» e «atemporalità»); ma è anche minacciato, «tradito» dall'esterno. Non solo: il male, il negativo, non sta soltanto oltre la cerchia del rione: esso presenta propaggini nel cuore stesso de Il Quartiere, si manifesta anzi dall'interno. Al viluppo degli affetti, alla solidarietà, all'amore faranno riscontro, negativamente, il destino tragico di Gino, l'infelicità di Carlo; ai davanzali adorni di gerani, alla leggiadria delle giovinette corrisponderà, in negativo, la miseria, il buio delle abitazioni e il rapido decadere degli anziani. Resta il fatto che la tonalità affettiva de Il Quartiere può apparire prevalentemente crepuscolare, di rassegnata sopportazione, non di fattiva rivolta. Non va però dimenticato che la vicenda si svolge negli anni intorno al 1935, dunque negli anni in cui l'oppressione del fascismo non lasciava spazio per un'opposizione attiva e concreta. I versi di Montale posti in epigrafe al libro (Codesto solo oggi possiamo dirti: / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo) stanno a contrassegnare l'impossibilità della rivolta e, nel contempo, la sofferta necessità della diagnosi.
CRONACHE DEI POVERI AMANTI Oscar Mondadori, 2000 pp.496, 7,75 € Illustrazione della copertina: Ottone Rosai, Via Toscanella (particolare) 1922, Firenze, collezione privata
Gli inizi dichiaratamente autobiografici sfociano in un lirismo interiore con il romanzo Cronaca familiare, del 1947. Concepita come vera e propria cronaca di un sentimento e scandita in ritmi serrati e tesi, quest'opera, pur essendo legata alla biografia dello scrittore, assume emblematici valori di universalità. La vicenda privata che il romanzo narra diventa ideologia, denuncia e testimonianza di un'innocenza che si sgretola a causa della sopraffazione di una classe elitaria contro quella dei tempi nuovi. «Il vero amore è dei poveri», sembra il messaggio unitario di questo romanzo, degli esseri a cui tutto è negato, anche il desiderio, e che devono lottare rinunciando evangelicamente al «gusto dell'offesa». L'incontro di una tematica personale con quella sociale si realizza in Cronache di poveri amanti dove viene rappresentata la vita quotidiana del popolo fiorentino negli anni 1925-1926, quando la violenza fascista ha già steso la sua ala nera sulla città. Lo sfondo è ancora quello della stanzialità dello scrittore nel vecchio quartiere fiorentino, in quella via del Corno dove trascorre la sua adolescenza. Il romanzo, pubblicato nel 1947, quindi, dipinge un quadro indimenticabile della Firenze dei primi anni del fascismo. In via del Corno, la strada del vecchio quartiere fiorentino dove Pratolini trascorse la sua adolescenza, si assiepa e vive, con storie private e comuni, un mondo di uomini e donne le cui esistenze si intrecciano, s'illuminano a vicenda, aprendosi ora alla speranza e all'amore, ora ripiegandosi nel dolore e nella morte. Tradotto in oltre venti lingue, trasformato in film da Carlo Lizzani nel 1954, Cronache di poveri amanti è stato uno dei maggiori successi mondiali del dopoguerra. Con questo libro, Pratolini, ottiene non senza polemiche il Premio Libera Stampa 1947.
TRADURRE – TRADIRE – INTERPRETARE – TRAMANDARE – A cura di Meta Tabon – Selma Lagerlöf (1858 –1940)
SZENTSÉGES ÉJ (La Sacra Notte)
Ötéves koromban nagy bánatban volt részem. Nem is tudom, hogy azóta is valaha éreztem voltam annál nagyobbat. Addig a napig a nagyanyám mindennap szobájában ült a kanapé sarkában és mesélt nekem. Sose tudtam másként elképzelni a nagymamit, minthogy reggeltől estig ott ülve csak mesél, mesél nekünk gyerekeknek, akik körülültük őt, hogy hallgathassuk.
Micsoda csodálatos élet volt az! Egyetlen kisgyereknek sem volt olyan szép gyermekkora, mint nekünk. Nem tudok többet a nagymamámról. Arra emlékszem, hogy hófehér haja volt, hajlott háttal járt és mindig a kanapéján ült és harisnyát kötött. Még arra emlékszem, amikor már befejezte a mesét mindig a fejemre szokta tenni a kezét és így szólt: „Mindez olyan igaz, mint ahogyan téged látlak, te meg engem.” Még eszembe jut, hogy nagyon sok dalt ismert, énekelt is, bár nem dalolt minden egyes nap. Az egyik dal egy lovagról és a tengeri leánykáról szólt, visszatérő sora így hangzott „Fagyos szél fújt, fagyos szél fújt a hatalmas tenger fölött."
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Egy imácskára is emlékszem, amelyre tanított: egy zsoltár verszaka volt. A meséiből csak homályos és távoli emlékeim vannak. De azok közül úgy igazán egyetlenegy él bennem világosan, hogy el tudnám mondani ma is: Jézus születéséről szóló legenda. Hát ez az egyetlen megmaradt emlék a nagyanyámról és ezután a halála okozta élénk és kitörölhetetlen fájdalom, amelyet a legélesebben akkor éreztem, amikor elvitték. Azon a reggelen, amikor megpillantottam az üres kanapéját a szobájában, arra gondoltam: „Hogyan vánszorognak az órák estig?” Erre nagyon jól emlékszem. Soha el nem felejtem. Arra is emlékszem, hogy minket gyerekeket a ravatalához vezettek, hogy csókoljuk meg a halott kezét. Féltünk megcsókolni, de valaki mondta, hogy ez az utolsó alkalom, hogy megköszönhetjük a sok örömet, amit nekünk szerzett. Nem felejtem el, hogy a meséket, a dalokat vele együtt fekete koporsóba zárva elvitték otthonról és hogy soha többé vissza nem térnek. Akkor valami végleg eltűnt az életünkből. Becsapódott előttünk annak a szépséggel és fénnyel teli bűvös világnak kapuja, amelyen át tetszés szerint ki-bejártunk, és amelyet többé már senki meg nem nyithatott. Emlékszem, hogy mi gyerekek megtanultunk játékokkal, babákkal játszani, úgy élni, mint minden más gyerek és látszólag a nagymama hiányát sem éreztük, mintha már nem is emlékeztünk volna rá. De ma, negyven esztendő múltán, ahogy itt ülök, hogy összegyűjtsem a Napkeleten hallott Jézuslegendákat, ismét eszembe jut az a Jézuska születéséről szóló rövid legenda, amit a nagymama szokott mesélni. És most valami belülről ösztökél, hogy elmeséljem a legendákkal együtt. *** Karácsony volt. Mindenki a templomba ment, csak nagyanyám meg én maradtunk otthon. Azt hiszem, csak mi ketten voltunk az egész házban. Miért nem mentünk a többiekkel? Azért, mert egyikünk túlságosan fiatal, másikunk pedig túlságosan öreg volt. Búslakodtunk mindketten, mert nem hallhattuk a reggeli kórust és nem láthattuk a karácsonyi fényeket. Ahogy szomorú magányunkban üldögéltünk, a nagyanyám egyszer csak mesélni kezdett: «Élt valamikor egy ember, aki nekivágott az éjszakának, hogy tüzet szerezzen. Bekopogott minden házba: — Jó emberek nyissatok ajtót! Feleségem gyermeket hozott a napvilágra s nekem tűzre van szükségem, hogy őt és a gyermeket melegíthessem. Az éj azonban mélysötét volt, az emberek aludtak, senki sem hallotta. Az ember tovább ment, míg a messzeségben világosságot pillantott meg. Lépteit abba az irányba vette s a szabadban hatalmas égő, lobogó lángot látott. A tűz körül népes, fehér juhnyáj és egy idős pásztorőr aludt. Az ember az alvókhoz érve a pásztor lábánál három megtermett kutyát vett észre. Azok fölrezzentek, pofájukat szélesre tátották, de nem jött ki hang onnan. Felborzolták a hátukon a szőrt, megvillantatták fehér 34
agyaraikat s rárohantak az emberre, akik érezte, hogy a a torkának akarnak ugrani, a combjába akarnak marni, kezét megharapni, de az éles agyarak sehogy sem engedelmeskedtek, s neki a legkisebb baja sem esett. Amikor meg akarta közelíteni a tüzet nem tudott a szorosan egymás mellett heverő fehér bárányok miatt továbbhaladni. Az állatok testén ment tovább. A juhok közül egyik sem riadt fel, egyik sem mozdult meg.» Ebben a pillanatban nem tudtam kíváncsiságomat tovább fékezni s félbeszakítottam nagyanyám: — Nagymama, miért nem mozdultak meg a bárányok? — Várj egy kicsit, mindjárt megtudod! — mondta, és folytatta: «Amikor az az ember a tűz közelébe ért, a pásztor felnyitotta szemeit. Haragos öregember volt, mogorva mindenkivel. Mepillantván az idegent megmarkolta hosszú, hegyes végű botját és felé vágta. De a bot, mielőtt a jövevényhez ért volna hosszú ívben elröpült, irányt változtatott és távol ért földet a mezőn.» Megint félbe kellett szakítanom a nagyanyám: — Nagyi, a bot miért nem találta el az embert? De ő rám se hederített és tovább regélt: «Az ember akkor a pásztor elé állt és így szólt: — Barátom segíts nekem, adj egy kis tüzet! Feleségem gyermeket hozott a napvilágra s nekem tűzre van szükségem, hogy őt és a gyermeket melegíthessem. A pásztor legszívesebben visszautasította volna, de arra gondolván, hogy a kutyái nem harapták meg ezt a jövevényt, a juhai meg sem moccantak és a botja messze elkerülte őt, megijedt és nem volt bátorsága megtagadni a segítséget. — Végy amennyit csak akarsz! — mondta neki. A tűz majdnem kialudt már, nem volt már se venyige, se hasáb, csak egy halom parázs maradt, de a jövevénynek lapátja meg edénye sem volt amellyel egy kis parazsat összeszedhetett volna. Amikor az öreg pásztor erre felfigyelt, kárörvendőn ismét csak biztatta az idegent gondolván magában, hogy nem fog tudni magához venni semmit: — Végy hát, amennyit csak akarsz! A jövevény azonban lehajolt: puszta kézzel szedni kezdte a legperzselőbb parazsakat és köpenyege alá rejtette és vitte, mintha egy halom dió vagy alma lett volna. Itt immár harmadszor szakítottam félbe nagyanyám: — Nagymami, miért nem égette meg az embert a parázs? — Majd megtudod — válaszolt és folytatta: «A nagyharagú, mogorva pásztor látva ezt a furcsaságot elcsodálkozott: „Miféle éjszaka ez? A kutyák nem harapnak, a juhok nem ijednek meg, a lándzsa elkerüli, a tűz nem égeti meg az embert...» Magához hívta az idegent és megkérdezte tőle: — Mondd, milyen éjszaka ez? Hogy lehet az, hogy mindenki irgalmas hozzád? — Ha magadtól nem jössz rá, én nem mondhatom meg neked — válaszolt s máris indult vissza, hogy haza vihesse a tüzet a feleségének és gyermekének. A pásztor arra gondolt, hogy nem veszítheti szem elől, ha meg akarja tudni ezen furcsa jelenségek okát. Fölkelt hát és követte a szállásáig, ahol látta, hogy az embernek még kunyhója sincs s az asszony és a gyermek a rideg kőbarlangban feküdtek.
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A pásztor arra gondolt, hogy az ártatlan gyermek bizonyára megfagy ebben a barlangban. Kőszíve ellenére megindult e szegénység láttán és elhatározta, hogy megvédi a hidegtől az újszülöttet. Kinyitotta a zsákját és egy hófehér, puha báránybőrt húzott elő és adaadta az embernek, hogy meleg nyoszolyája legyen a kisdednek.. Abban a pillanatban, hogy irgalmat érzett, megnyílt a szeme és a füle, látta, amit eddig nem láthatott, hallotta, amit nem hallhatott. Ezüstszárnyú angyalkák vették körül, kezükben lant és hangosan énekeltek, hogy ezen az éjszakán megszületett, aki megváltja a világot a bűneitől. Ekkor értette már a pásztor, miért maradt bántatlan az idegen. Angyalokat látott mindenütt, akármerre nézett: a barlangban, a hegyeken, a mennybolton. Seregekben jöttek az úton, megálltak a barlang bejáratánál, hogy megpillanthassák a kisdedet. Hatalmas ünnepség, nagy boldogság és ének s hangszerek dallama töltötte be a koromsötét éjt, ahol a pásztor eddig semmit sem láthatott. Boldog volt, hogy
megnyíltak szemei, térdre ereszkedett és megköszönte Istennek.» Nagyanyám itt felsóhajtott: — Mi is láthatnók, amit a pásztor, hiszen az angyalok minden karácsony éjszakán a mennybolton röpködnek és ha a mi szemünk is megnyílna, mi is megláthatnánk őket. Nagymama a kezét a fejemre tette és ezt mondta: — Emlékezz jól minderre, amit elmondtam, mert olyan igaz, mint ahogyan én téged látlak, te meg engem. Nem gyertyákon és nem a lámpákon múlik, sem a Holdtól, sem a Naptól függ, hanem csakis a mi szemünktől, hogy lássuk az isteni ragyogást.
Tábory Maxim (1924) — Kinston, NC (U.S.A.)
Maxim Tábory (1924) — Kinston, NC (U.S.A.)
Első torontói látogatásom mindig emlékezetemben marad, mert ott ismerkedtem meg Faludy Györggyel. Azóta hosszú évek múltak el, de minden részletére jól emlékezem. Abban az évben vásároltam meg „Pokolbéli Víg Napjaim” c. könyvének angol („My Happy Days in Hell”) fordítását. Olyan elragadó olvasmánynak találtam, hogy vásároltam ajándékba 10 példányt amerikai barátaimnak. Hallottam, hogy Faludy György Torontóban tartózkodik. Mivel amúgyis készültem egy kanadai útra, reméltem, hogy találkozhatunk. Amerikai magyar barátok nem ismerték telefonszámát vagy címét. Hamarosan, Torontóba való érkezésem után bementem egy magyar üzletbe. Vásároltam ott valamit. „Egy magyar költőt szeretnék fölhívni, megengedi-e, hogy telefonáljak?” — kérdeztem a tulajdonost. „Ha szabad kérdeznem, kiről van szó?” „Faludy Györgyről” — feleltem. „Faludy nincs a telefonkönyvben, de nekem megvan a száma”. A tulajdonos azonnal kimásolta noteszéből és készségesen átnyújtva mondta: „Fáradjon be hátul az irodámba és használja az ottani telefont!” De mégsem ment minden simán. Hívásomra egy barátságtalan hang válaszolt: „Itt nem lakik semmiféle Faludy”. Mikor kezdtem magyarázni, hogy költő vagyok, Amerikából jöttem, stb., a héttérből egy hang szólt: „Ki keres?” „Valami Tábory, amerikai magyar költő.” Egy pillanaton belül Faludy köszöntött, említve, hogy barátai próbálják távoltartani a kíváncsiskodókat. Megbeszéltünk egy esti találkozót. — Mikor beléptem a kellemes hangulatú udvari kávéházba, nem tudom, hogy hogyan, de azonnal megismert és asztalához intett. Hamarosan érdekes beszélgetésbe merültünk. — Említettem, hogy mikor először olvastam a Villon-balladákat, nagyon erősen hatottak rám. Még most is emlékszem szóról szóra jó néhány szakaszukra. Azonnal idézni kezdtem belőlük, ami mindjárt baráti hangulatot keltett. Mondta is: „Hívjál Gyurkának!” Kérésemre beszélt a „My Happy Days in Hell” c. könyvében említett barátairól és másokról, akikkel
La prima visita a Toronto è sempre impressa nella mia mente, perché là ho conosciuto György Faludy. Da allora sono passati lunghi anni, però ricordo bene ogni particolare. In quell’anno ho acquistato la traduzione inglese del suo libro intitolato I miei allegri giorni nell’in erno (My Happy Days in Hell [Pokolbéli víg napjaim]). L’ho trovata una lettura interessante, perciò ho acquistato dieci copie per regalarle ai miei amici americani. Ho saputo che György Faludy risiedeva a Toronto e, dal momento che mi stavo preparando per un viaggio in Canada, speravo di incontrarlo. Gli amici ungaro-americani non conoscevano il suo numero telefonico, né il suo indirizzo. Subito dopo il mio arrivo a Toronto entrai in un negozio ungherese. Là comprai qualcosa. «Vorrei chiamare un poeta ungherese, mi permette di telefonare?», chiesi al titolare. «Posso domandarle di chi si tratta?» «Di György Faludy», risposi. «Faludy non è nell’elenco telefonico, ma io ho il suo numero», ed il titolare del negozio immediatamente mi trascrisse il numero dal block notes compiacente. «Si accomodi nel mio ufficio, là potrà usare il telefono». Però le cose non andarono proprio bene. Alla mia chiamata rispose una voce poco affabile. «Qui non abita nessun Faludy». Quando cominciai a spiegare che ero un poeta e venivo dagli Stati Uniti, in sottofondo si sentì una voce: «Chi mi chiama?» «Un certo Tábory, un poeta ungherese degli U.S.A.». In un attimo Faludy mi salutò dicendomi che i suoi amici cercavano di tenerlo lontano da curiosi. Abbiamo fissato un incontro serale. Quando entrai nell’accogliente caffetteria del cortile, lui, non so come, mi riconobbe subito invitandomi al suo tavolino. Presto c’immergemmo in un’interessante conversazione. Gli accennai che, quando avevo letto le ballate di Villon per la prima volta, mi colpirono fortemente. Ancora adesso ricordo letteralmente parecchie strofe che iniziai a citare, hanno immediatamente creato un’atmosfera amichevole. Lui mi disse all’istante: «Chiamami Gyurka!».
TALÁLKOZÁSOM FALUDY GYÖRGGYEL
Traduzione dall’italiano di/Olaszból fordította © B. Tamás-Tarr Melinda Fonte/Forrás: Selma Lagerlöf, Le leggende di Gesù; La Nuova Italia, Editrice Firenze 1929, pp. 172; Trad. di Alberta Albertini. Il testo italiano vedansi sulla pag. 13 del presente fascicolo./Az olasz nyelvű szöveget ld. ezen számunk 13. oldalán!
L’INCONTRO CON GYÖRGY FALUDY¹
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afrikai kalandos útján találkozott. Elmondott néhány részletet, amik nincsenek a könyvben. Például, az ÁVÓ börtönében szemtanúja volt szörnyű kínzásoknak, amik ott napirenden voltak. Könyvkiadója eltanácsolta azok kinyomtatásától, mondván, hogy az amerikai olvasó nem hinne el ilyen minden képzeletet felülmúló borzalmakat. Egyet részletezett, aminek ördögien kegyetlen, véres szadizmusát képtelen vagyok leírni. Tőle tudtam meg, hogy a „Karoton” c. könyvének a címszereplőjét nagy részben Havas Bandi barátjáról formálta. Átnyújtottam két fordításom és pár magyar versem. Kért, hogy mivel nincs nála a szemüvege, olvassam fel azokat. Először egy Kosztolányi versfordítást olvastam fel. Erre Gyurka csillogó szemekkel rácsapott az asztalra és fölkiáltott: „Ez Kosztolányi!” Ezt tartom a legértékesebb dicséretnek, amit valaha is kaptam fordításomra. A következő a „Michelangelo utolsó imája” c. versének a fordítása volt, ami nagyon tetszett neki, különösen a „de lelkemben még égi fény ragyog”, „but earned a light from heaven in my soul's single eye”. Utána néhány rövid versem következett, köztük az „Együtt dobogó szívünk”, majd egy hosszabb, szimbolikus versem, „A Szent Tűz”. E kettőről mondta, hogy „kiváló” versek. Ennek nagyon megörültem. Gyurka rendelt kávét és finom cukrászsüteményeket. Közel éjfélig beszélgettünk. Akkor gyorsan elbúcsúztunk, mert rohannom kellett elkapni az utolsó földalattit. — Azóta telefonon álltunk kapcsolatban. Könyvtáramban őrzöm néhány dedikált könyvét. Megvan, többek között, a „Karoton”-ja és a „Test és lélek” is, ez utóbbinál nagyszerűbb szerzői bevezetést, ami nívós tanulmány és egyben roppant érdekes is, még sohasem olvastam. Forrás/Fonte: Tábory Maxim, Árny és Fény, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2012, pp. 160.
Dietro le mie domande, mi parlò dei suoi amici e di persone incontrate durante il viaggio avventuroso in Africa, accennato nella sua opera I miei allegri giorni nell’in erno [May Happy Days in Hell]. Raccontò qualche particolare che non si trovava nel libro. Ad esempio quello che era accaduto nella prigione dell’ÁVÓ². Fu testimone oculare di quotidiane, terribili torture. Un lettore americano non gli avrebbe creduto perché gli episodi narratimi superano la stessa fantasia. Mi raccontò dettagliatamente di una tortura, ma questo crudele, sanguinoso sadismo non ho la forza di descriverlo, perché ne sono incapace. Da lui venni a sapere che, il protagonista del suo libro Karoton, s’ispirava al suo amico, Bandi Havas. Gli cosegnai due traduzioni e alcune poesie. Non avendo con sé i suoi occhiali, mi chiese di leggerle ad alta voce. Lessi la traduzione di una poesia di Kosztolányi. Con gli occhi lucidi lui dette un colpo sul tavolino e gridò: «Questo è Kosztolányi!» Considero questo l’elogio più importante mai ricevuto prima per le mie traduzioni. Poi lessi la traduzione della sua poesia intitolata L’ultima preghiera di Michelangelo, che apprezzò molto, soprattutto nel verso «ma nella mia anima la luce celeste ancora splende» («but earned a light from heaven in my soul’s single eye [«de lelkemben még égi fény ragyog»])». Dopodiché fu il turno di qualche mia breve poesia, tra cui I nostri batticuori, poi una poesia simbolica più lunga, intitolata Il Sacro Fuoco. Di queste due liriche mi disse che erano poesie «eccellenti». Ho provato grande gioia per questo! Gyurka ordinò del caffè e squisiti pasticcini. Conversammo fino a mezzanotte circa. Poi, velocemente, ci salutammo perché dovevo affrettarmi a raggiungere l’ultima corsa della metropolitana. Da allora abbiamo sempre avuto contatti telefonici. Nella mia biblioteca custodisco qualche suo libro autografato. Tra questi possiedo anche il Karoton ed il Corpo ed anima. Di quest’ultimo, una così magnifica introduzione d’autore, che è anche studio di alto livello estremamente interessante, non l’avevo ancora mai 4 letta.
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N.d.T.: György Faludy (1910-2006) è stato un poeta, traduttore letterario, redattore e pensatore ungherese. Nato a Budapest in una famiglia [n.d.r.: di origine ebrea] benestante […] le sue poesie lo resero amoso abbastanza giovane. Nel 1938 andò a vivere in esilio a Parigi. Dopo la caduta della Francia durante la seconda guerra mondiale, fuggì in Marocco, dove ha trascorso quasi un anno, poi è stato invitato a risiedere in America dall’allora governo degli Stati Uniti. Egli divenne editore di un giornale, finanziato da parte del movimento "Free Ungheria" (Libera Ungheria), poi si iscrisse al U.S. Army. Nel 1946 tornò in Ungheria e fu imprigionato, dopo alcuni anni, nel campo di Recsk. Nel 1956 fuggì di nuovo andando a vivere a Vienna, Londra, Firenze, Malta e New York. Nel 1967 emigrò in Canada (Toronto) e tornò definitivamente in Ungheria solo nel 1989. Ha scritto un’autobiogra ia molto acclamata, intitolata in inglese My Happy Days in Hell. Un po’ più dettagliatamente vs.: http://en.wikipedia.org/wiki/György_Faludy ² Sezione per la Protezione di Stato della Polizia Ungherese [Magyar Államrendőrség Államvédelmi Osztálya] da cui si distacca un’organo indipendete l’ÁVH ([Államvédelmi Hatóság] Autorità per la Protezione dello Stato) che u il nome della polizia segreta ungherese dal 1945 al 1956.
³ Dezső Kosztolányi de Nemeskosztolány (Szabadka [città – di conseguenza al Trattato di Trianon del 4 giugno 1920 – oggi appartenente all’attuale Serbia], 29 marzo 1885 – Budapest, 3 novembre 1936) è stato un poeta, scrittore, giornalista e traduttore ungherese, conosciuto in Italia per il romanzo Le mirabolanti avventure di Kornél. N.d.R.: Questa versione è la prima traduzione italiana, è una versione parziale, è uscita nel 1990 per opera di Bruno Ventavoli – Edizione e/o Roma , mentre la seconda traduzione italiana è completa col titolo originale «Kornél Esti/Esti Kornél» per opera di Alexandra Foresto, realizzata con un linguaggio più moderno, contenente tutte le 18 novelle integre dell’edizione originale del 1933, stilate dallo stesso Kosztolányi. Vd. Il servizio a proposito - a cura di Melinda B. Tamás-Tarr - le pp. 75-82 del fascicolo NN. 97/98 2014 della ns. rivista. 4
Fonte: «Appendice» del volume «Ombra e Luce» di Maxim Tábory; traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2010 pp.120.
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COCKTAIL DELLE MUSE GEMELLE Lirica – Musica – Pittura ed altre Muse PAROLA & IMMAGINE
Franco Santamaria (1937)―Poviglio (Re)
SOGNI DI FARFALLA
Dipinto ad olio su tela, 30x40
Un campo di gravide spighe di là della muraglia dei fichidindia dagli stiletti innestati; un campo di fiori dove emerge su tutti il rosso papavero con la gialla [margherita, dove profumano mani di polline e parole e gesti come regali nella notte di Natale. Uno spazio costruito sulla gioia durevole non più di un minuto, quando all'unisono si distende il coro delle voci di primavera e, poco più là, s'inarca il ponte dei visitatori invisibili che proteggono una forma di albero sottratto all'Eden. Una piazza di bimbi che inseguono per il cielo l'aquilone ancora prigioniero e sfidano innocenti i sordi schianti delle bombe. Ma, resta il desiderio che non è più speranza di scoprire i sentieri e le torri con le bandiere vittoriose; il desiderio che non è più attesa di osservare ad oriente il sole che sorge
dietro stilizzate ombre appena aleggianti per la brina e di schiudere il mistero della sabbia che trattiene il respiro del cielo fra le dune. Il tempo non si cristallizza, non aspetta che le otarie, [spiriti sfuggenti degli oceani, consumino nuovi amori quando mille altre presenze rapiscono la luce lunare alle onde, né aderisce alla forza degli anelli che sigillano corpi da sempre. Non è il tempo, scorrendo la sua linea senza orizzonte, che rompe il silenzio degli elementi basilari e riempie di sostanza creatrice la sfera. Ha il desiderio un che di fiele che sgorga crescendo ad ogni residua alba e tutto quanto innalzato sull'arenaria nei giorni perduti accompagnerà solo i sogni nel vento di una farfalla che vuole per me covare uova celesti. Fonte: http://www.modulazioni.it
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Empedocle si getta nel vulcano (Salvator Rosa)
CRONACHE DAL SARCOFAGO di Giuseppe Roncoroni
TUTTE LE COSE NASCONO E HANNO FINE NEL FUOCO. MAGHI, BACCHI, MENADI, NOTTAMBULI, INIZIATI : ALLA MORTE SEGUIRÀ IL FUOCO ! ERACLITO 38
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Anche costui lo abbiamo conciato perché
Quando il medico, toccandomi il polso, borbottò
possa essere accolto come persona perbene
«non c’è più niente da fare!» mi parve di venir meno
da questa famiglia perbene. Già è pronto
per l’emozione. Si ripresentavano insistenti
il seggio con i distintivi luccicanti. Perché,
le scene dell’incidente: l’escursione solitaria
allora, ha disdetto il nuovo domicilio?
per un sentiero troppo ripido (in barba alle
Perché dissiperà in fumo l’abito e il corpo?
raccomandazioni della zia), l’interminabile caduta
Perché li dimenticherà sui picchi di neve o
fino alla base della roccia, le grida fastidiose
nelle fosse dell’oceano? Perché ripudia
di coloro che da lì mi stavano osservando,
il nome che l’acquasantiera gli rimarcò?
l’accorrere di un medico con lo sguardo da ebete.
Questo uomo viola i vincoli e i sacramenti. Pecca di superbia. Brama una vuota libertà.»
2 Stranamente i giorni successivi regalarono
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le maggiori soddisfazioni della mia vita.
D’improvviso giunse il buio. Nell’aria vagò
Vennero in visita molti amici, alcuni di loro
profumo di incenso, tintinnare di campanelle,
mai conosciuti, e mi gratificarono di parole
una cupa cantilena e l’eco di voci solenni ormai
quasi commoventi. Mi fecero indossare l’abito
decomposte in brandelli di suoni senza anima.
elegante e mi adagiarono in una culla di legno
Lontano udii pochi colpi sordi. Poi più nulla.
al cui interno il velluto rosso donava una nota di vivacità. Mi divertì la litania di un figurante
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che gironzolava come un cane da guardia.
Ora sono qui. Il fuoco scioglie il pupazzo di cera e lo disperde in cenere quasi che sia una cinta
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ormai nemica. E forse sbaglio nel dire «sono qui»,
«Questo uomo avrebbe una cappella linda
come se fossi ancora una sola cosa, perché in me
e ornata di fiori. Là si radunano gli antenati
c’è un fluire di emozioni. Così, in quest’istante, sono
con cura dislocati in pile. Ricordo gli ultimi
una cometa lanciata arditamente negli abissi celesti
e quanto all’ingresso fossero educati e fieri!
e un’onda rabbiosa che si frange sulla scogliera.
SAGGISTICA GENERALE
Dante in musica – Il fallimento e il successo della Sinfonia Dante1 Lo scopo di questo saggio è dare un quadro preciso della recensione Ottocentesca della Sinfonia Dante di Ferenc Liszt. La maggior parte delle informazioni su questo tema si trova nelle lettere del compositore, nei programmi dei concerti e nella stampa contemporanea. Il mio scopo era dare un quadro dettagliato della prima esecuzione che fu un grande fallimento e dei concerti successivi che invece furono grandi successi. La Sala Dante si trova a Roma al Palazzo Poli. Liszt arrivò dall’Ungheria a Roma nel 1865 dove si fermò al Vaticano e a Villa d’Este a Tivoli. In quell’anno a Roma furono organizzate diverse esibizioni ed eventi culturali per il seicentenario della nascita di Dante Alighieri. In
quell’anno inaugurarono anche la sala dei concerti denominata in onore a Dante. Avevano scelto la Sinfonia Dante per il concerto di inaugurazione e chiesero al maestro stesso di dirigere il concerto. Per questa occasione speciale fu organizzata una rassegna di acquerelli con la sponsorizzazione di Romualdo Gentilucci dove vennero esibiti i quadri ispirati dalla Divina Commedia. Liszt ha menzionato in un manoscritto la Sinfonia Dante e i preparativi del concerto d’inaugurazione della Sala Dante. Secondo le ricerce di László Eősze quest’annotazione fu scritta alla fine del 1865 e questo è l’unico nell’estate di Sgambati che presenta il titolo accanto al nome di Liszt il quale titolo accettò il 25 aprile 18652. “Caro Sgambati! Conto sul suo promesso cortese, e La aspetto domani (sabato) con dei “Preludi” e con “Dante” alle quattro a 3 Brettschneider.”
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Giovanni Sgambati fu uno studente molto caro di Liszt. Con il suo talento conquistò l’attenzione e l’affidamento del maestro. Liszt lo sentì la prima volta alle matinée del violinista Tullio Ramaciotti. Sgambati suonò al pianoforte un brano di Hummel e Liszt fu stupito dal talento straordinario del ragazzo diciannovenne. Lo invitò al suo studio e si offrì di insegnargli. Sgambati è uno dei pochi che furono scelti da Liszt tra i suoi allievi. Il giovane musicista accettò l’opportunità e studiò da Liszt con entusiasmo e perseveranza. Liszt incaricò Sgambati di dirigere il concerto d’inaugurazione della Sala Dante nonostante Sgambati non avesse mai diretto prima l’orchestra e la Sinfonia Dante fosse ricca di elementi nuovi straordinariamente difficili. “Ricordando Beethoven, Liszt usa il coro delle donne (ad lib. voci bianchi), che mette in galleria in modo tale da rimanere invisibili al pubblico, creando un’atmosfera 4 5 celeste.” Il brano è ricco di tritoni, usa le scale nuove e i musicisti devono essere attenti non solo alla melodia difficile ma anche alle difficoltà tecniche dell’esecuzione, come per esempio l’orchestra che dev’essere insieme al coro alla galleria. La prima rappresentazione assoluta la diresse Liszt stesso il 7 novembre 1857 a Dresda. Il concerto fu un fallimento causato dal fatto che Liszt non aveva fatto abbastanza prove per insegnare ai musicisti questa sinfonia difficile, innovatrice. Come ha scritto Klára Hamburger, il coro e l’orchestra non riuscirono a seguire lo stesso tempo ed 6 ebbero problemi anche nell’intonazione . Il lavoro dei musicisti fu ostacolato dal fatto che dovevano suonare dalle partiture manoscritte di Liszt che erano piene di correzioni e cancellazioni. La partitura fu stampata da Breitkopf und Härtel nel 1859. Il secondo concerto fu eseguito con successo nel 1758 a Praga. Alan Walker sottolinea la difficoltà di questo brano dicendo che i brani difficili come il Tasso, Les Preludes oppure la Sinfonia Dante hanno tante innovazioni tecniche: ci sono effetti di vento e tempesta, armonie ardite, armature e misure estranee, tempi e nuove forme che 7 sembrano caotiche finché non si spiegano alle prove. Liszt ha dato questa sinfonia difficile al suo allievo, Sgambati come primo brano da dirigere. “Sgambati comincia là, dove altri non riescono neanche ad arrivare.” Diceva Liszt ai contemporanei che dubitavano alle capacità del giovane musicista. Luciano Chiappari ha notato dopo aver scritto la frase precedente che Liszt era talmente soddisfatto del lavoro di Sgambati che gli regalò una bacchetta d’ebano in cui aveva inciso 8 in argento il nome e la data del concerto. Le prove per il concerto d’inaugurazione della Sala Dante a Roma erano molto più serie di quelle di Dresda. Liszt scrisse con confidenza ed entusiasmo di Sgambati e delle prove della Sinfonia Dante a Carl Gille in una lettera datata 18 febbraio 1866: “La settimana prossima suonano la mia Sinfonia Dante in occasione dell’inaugurazione della Sala Dante. Dall’altro ieri 70-80 musicisti frequentano le prove con un piacere e un impegno che per Roma è straordinario. Sgambati dirige l’orchestra ed è determinato a fare un altra dozzina di prove se è necessario. I miei amici locali dicono che il brano avrà un successo grandioso. A Dresda non erano così erranti; ma è vero che il concerto là è riuscito molto male per via della mancanza delle 9 prove.” Liszt in questo periodo faceva parte della vita musicale non solo come virtuoso di pianoforte, direttore d’orchestra e compositore ma anche come rispettato 40
professore di musica. Partecipò alle prove dell’orchestra e diede consigli ai musicisti ed al dirigente. Sgambati è il mittente di una sua lettera in cui Liszt dà delle istruzioni per le prove della Sinfonia Dante: “Caro Sgambati! Mi perdoni ma non riesco a partecipare alla prova di stamattina. Conto sulla sua devozione e impegno con cui stabilisce l’intonazione nelle orecchie e nelle gole 10 delle nostre giovani donne coriste.” La data dell’evento fu cambiata diverse volte, questo spiega perché non fu menzionato nel programma stampato del concerto. Alla fine la data scelta fu il 26 febbraio 1866. Il programma di otto pagine menziona il grande numero dei musicisti (cento) e cita anche gli ospiti illustri. Il concerto fu un successo talmente grande che dovettero ripeterlo. Al secondo concerto accanto alla Sinfonia Dante suonarono il duetto Ave Maria di Donizetti con l’accompagnamento di un quartetto. Sul programma stampato di questo evento riportarono il programma completo, la data e il luogo, e i nomi dei solisti e del direttore. Liszt probabilmente fu presente anche in questo concerto. La vita musicale di Roma ebbe un rinascimento con l’apertura della Sala Dante. Al contrario di Napoli e Milano, qui non c’erano ancora conservatori di musica. Quello fu fondato da Ettore Pinelli nel 1875 dopo che ebbe viaggiato e studiato nel conservatori in Germania. Nella Sala Dante furono organizzati concerti grandiosi dove suonarono i musicisti eccellenti di Roma. La Sinfonia Dante ebbe un successo simile in Ungheria un anno prima dell’inaugurazione della Sala dei concerti a Roma. Liszt scrisse in una lettera ad Agnes Street-Klinworth del 17 agosto 1865 che il 17 avevano tenuto un concerto dei compositori ungheresi: Erkel, Mosonyi, Wolkmann e altri in cui lui aveva diretto la sua Sinfonia Dante che fu talmente un grande successo che aveva dovuto ripetere tutta la prima parte dall’episodio di Francesca fino alla fine. Oltre questo diresse anche la sua Marcia Rakoczy. 11 Liszt leggeva la recensione delle sue opere nella stampa. Il 21 gennaio 1866 scrisse alla principessa Wittgenstein allegando due critiche che erano state stampate nella rivista ‘Osservatorio Romano’. Uno degli articoli raccontava dalla Sinfonia Dante, l’altra dal Stabat mater dolorosa. Il successo della Sinfonia Dante continuava. Liszt scrisse in un altra lettera ad Agnes Street-Klinworth: “Nella Galleria Dante fanno le prove dell’Eroica di Beethoven che è una novità per i romani. Questo Sgambati è un’artista raramente eccellente. (...) Dopo l’Eroica suoneranno (per la terza o la quarta volta) la mia Sinfonia Dante che qui gode di una popolarità straordinaria! Io ero l’ultimo a credere nel successo di questa opera, ma i fatti parlano da sè” 12. Liszt compose una trascrizione della Sinfonia Dante per due pianoforti, così potevano suonarlo anche durante le serate di concerti più piccoli. In una delle serate Liszt voleva suonare la sua opera con Saint-Saёns. Il 13 aprile 1866 scrisse alla principessa Carolyne von SaynWittgenstein: “Gustave Doré stamattina mi ha mandato un disegno magnifico di San Francesco di Paola. Per ringraziarlo organizzerò una serata da lui con la Sinfonia Dante. Saint-Saёns ha accettato di suonare il
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secondo pianoforte.”13 Sappiamo la data e il programma esatto di quella serata da un altra lettera di Liszt alla principessa Wittgenstein: “Domani sera recitiamo il Dante con Saint-Saёns a Gustave Dorѐ. Planté e SaintSaёns si sono appassionati ai miei poemi sinfonici che proseguono da soli silenziosamente col sordino.” 14 La serata probabilmente fu organizzata nel giorno programmato, l’11 maggio 1866, visto che Liszt racconta in una lettera alla principessa due giorni dopo che grande successo fu il concerto dove avevano suonato la prima parte della Sinfonia Dante. Dorѐ regalò un altro quadro a Liszt ispirato dalla Divina Commedia o meglio dire dall’interpretazione di Liszt della Divina Commedia. Questo quadro è un’opera singola, non fa parte della seria famosa “Dante” di Dorѐ. Liszt portò con Lui questi due quadri a Roma, poi li appese alle pareti della sua camera di Budapest. La descrizione di Eckhardt Mária del quadro: “la porta dell’Inferno”, che è un panorama roccioso con due uomini di fronte: Dante e Virgilio. Dietro alle roccie si trova lo spazio vuoto. Con una dicitura nell’angolo in basso a destra: “d’aprés la symphonie de l’abbate Liszt / G.Dorѐ”. A sinistra si trova una citazione dalla Divina Commedia: “lasciate ogni speranza, voi ch’intrate.” 15 Il rapporto di Liszt e Dorè mostra come si ispiravano l’un l’altro nei diversi campi artistici nell’Ottocento. L’arte era un linguaggio comune e tutti gli artisti esprimevano il contenuto artistico con i loro mezzi. Kaposy scrive che Dorѐ amava la compagnia, e frequentava spesso i circoli letterari e i musicisti. Organizzò le serate nel suo studio dove invitava famosi scrittori, politici, editori, attori celebri, cantanti, musicisti e compositori16. Anche lui partecipava a questi concerti, suonava il violino ed aveva una bella voce tenore. Così i grandi nomi si incontravano in queste serate come per esempio Rossini, Saint-Saёns, George Sand, Berlioz, Gounod e Planté. Dalle lettere degli anni 1860 di Liszt si vede che l’inaugurazione della Sala Dante (Galleria Dante) fu un evento molto significativo per il progresso della vita musicale romantica di Roma. Il concerto della Sinfonia Dante ebbe un grande successo e aprì una porta alla musica moderna nella vita musicale di Roma. La presenza di Liszt contribuì anche al progresso della giovane generazione di musicisti romani che avevano tanto rispetto verso lui e trasmise l’eredità intellettuale di Liszt alle generazioni future.
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Chiappari, Luciano: Franz Liszt- la vita, l’artista, l’uomo, Novara, 1987, p.232. 9 La lettera di Liszt a Carl Gille in: Hankiss János: Liszt Ferenc válogatott írásai, Budapest, 1959, p.594. 10 Lettera di Liszt a Sgambati in: Hankiss János: idem. p.28. 11 Lettera di Liszt a Agnes Street Klinworth in: Franz Liszt and Agnes Street-Klinworth-s correspondence 1854-1886, ed. Pauline Pocknell, Hillsdale, 2000, p.242. 12 Lettera di Liszt a Agnes Street Klinworth in: idem. p.252. 13 Questa lettera viene citata da Kaposy Veronika in: Kaposy Veronika: Gustave Dorè rajzai a Szépművészeti Múzeumban in: Bulletin du Musèe Hongrois des Beaux-Arts, 83, 1995, p. 147. 14 Lettera di Liszt alla principessa Wittgenstein, 10 maggio 1866. In: Eősze László: 119 római Liszt dokumentum, 1980, pp.597-598. 15 Eckhardt, Mária: Liszt Ferenc Emlékmúzeum – Az állandó kiállítás katalógusa, Budapest, 2012, pp. 66-67. 16 Kaposy, Veronika: Gustave Dorè rajzai a Szépművészeti Múzeumban in: idem. p.145-147. Anett Julianna Kádár - Debrecen (H) -
________________________ „This research was realized in the frames of TÁMOP 4.2.4. A/2-111-2012-0001 „National Excellence Program – Elaborating and operating an inland student and researcher personal support system convergence program” The project was subsidized by the European Union and co-financed by the European Social Fund.” 2 Perenyi Eleanor: Liszt, 1974, p. 414. 3
Annotazione di Ferenc Liszt a Sgambati in: Eősze László: 119 római
Liszt dokumentum, 1980, p.26. 4
Kádár, Anett Julianna: Liszt e Dante in: Quaderni Vergeriani, Trieste, 2011, p. 124. 8 Come per esempio la cosidetta scala “Dante” (Costruito dal cambio dei intervalli k2, N2). 6 Klára Hamburger, Liszt, Budapest, 1986. P. 92. 7 Alan Walker: Liszt – Volume 2, trad. Judit Rácz, Budapest, 1994, p. 264.
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Vincenzo Latrofa (1990) — Melbourne (Australia)/Bari
L'Epistola sulle definizioni e descrizioni delle cose di al-Kindī Le definizioni di filosofia e virtù
INTRODUZIONE – Il movimento di traduzione greco-arabo e la figura di al-Kindī Hārūn al-Rašīd fu proclamato califfo nell’anno 169 a.h. / 786 A.D., ovvero 24 anni dopo la fondazione della nuova capitale Baghdad, la quale divenne durante la sua reggenza il fulcro di un movimento intellettuale che intraprese un’attività sistematica di traduzione delle opere della scienza greca in arabo. Le traduzioni del periodo di Hārūn al-Rashīd riguardarono principalmente opere di matematica e di astronomia, mentre è possibile che le traduzione di opere di medicina sia iniziata nel periodo immediatamente successivo sotto il regno di al-Ma’mūn. Non fu certo a partire da Hārūn che la fatica intellettuale e scientifica divenne fattore di ascesa e remunerazione a corte: il mecenatismo ha sempre rivestito una funzione importante e, secondo quanto emerge dall’analisi di alcuni documenti arabi, già prima della fondazione di Baghdad alcuni nobili colti finanziarono le prime sporadiche traduzioni. Uno fra tutti è Ḫalid ibn Yazīd (m. nel 85 a.h. / 704 A.D. circa), il cosiddetto “principe filosofo” che nel medioevo latino fu conosciuto 1 col nome di Calid Filius Yazidi. Nel Bayān al-Ğāḥiẓ scrive che egli fu il primo a dare vita a una vera e propria attività di traduzione, e ciò trova conferma in un’altra fonte per noi indispensabile, ovvero il Fihrist di 2 Ibn al-Nadīm . Tuttavia, è forviante attribuire la causa della nascita del movimento di traduzione del tardo VIII secolo in modo monolitico e unilateralmente alla volontà energica dei singoli califfi, in virtù della longevità 3 del movimento di traduzione . Alla morte di Hārūn seguì un periodo di guerre fratricide per la successione e quindi di instabilità politica. Al termine di queste guerre, nell’anno 197 a.h. / 819 A.D., il secondogenito maschio di Hārūn, alMa’mūn, riprese Baghdad e salì sul trono califfale. Secondo gli antichi storiografi musulmani egli era fortemente interessato agli studi scientifici, e non esitava a discutere disinvoltamente di idee filosofiche e dottrine religiose al contempo. Nell’epoca della disputa sulla natura creata o increata del Corano, al-Ma’mūn si schierò dalla parte della mu῾tazila e la rese dottrina ufficiale dello Stato Abbaside attraverso un decreto nell’anno 212 a.h. / 827 A.D. . Stabilì inoltre sanzioni contro chi avesse contraddetto o negato questa dottrina. Immediatamente dopo tale decreto egli replicò il tentativo paterno di aggruppare una serie di intellettuali da coinvolgere in una nuova opera di traduzione. Uno dei personaggi di maggior rilievo, poiché uno fra i più celebri e riconosciuti autori di traduzioni dal Greco di questo periodo, è certamente Ḥunayn Ibn Isḥāq al4 ‘Ibādī (m. 259 a.h. / 873 A.D. o 263 a.h. / 877 A.D.). Nato in una famiglia cristiana e non arabofona di Hīra apprese sia il greco che l’arabo attraverso diversi viaggi lungo il suo itinerario di vita. Arrivato a Baghdad attorno all’anno 211 a.h / 826 A.D. gli furono commissionate le traduzioni di alcune opere mediche di Galeno. La sua 42
perizia nella traduzione gli procurò una certa fama, tanto che fu introdotto al califfo al-Ma’mūn, il quale inizialmente ammise Ḥunayn all’interno della nascente Bayt al-Ḥikma (Casa della Sapienza) e in un secondo 5 momento gliene assegnò la direzione . Ḥunayn si 6 dedicò alla traduzione di opere greche , soprattutto opere mediche di Galeno, tanto in arabo quanto in siriaco. Il suo procedimento di traduzione contemplava uno stadio iniziale in cui il dattiloscritto greco veniva tradotto in siriaco, in virtù della maggiore ricchezza e appropriatezza lessicale in ambito scientifico di quest’ultima lingua, ed una seconda e ultima fase di traduzione in arabo. Nella Risāla ī ḍikr mā turğima min kutub Ğālīnūs bi-‘ilmihā wa ba’ḍ mā lam yutarğam cita assieme all’opera tradotta il nome di colui che gliela aveva commissionata. Da un’analisi delle committenze in relazione alla lingua d’arrivo delle traduzioni L. Leclerc ha ipotizzato che la scelta della lingua non fosse casuale ma fosse vincolata all’appartenenza etnico-religiosa del mecenate, indi per cui ragion Ḥunayn traduceva in arabo allorquando il patrocinatore era arabo-musulmano mentre volgeva al siriaco quando era sovvenzionato da qualche cristiano suo 7 conterraneo . Dopo la morte di al-Ma’mūn avvenuta nell’anno 218 a.h. / 833 A.D. la Casa della Sapienza sprofondò per circa un quindicennio in una fase di decadenza, fino all’ascesa al trono di al-Mutawakkil che la rigenerò e le diede nuova linfa vitale. Il corso delle relazioni personali fra al-Mutawakkil e Ḥunayn fu marcato da alti e bassi, e gli attriti fra i due risalgono principalmente a discordie religiose e al rifiuto di Ḥunayn Ibn Isḥāq di abbandonare la fede cristiana nestoriana. Secondo il Fihrist di Ibn alNadīm, Ḥunayn infine morì nell’anno 259 a.h. / 873 A.D. A Ḥunayn Ibn Isḥāq e alla sua scuola, di cui hanno fatto parte anche suo figlio Isḥāq Ibn Ḥunayn e infine suo nipote Ḥubaysh ibn al-Ḥasan, si deve l’importante attività di traduzione di testi scientifici greci. Sebbene non riteniamo di aver evaso del tutto le domande di ordine storico relative alla nascita del movimento di traduzione, ovvero le notizie relative al “Quando?”, ciò che ci preme affrontare e comprendere unitamente a essa è il “Perché” che soggiace alla nascita della Casa della Sapienza, ovvero le ragioni ideologiche ed eventualmente politiche che hanno condotto alla sua fondazione e perdurata attività. 8 Secondo Mirella Cassarino , durante l’ultimo periodo del Califfato Omayyade e i primi anni del Califfato Abbaside avvennero scambi culturali e di idee fra arabi e popolazioni circostanti, oltre agli scambi di beni materiali. Gli arabi provarono ad assimilare e reimpostare le influenze allogene sotto il comune denominatore dell’Islam e della lingua Araba. Il vero e proprio movimento di traduzione ebbe grande fioritura dopo l’avvento della dinastia Abbaside, la quale fece dell’assimilazione delle altre culture un punto nodale del 9 proprio programma politico . Differentemente dai predecessori Omayyadi, i quali esasperarono l’enfatizzazione della superiorità etnica araba rispetto alle popolazioni dominate, gli Abbasidi intesero il rapporto fra conquistatori e conquistati secondo un’ottica più egalitaria che superava le differenze etniche e mirava a includere chiunque si fosse convertito all’Islam nella stessa comunità. Dello stesso avviso è Dimitri Gutas, secondo il quale la nascita dei movimenti di traduzione ebbe molto a che fare con la
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fondazione di Baghdad e l’insediamento della dinastia 10 Abbaside alla guida di un impero sovranazionale . Ancor più chiara è la formulazione di Ulrich Rudoldh sulla weltanschauung Abbaside: al contrario dei loro predecessori, gli Abbasidi non si vedevano più come guida di un’élite arabo-islamica. La loro aspirazione andava assai oltre: essi volevano essere i legittimi signori di tutti i musulmani e di tutte le culture da loro rappresentate. Si spiega così la fondazione della nuova capitale, Baghdad, in prossimità degli antichi centri sasanidi; e così si spiega anche la loro propaganda, in cui veniva proclamato che solo i califfi – e non qualche altro sovrano non musulmano – erano i veri custodi della (ampiamente ellenizzata) tradizione iranica, come pure del retaggio dei greci. Ciò comportò che gli Abbasidi concedessero all’eredità degli antichi un posto privilegiato nella loro politica culturale, e facessero quindi in modo che, attraverso le traduzioni arabe, essa 11 entrasse nella nuova società . Secondo Carmela Baffioni rispetto ai tre periodi in cui appare divisibile la storia degli Abbasidi – 1) 750/850 ca. ; 2) 850/950 ca. ; 3) 950 – 1258, data quest’ultima della conquista di Bagdad da parte dei Mongoli – anche la filosofia si può dare una triplice scansione: Nel primo periodo (750/850 A.D. ca.) assistiamo all’avvio del processo di traduzione delle opere filosofiche greche. Nel secondo periodo (850/950 A.D. ca.) seguiamo lo sviluppo delle scienze e le prime elaborazioni filosofiche, di al-Kindī e al-Rāzī, elaborazioni che potremmo definire ellenizzanti e che appaiono intimamente legate allo sviluppo delle scienze. Con al-Fārābī (m. 950 A.D.) sconfineremo nel terzo periodo (950/1258 A.D.), allorché la connotazione ellenizzante di quella filosofia viene sempre più islamizzata alla luce della crescita delle esperienze 12 spirituali proprie della nuova religione. Opinione che sembra nei suoi punti principali sovrapponibile a quella esposta, in un più recente libro, da Gutas, secondo il quale il movimento di traduzione si è sviluppato in tre fasi progressive in cui la tecnica di traduzione si è lentamente perfezionata. Egli suddivide le tre fasi in: - quella delle traduzioni letterali antiche, detta dei veteres - una fase intermedia e più raffinata dovuta a Ḥunayn e al suo circolo - una fase più tarda, detta dei recentiores, della scuola filosofica di Baghdad, che essendo una fase prevalentemente di revisione delle traduzioni precedenti 13 mostra il dominio dei dettagli filosofici e contenutistici . I tre periodi rintracciati da Gutas e dalla Baffioni collimano in alcuni punti della loro scansione temporale e differiscono in altri: entrambi collocano Ḥunayn (morto fra l’anno 873 e il 877 A.D. secondo le fonti antiche, ndr) nella fase seconda e intermedia; mentre non coincide il periodo a cui i due fanno risalire la conclusione del movimento. Secondo Gutas infatti il movimento di traduzione rallentò e si esaurì attorno alla ine del primo millennio. (…) Non c’erano più testi secolari greci da tradurre. (…) I testi greci, perciò, persero di attualità. (…) Sempre più mecenati commissionarono non traduzioni di opere greche ma 14 composizioni originali arabe. Su questo specifico tema Gutas si immette nel solco tracciato da Richard Walzer secondo cui the Arabic translations of Greek
philosophy begin in early ‘Abbāsid times (about A.D. 15 800) and can be followed up until about A.D. 1000 Ad ogni modo, questa tesi si concentrerà sul primo periodo critico e sull’attività legata ad al-Kindī e al suo cenacolo, non ci occuperemo dei periodi successivi. Alla fioritura del movimento di traduzione diedero un contributo fondamentale gli arabi cristiani, ricordiamo, oltre al già citato Ḥunayn Ibn Isḥāq e i suoi discendenti, anche Qusṭā Ibn Lūqā al-Baʿlabakkī, Yaḥyà ibn ‘Adī e 16 Abū Bišr Mattā . Molti compilatori e storiografi musulmani dell’epoca ci hanno lasciato preziosi resoconti che segnalano sia i nomi di coloro che si sono spesi per tradurre le opere antiche in arabo, sia i titoli delle opere tradotte. Fra questi menzioniamo al-Qifṭī, e particolarmente importante per noi è Ibn an-Nadīm, che nel suo Fihrist (Indice) fornisce l’elenco delle opere di filosofia greca volte all’arabo. Da una disamina di questo Indice appare chiaro che le opere volte dal greco e dal siriaco all’arabo sono quelle facenti parte dei curricula delle scuole tardo-greche di indirizzo neoplatonico. Questo vuol dire che i testi pervenuti agli arabi sono quelli più aderenti e conformi alle dottrine neoplatoniche, e anche che questi testi sono pervenuti secondo l’interpretazione di marchio neoplatonico. Fra le opere prime certamente tradotte di Platone ci sono il Timeo e il Simposio; di Aristotele ci sono scritti di filosofia naturale, il De Anima e la Metafisica, una parte della quale, il libro Piccolo Alfa, si deve al figlio di Ḥunayn Ibn Isḥāq, ovvero Isḥāq Ibn Ḥunayn, mentre tutte le restanti parti della traduzione si devono a Usṭāṭ (Eustachio o Eustazio). Un autore molto apprezzato dagli Arabi è stato proprio Aristotele per la sua concezione della filosofia come ricerca delle cause, da lui e dalla sua speculazione filosofica furono dedotti tutti quegli elementi che potevano integrarsi coerentemente nel nascente pensiero Islamico: secondo Carmela Baffioni, il tentativo degli arabi altro non fu che quello di creare una solida architettura per spiegare e veicolare il messaggio Coranico in termini più razionalmente possibili, e per adempiere a questa finalità si rintracciò nella filosofia greca un valido dispositivo. La posizione della Baffioni può risultare accettabile solo se si parla della fase primigenia della filosofia araba, ma di sicuro è riduttivo affermare che veicolare il messaggio Coranico sia stato l’unico scopo della filosofia araboislamica nel corso dei secoli fino alla caduta del califfato Abbaside. Come precedentemente detto, un fattore che condizionò l’esordio della filosofia araba fu più che il taglio curriculare neoplatonico l’ampia gamma di commentari che pervennero assieme alle opere prime, da quelli più antichi di Alessandro di Afrodisia e di Giovanni Filopono a quelli dei Neoplatonici Proclo e Plotino, i cui libri III-VI delle Enneadi furono tradotti da ‘Abd al-Masīḥ ibn Nā’ima col titolo Uthūlūğiyā wa-huwa qawl ‘alā rubūbiyya, ed erroneamente intesi come se fossero la vera Teologia di Aristotele. Questi autori e le loro opere furono decisivi nell’influenzare i temi, le dottrine, lo stile e anche la terminologia dei primi filosofi arabi. Nonostante la diversità di opinioni fra gli studiosi sulle vette raggiunte dalla filosofia araba, nessuno nega che gli esordi della filosofia nel mondo arabo sono indissociabili dal retaggio greco classico e tardo-antico, 43
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la filosofia per gli arabi è dunque una scienza tradotta, con una terminologia e un impianto concettuale già cristallizzato in greco. La connotazione di filosofia come scienza straniera si evince già del lemma falsafa che è un prestito del greco philosophìa. Il fatto che la parola araba per filosofia sia un prestito linguistico non è affatto irrilevante: fin dai tempi di al-Kindī e in avanti la cultura araba considerò sempre la filosofia come un’importazione allogena. Questo è mostrato anche da un autore molto equilibrato come al-Ḫwārizmī, il quale divide il suo compendio scientifico enciclopedico Ma ātīḥ al-‘ulūm in due sezioni: nella prima sezione tratta le discipline che considera puramente arabe; mentre nella seconda sezione tratta le discipline greche, tra cui ovviamente la filosofia. Ecco come il matematico al-Ḫwārizmī ivi definisce la filosofia: “falsafa, deriva da una parola greca, cioè philosophìa, che significa amore per la sapienza; quando fu espressa in arabo si disse ilsū , donde derivò falsafa; e il significato di falsafa è scienza delle 17 verità riposte delle cose e compimento del meglio” . 18 Walzer riferisce che si è dibattuto a lungo su quale fosse il miglior approccio alla questione, ovvero se fosse più obiettivo provare a comprendere la filosofia islamica come appannaggio esclusivo degli arabi, e quindi sminuendo la rilevanza dell’orma Greca, oppure, per converso, enfatizzare la centralità del lascito greco senza considerare le specificità e l’evoluzione della filosofia araba. La tendenza oggi prevalente è quella mediana e di compromesso di riconoscere l’importanza che i metodi e i temi filosofi greci ebbero per gli arabi e al contempo di apprezzare le peculiarità e le vette raggiunte dalla filosofia Islamica. Secondo Carmela Baffioni vi è una differenza importante fra la falsafa e la filosofia greca: la filosofia greca è speculazione razionale, ricerca delle cause e dei fini che prescinde dal dogma e dalla credenza religiosa e svincolata dalla necessità di dover dare una veste e un’esegesi razionale dei passi cruciali di un qualsivoglia testo sacro. La falsafa al contrario, sempre secondo la Baffioni, non ha una dimensione autonoma ma nasce come dispositivo di speculazione strumentale. Scrive infatti la Baffioni: “L’intima fusione della Rivelazione religiosa con le dottrine elaborate dai pensatori musulmani è certamente innegabile. Ma anche dal punto di vista storico siamo portati a vedere la nascita delle varie scienze come una diretta conseguenza proprio dell’esame, anzitutto linguistico, del testo sacro, e della necessità di chiarire sempre meglio le norme della pratica religiosa da esso imposte. (…) Chiaramente, perciò, anche gli argomenti di discussione della filosofia dell’Islam furono, sin dall’inizio, quelli propri della riflessione religiosa; e tale filosofia ebbe, per più di un secolo, fini prettamente 19 apologetici” . Secondo la scuola di pensiero a cui fa riferimento la Baffioni, la filosofia nasce per offrire una visione del sapere coesistente alla religione islamica e che giustifichi i postulati Coranici; tendenza che si era già palesata nella prima metà del 1900’ con Giuseppe Furlani, che scrisse: “I filosofi arabi si sono sforzati di conciliare la filosofia aristotelica e neoplatonica colla religione islamica, con quanto Maometto aveva insegnato nel Corano, in altre parola colla rivelazione da parte di Dio. La storia degli sforzi dei filosofi arabi di conciliare la loro filosofia greca colle dottrine coraniche 44
è in fondo la vera storia della filosofia araba, o, si può dire, secondo la recente formulazione del problema della filosofia araba da parte di uno studioso Italiano (Quadri): la filosofia si presenta nell’Islam come un’invasione di criteri esegetici nel campo della teologia, ancorché questa definizione pecchi forse di eccessiva larghezza, perché collocherebbe tra i filosofi anche buona parte dei teologi. L’attività speculativa dei filosofi non si è esercitata che in misura molto modesta nei campi di quelle discipline filosofiche che in qualche modo non stiano in rapporto, in via diretta o indiretta, 20 con dottrine religiose” . Le teorie della Baffioni, influenzate da Quadri, Furlani e soprattutto Corbin, secondo cui la filosofia araba non ha una dimensione propria sono state contestate e sono oggi molto minoritarie: col passare degli anni infatti sono stati compiuti studi più approfonditi da studiosi come Gutas, Endress e D’Ancona Costa, i quali non solo hanno dimostrato come la filosofia araba abbia raggiunto delle vette proprie e abbia delle sue specificità, ma anche che già i primi filosofi, (fra cui alKindī che introdurremo a breve, ndr) per quanto dipendenti dai modelli greci, abbiano inteso fare nuovi discorsi filosofici e dare sostentamento e autonomia alla nascente filosofia araba. L’antisegnano di questa tendenza, oggi maggioritaria grazie a Gutas, Endress e D’Ancona Costa, è Richard Walzer, secondo cui Islamic philosophy is thus a productive assimilation of Greek thought by openminded and far-sighted representatives of a very different tradition and thus a serious attempt to make this foreign element an integral part of the Islamic 21 tradition . Ad ogni modo, per quanto ci siano posizioni diverse sull’autonomia e sulle specificità della filosofia araba rispetto a quella greca, posizioni che qui abbiamo cercato di confrontare e di mettere in dialogo, tutti gli studiosi concordano sul fatto che la filosofia islamica si sia occupata in un primo tempo di immagazzinare l’apogeo filosofico a cui erano pervenuti i greci per risolvere le problematiche all’interno del nascente dibattito teologico in seno all’Islam. In questo alveo sorse la figura di al-Kindī. Abū Yūsuf Isḥāq al-Kindī era un vir immensae doctrinae, un erudito e un poligrafo dotato di una vasta conoscenza che gli aveva permesso di scrivere su diverse discipline. I pochi fatti noti sulla vita di al-Kindī sono da cercare nelle opere di alcuni biografi medievali. 22 Al-Kindī nacque nell’anno 180 a.h. / 796 A.D. a Kūfa in una famiglia economicamente agiata di provenienza sudarabica, si formò a Bassora e infine si trasferì a Bagdad dove visse a lungo negli ambienti di corte negli anni del massimo fervore del movimento di traduzione e ivi morì attorno all’anno 259 a.h. / 873 A.D. Suo padre era Isḥāq b. al-Ṣabbāḥ, emiro di Kūfa, la cui famiglia era di origine nobile e fra le più importanti nella tribù araba dei Kinda, inoltre i suoi biografi riferiscono che al-Kindī era diretto discendente di al-Ash‘ath b. 23 Qays, che fu Re dei Kinda e compagno del Profeta . A Bagdad trovò un posto a corte durante il califfato di al-Ma’mūn e quello di al-Muʻtaṣim, del cui figlio, Aḥmad, al-Kindī fu precettore. Cadde in disgrazia durante il califfato di al-Mutawakkil, e pare che in questo periodo 24 ad al-Kindī fu addirittura confiscata la libreria . Fu il primo filosofo Arabo, e il suo pensiero fu influenzato dal suo coinvolgimento nello studio della
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tradizione Greca che lo precedette. Per questi due motivi Al-Kindī è stato attentamente studiato sia da studiosi di filosofia che da studiosi del movimento di traduzione Greco-Arabo. Il movimento di traduzione iniziò durante il califfato di alManṣūr (754 – 775 A.D.) e culminò proprio negli anni in cui al-Kindī era intellettualmente fertile. Al-Kindī era infatti quasi coetaneo di Ḥunayn Ibn Isḥāq. Lo studioso Gutas ha dimostrato che il mecenatismo degli Abbasidi in favore di questi traduttori aveva sostanzialmente due scopi: il primo scopo era quello eminentemente politico di competere con le limitrofe e rivali civiltà Bizantina e Persiana per aggiudicarsi l’egemonia culturale; il secondo scopo era quello eminentemente religioso di fornire conoscenze filosofiche ai dotti arabi dell’epoca da usare nelle dispute teologiche contro gli esponenti delle altre religioni. Secondo Gutas il fatto che le Confutazioni Sofistiche di Aristotele sia stato uno dei primi libri ad essere tradotto sarebbe una prova a supporto della seconda parte della sua teoria. Secondo F. Rosenthal, al-Kindī ha un ruolo di primaria importanza nella trasmissione della filosofia Greca ma non un filosofo creativo. Scrisse infatti Rosenthal che le opere di al-Kindī erano: “works which do not exhibit originality in the highest sense but fulfill a very useful educational function and may possess that secondary kind of originality that consists in presenting known facts in another lights (…) al-Kindī was a pioneer and helped in transplanting the achievements of the past 25 into a new civilization” . 26 Al-Kindī era a capo di una squadra di traduttori che si contraddistingueva dalle altre per tradurre soprattutto testi di preciso interesse filosofico. Secondo Peter 27 Adamson , il circolo di al-Kindī foggiò due tipi di traduzioni: il primo tipo può essere facilmente tacciato di essere tanto letterale e per questo anche poco comprensibile; mentre, all’esatto contrario, il secondo può essere facilmente tacciato di essere una parafrasi approssimativa dei testi greci piuttosto che una traduzione. The star example for the latter category, argomenta Adamson, is the Arabic Plotinus, which is not only loose in its handling of the Greek but sometimes adds long original sections with no basis at all in Plotinus’ Enneads. The Arabic version of the De Anima is similarly distant from its Greek exemplar. These translations could also be selective. For example, the Arabic Plotinus consists only of versions of parts of the second half of the Enneads. This is quite possibly because the earlier parts of the Plotinian corpus did not seem worth the expense and effort of 28 rendering them into Arabic . A prescindere dalla qualità e dell’accuratezza delle traduzioni, i libri greci tradotti dal suo circolo fornirono ad al-Kindī impulso per i suoi propri scritti. Pur non mancando di apporti originali, l’impegno intellettuale di Al-Kindī consistette in primo luogo nel difendere e nel promuovere la filosofia greca, e nello spiegare in cosa essa consistesse. Oltre a ciò, il suo impegno consistette nel provare a dimostrare come le verità e la sapienza straniera fossero integrabili all’insegnamento islamico. Il suo trattato Sulla Filosofia Prima costituisce il primo tentativo di utilizzare la filosofia per comprovare le dottrine principali del credo islamico.
Il lascito di al-Kindī nella tradizione filosofica Araba è permanente e pervasivo: il suo progetto di usare le opere di filosofia Greca, alla sua epoca di freschissima traduzione, in favore di destinatari Arabofoni è fondamentale per la filosofia Islamica. In questo senso, 29 secondo Adamson, filosofi come al-Fārābī, Avicenna e Averroè possono essere considerati eredi di al-Kindī, poiché tutte queste figure scrissero trattati filosofici ispirati dalla filosofia greca e che al contempo miravano a competere con essa. Al-Kindī fu il primo a scrivere riassunti, commentari o trattati sui testi dell’Organon Aristotelico (egli si interessò maggiormente alle prime parti dell’Organon, in particolar modo all’Isagoge di Porfirio e alle categorie Aristoteliche, ndr) e lo stesso fecero successivamente gli altri tre filosofi appena menzionati, soprattutto al-Fārābī. Emblematico circa il rapporto di al-Kindī e la sua riconoscenza verso i greci è che escogitò una genealogia in cui Yūnān, eponimo degli antichi greci ionici, era presentato come il fratello di Qaḥṭān, il leggendario antenato degli arabi. Questo espediente serve ad al-Kindī per legittimare la filosofia greca e la 30 sua continuità presso gli arabi . Nel suo trattato Sulla Filosofia Prima difese la filosofia cercando di dimostrare la sua aderenza al dogma del tawḥīd Allāh, al credo nel Dio unico. Questo atteggiamento di porre la speculazione filosofica al servizio delle dottrine religiose è uno dei fili conduttori di tutta la riflessione di al-Kindī; per usare una locuzione che tanta fortuna ebbe nel medioevo latino si può dire che anche per al-Kindī la filosofia servì da ancilla theologiae. Ibn an-Nādim nel suo Indice annovera al-Kindī tra i 31 filosofi naturali e gli attribuisce oltre 250 opere che spaziavano dall’astrologia alla musica passando per 32 l’aritmetica e le scienze naturali . La vastità dei suoi interessi fu straordinaria, ma non sorprendente per un intellettuale arabo-musulmano della sua epoca. Molte delle sue opere sono andate perdute e fino alla metà del 1900’ erano noti solo quei suoi trattati che erano stati recepiti e tradotti in latino nel Medioevo. Scrisse principalmente su tematiche di filosofia e di teologia, ma il corpus dei suoi scritti pervenutoci forma un’opera di considerevole vastità e mostra un ampio raggio di interessi disciplinari da parte dell’autore: scorrendo la lista di Ibn al-Nādim troviamo persino trattati e discussioni sugli argomenti più disparati come ad esempio profumi, spade, specchi, 33 tinte, zoologia, metereologia e terremoti . Al-Kindī probabilmente non conosceva né il greco né il 34 siriaco , l’ipotesi più accreditata è che non abbia 35 tradotto nulla in prima persona , ma che si limitasse ad assegnare ai suoi sottoposti le opere da tradurre e a correggerle nella parte terminologica. Peter Adamson spiega che il fatto che abbia “corretto” diversi testi probabilmente vuol dire che li ha resi in un arabo migliore, dal momento che i traduttori del suo 36 circolo non erano di madrelingua araba. Ciò che è certo è che al-Kindī non abbia mai affermato 37 in tutti i suoi scritti di conoscere il greco o il siriaco . Nonostante la sua molto probabile ignoranza del greco e del siriaco, spetta ad al-Kindī il merito di aver formato una prima terminologia filosofica in lingua Araba. La sua Risāla ī ḥudūd al-ašyā’ wa-rusūmihā (Epistola sulle definizioni e descrizioni delle cose) è il primo compendio della nuova terminologia filosofica araba. In esso il Nostro provò a attribuire dei nomi a cose o 45
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concetti che non avevano precedenti nella lingua e nel sostrato culturale in cui si immettevano, e cercò di darne una spiegazione. A volte allo stesso termine vengono date più definizioni, mentre le voci filosofia e virtù umana sono le due più lungamente trattate. Altre definizioni ancora mostrano chiaramente il retroterra greco su cui sono state prodotte, infatti viene spiegata l’etimologia del termine greco da cui prende vita il termine arabo in corso di definizione. Ha scritto a tal proposito Mirella Cassarino: “La disamina della Risāla – costituita da una serie di nomi, circa 100, che si susseguono senza un preciso ordine o criterio – mostra infatti come al-Kindī non si sia limitato alla descrizione dei vocaboli, ma si sia sforzato di attribuire a termini di uso comune un significato filosofico, o ancora, come abbia cercato di dare nuovi contenuti semantici a vocaboli poco usati. Ad al-Kindī si deve, per esempio, l’introduzione del termine ṭīna per materia. Se alcuni termini vengono dall’autore spiegati con una semplice parola o una breve frase, altri come alsa a, ‘illa o šay’ impongono una riflessione o una chiarezza maggiore. Sotto la voce falsafa egli riporta, per esempio, le varie definizioni degli Antichi, per i quali essa è anzitutto amore per la saggezza. (…) Il filosofo si sofferma subito dopo sulla definizione dell’oggetto della filosofia che è la scienza degli esseri eterni e universali, della loro esistenza, della loro essenza e delle loro cause secondo quanto è nelle possibilità dell’uomo. Nel processo di denominazione effettuato da al-Kindī è evidente com’egli intenda compiere anzitutto una sorta di sintesi di quanto gli antichi avevano detto, non solo sulla filosofia, e offrire una sua personale definizione. Sotto la voce saggezza egli riunisce infatti l’aspetto teorico e pratico di questa disciplina: Quanto alla saggezza, essa è la virtù della potenza razionale; è la scienza degli esseri universali nella loro verità, ed è 38 la messa in opera della verità che va messa in atto . Lo scritto di al-Kindī risulta essere nel complesso una forma embrionale e una presentazione commentata del dizionario filosofico. E’ vero ch’esso contiene delle vere e proprie definizioni, ma vi si trovano anche delle definizioni ambigue ed imprecise. Ciò dipendeva sia dall’ignoranza del greco e del siriaco da parte di alKindī, che conobbe indirettamente attraverso le traduzioni, una materia passata per una mediazione linguistica, sia dalla mancanza della lingua araba dei necessari termini tecnici. In tal senso la sua opera di denominazione ebbe una fondamentale importanza, perché fu uno dei primi passi nel processo di formazione di un vocabolario filosofico, avvenuto anche tramite il ricorso a parole di uso comune. Ad esempio 39 šay’ o ḥaqīqa.” Questa operazione di sintesi di quanto gli antichi avevano detto compiuta previamente da alKindī di cui parla la Cassarino è ammessa dallo stesso filosofo il quale dice: “Il mio principio è di registrare prima in citazioni complete tutto ciò che gli Antichi hanno detto su un argomento; in secondo luogo, completare ciò che gli Antichi non hanno espresso a pieno, e questo secondo l’uso della nostra lingua Araba, le abitudine della nostra epoca e le nostre 40 proprie abilità” . L’Epistola sulle definizioni e descrizioni delle cose forse è stato scritto dal solo al-Kindī oppure da al-Kindī 41 coadiuvato dai suoi traduttori e/o dai suoi studenti . Ad ogni modo, l’Epistola sulle definizioni e descrizioni delle 46
cose oltre ad incarnare il progetto di creare una versione araba del lessico filosofica greco, come abbiamo già detto, mostra la necessità da parte degli arabi di avere un dizionario per comprendere questa nuova terminologia in arabo. L’acquisizione di questo lessico filosofico comporta delle evoluzioni e delle problematiche sia di carattere linguistico che di carattere filosofico. In questa Introduzione ci interesseremo profusamente delle questioni linguistiche mentre accenneremo alle questioni filosofiche come premessa alla traduzione del Trattatello sulle definizioni e descrizioni delle cose di alKindī che ci servirà per un’analisi filosofica avanzata. QUESTIONI DI CARATTERE LINGUISTICO Non si può prescindere da una disamina della Risāla ī ḥudūd al-ašyā’ wa-rusūmihā di al-Kindī per affrontare la questione linguistica di nostro interesse, poiché in questo trattato il Filosofo degli Arabi si pose, come già detto, l’obiettivo di spiegare o definire concetti che non avevano equivalenti in lingua araba e nel retroterra culturale arabo. Come si comportò al-Kindī innanzi a queste difficoltà? Per quanto riguarda i termini e i concetti per i quali non aveva equivalenti, Al-Kindī si limitava primariamente a traslitterare; quando invece occorse inventare dei termini ex novo che appartengono alla lingua di partenza come procedette? Queste questioni connesse al linguaggio e alla denominazione non verranno mai affrontate teoricamente da al-Kindī, ma da un più tardo e non meno importante filosofo arabo: al-Fārābī. Nel suo Kitāb al-ḥurū (Il Libro delle lettere), al-Fārābī, pone delle solide basi teoriche per dirimere la questione filosofica e linguistica della denominazione, dell’origine e della formazione delle lingue e delle microlingue. Il ragionamento condotto da al-Fārābī parte da una doppia assunzione: egli compara un contesto in cui la filosofia sorge ex novo a un contesto in cui questa disciplina viene trapiantata dall’esterno. Sebbene i casi vengano analizzati a livello teorico, senza cioè addurre alcun riferimento concreto, è facile leggere un’allusione implicita al mondo greco da un lato e a quello arabo dall’altro. A proposito del primo caso, al-Fārābī spiega che quando la filosofia nasce ex novo sorge la necessità di esprimere concetti senza precedenti, necessità a cui si può adempiere in due determinati modi: l’invenzione di nuovi termini (neologismi) che non violino le leggi fonetiche della lingua stessa, oppure il ricorso a lemmi già esistenti che assumono un’ulteriore valenza filosofica oltre a quella più comune. In merito a questo primo caso al-Fārābī non offre maggiori puntualizzazioni rispetto a quanto esposto. La trattazione si fa più ampia e eterogenea riguardo invece alla seconda casistica, ovvero a quello dell’immissione in un paese di una disciplina o una materia proveniente dall’estero. Scrive al-Fārābī: “Se la filosofia, già esistente presso un popolo, viene introdotta in un determinato paese, le persone di questo paese devono prendere in considerazione i termini coi quali in quella nazione venivano espressi i concetti filosofici, e devono sapere a partire da quale dei significati, la cui conoscenza è comune alle due popolazioni, essi sono 42 stati presi a prestito dalla prima.” Appare evidente la maggiore complessità di chi opera all’interno di questo secondo caso, poiché si trova a derivare termini e
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concetti. Al-Fārābī enumera cinque differenti situazioni da cui prendono vita i termini filosofici quando la filosofia è una disciplina tràdita: 1 – Le nozioni che sono conosciute in entrambi i paesi (esatta corrispondenza tra concetti esistenti nelle due nazioni e tra gli stessi contesti in cui questi concetti germinano) 2 – I concetti sono ignoti, però somigliano in qualche modo a nozioni esistenti nel paese in cui la filosofia è introdotta 3 – Concetti filosofici specifici somigliano, nel secondo paese, a nozioni generali che tuttavia differiscono da quelle della nazione di provenienza 4 – Un concetto filosofico somiglia a due nozioni generali 5 – I concetti filosofici non trovano corrispondenza nel paese in cui sono introdotti Al termine di questo elenco al-Fārābī si limita a dire che nel primo caso è possibile la traduzione diretta, mentre man mano che diminuisce la corrispondenza, la traduzione diretta non è più eseguibile e diventa necessario ricorrere a espedienti di creazione lessicale. Nonostante la sua meritata fama di acuto filosofo, alFārābī purtroppo non offre in questo caso soluzioni più dettagliate rispetto a quelle già esposte. Il limite di AlFārābī in questo passo consiste nel non formulare una descrizione sistematica e nel non chiarire quando e come questa creazione lessicale riguarda l’impiego di calchi linguistici, traslitterazioni, traduzioni o neologismi in caso di minore o mancata somiglianza fra i concetti e le nozioni dei due paesi. D’altra parte, questo brano del Kitāb al-ḥurū di alFārābī ci fa capire quale fosse la presenza della discussione sul tema traduzione – significato nel X secolo e dimostra come le riflessioni sul rapporto di significazione che unisce il concetto alla parola siano ancora carenti. Al-Fārābī, pur partendo da presupposti empirici, non adduce mai riferimenti concreti al movimento di traduzione, né fa alcun riferimento esplicito ad al-Kindī e alla sua Risāla ī ḥudūd al-ašyā’ wa-rusūmihā; tuttavia appare chiaro che, essendosi preoccupato della questione del lessico tecnico filosofico, non solo non abbia ragionato astrattamente, ma non abbia potuto prescindere proprio da chi fino a quel momento era l’unico autore di un glossario filosofico in lingua araba. Per avere uno studio esplicito e sistematico su al-Kindī e il suo circolo di traduttori dobbiamo attendere fino allo studioso di fama internazionale Gerhard Endress. Come in precedenza detto, le opere prime disponibili in arabo di questo periodo sono: di Platone il Timeo e il Simposio; di Aristotele scritti di filosofia naturale, il De Anima e la Metafisica; più un’ampia gamma di commentari che pervennero assieme alle opere prime, da quelli più antichi di Alessandro di Afrodisia e di Giovanni Filopono a quelli dei neoplatonici Proclo e Plotino, i cui libri III-VI delle Enneadi furono tradotti da ‘Abd al-Masīḥ ibn Nāʿima col titolo Uthūlūjiyā wa-huwa qawl ‘alā rubūbiyya ed erroneamente intesi come se fossero la vera Teologia di Aristotele. Se possiamo affermare questo con un considerevole grado di certezza è grazie a Endress che sulla scorta di somiglianze linguistiche, traduttive, terminologiche e stilistiche ha dimostrato come queste opere facessero 43 parte dello stesso blocco . L’analisi di queste traduzioni
mostra una serie di caratteristiche linguistiche, elencate da Endress in questo modo: - L’uso di prestiti linguistici e traslitterazioni da termini greci (anche dall’aramaico e dal persiano a volte); - L’uso di calchi linguistici, - La transizione dall’uso pre-scientifico di equivalenti arabi ad hoc (talvolta coniati su calchi Siriaci) a una terminologia sistematica e coerente - La formazione di sostantivi astratti o altri neologismi - L’uso concorde di diversi termini o serie di termini per parte di traduttori o gruppi di traduttori coevi - L’influenza stilistica Alessandrina nella sintassi dei traduttori, dove un inventario di frasi introduttive, riassuntive, di transizione e connettive è una delle più impressionanti caratteristiche di questi testi - Una tendenza interpretativa di marcata preferenza Neoplatonica, e al contempo un’eliminazione nei testi Neoplatonici stessi della molteplicità di divinità 44 personificate . Tutti questi sono secondo Endress singoli fossili guida che formano un insieme di fossili indice che ci permette di connettere i testi tradotti dal circolo di al-Kindī ed è alla base del suo compendio lemmario Risāla ī ḥudūd al-ašyā’ wa-rusūmihā. QUESTIONI DI CARATTERE FILOSOFICO Abbiamo parlato di come gli esordi della filosofia nel mondo arabo siano indissolubilmente legati al retaggio greco e di come, ciononostante, il caso di falsafa e philosophìa sia la più palese concretizzazione del proverbio “tradurre significa tradire”. Abbiamo accennato anche a quale fosse l’orizzonte culturale e intellettuale di al-Kindī, in altre parole della sua postura nei confronti del rapporto fra rivelazione religiosa e conoscenza filosofica che inquadrava secondo un’ottica di coesistenza. Il primo scopo di al-Kindī fu quello di normalizzare la filosofia greca nel contesto islamico mostrando l’aderenza e la coerenza della filosofia al dogma religioso, come ad esempio nel trattato Sulla Filosofia Prima in cui la filosofia è adoperata in difesa del dogma del tawḥīd Allāh, nucleo imprescindibile del credo monoteista Islamico. Al-Kindī, lungi dal porre verità filosofica e verità religiosa su una comune piattaforma epistemologica, si occupa di dimostrare la coesistenza armoniosa di questi due metodi conoscitivi e in caso di contrasto fra le due antepone la religione alla filosofia. In virtù di questa tendenza ad asservire la filosofia in modo funzionale alla religione avevamo adoperato una definizione della filosofia proveniente dal Medioevo Latino per indicare la funzione della filosofia nell’impianto di al-Kindī, ovvero una funzione di ancilla theologiae. Dunque la filosofia sorge come dispositivo idoneo alla difesa, chiarificazione e dimostrazione del dogma Islamico e dei passaggi apparentemente oscuri del Corano. Nella prima parte della nostra Introduzione abbiamo anche chiarito quali sono state le fonti di al-Kindī, il materiale che gli pervenne attraverso traduzioni a lui precedenti e soprattutto quelle che egli stesso commissionò alla sua squadra di traduttori. Ciò che non abbiamo chiarito è come al-Kindī abbia operato sulle sue fonti e come le abbia adoperato nel costruire il suo
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pensiero e a quali conclusioni originali sia giunto partendo da esse. Come si può notare scorrendo la lista delle fonti, alKindī ebbe a conoscere molto più materiale di filosofia teoretica che di filosofia pratica. I suoi scritti riflettono a pieno questo divario. Più studiosi si sono chiesti se al-Kindī abbia detto qualcosa di nuovo rispetto alle sue fonti oppure se i suoi trattati non sono che un mera farragine del materiale greco di cui disponeva in traduzione. Sempre secondo Peter Adamson certainly some Kindian works do seem to fit this description (cioè un miscuglio di opera greche senza nessuna aggiunta originale, ndr). For instance “On the Sayings o Socrates” may be culled entirely rom a Greek source or from several sources, with nothing of al-Kindī own added. But when we do know al-Kindī’s sources it is clear that he selects, manipulates, and combines them in surprising and philosophically interesting ways, as well as adding arguments of his own. A good example is On First Philosophy (di cui parleremo a breve, ndr) itself. (...)In reading al-Kindī we would do well to abandon the notion that philosophical innovation is precluded by close dependence on prior sources. Indeed, it is often in interpreting his sources or trying to 45 reconcile sources that al-Kindī’s creativity emerges. Per quanto riguarda i suoi scritti di filosofia naturale (Spiegazione del fatto che la natura della sfera celeste si distingue da quelle dei quattro elementi e Sulla causa della generazione e della corruzione) le sue teorie sono pedisseque a quelle esposte da Aristotele principalmente negli scritti Sul cielo e Sulla generazione e corruzione, per cui possiamo dire che in tema di filosofia naturale al-Kindī s’inserisca in un tracciato patentemente Aristotelico. Anche la sua visione del cosmo è profondamente influenzata da Aristotele e dal suo commentatore Alessandro d’Afrodisia. Per quanto riguarda i temi di etica e in secondo luogo di psicologia il modello di al-Kindī è tendenzialmente Platone, riletto in alcuni casi alla luce delle interpretazioni dei Neoplatonici. Per quanto riguarda ancora la scienza e la matematica, pare che gli Elementi di Euclide abbiano avuto grande influenza su al-Kindī, così come l’Ottica. Il campo filosofico in cui al-Kindī non prende univocamente da un filosofo o da una corrente è la metafisica. La sua opera di metafisica, conosciuta come Sulla Filosofia Prima, è la più completa e complessa sintesi dell’eterogeneità dei materiali da cui ha preso spunto tanto quanto dell’originalità dei suoi contributi. Questo trattato è composto di quattro parti. Nella prima parte al-Kindī definisce la missione del filosofo quale ricercatore di virtù attraverso la conoscenza del movimento, delle cause e dei fini delle cose, della forma e della materia. Da queste dichiarazioni d’intenti appare manifesto il retroterra filosofico Aristotelico, confermato peraltro dalle frequenti citazioni e riferimenti a passi della Metafisica dello Stagirita. Nella seconda parte la postura è differente: afferma che il mondo abbia una natura sia spaziale sia temporale finita. La prima delle due assunzioni è ancora collegabile ad Aristotele e al suo trattato Sul Cielo; la seconda affermazione sull’inizio e la fine del mondo nel tempo è difforme dalle dottrine Aristoteliche e sembra rifarsi alle teorie di Giovanni Filopono. 48
Nella terza parte la proposizione di al-Kindī è quella di dimostrare l’esistenza di Dio sulla base del ragionamento che parte dalla molteplicità degli oggetti sensibili per giungere all’esistenza dell’Uno da cui tutto proviene. La fonte di questa riflessione è ancora differente, si tratta del Neoplatonico Proclo. Nella quarta e ultima parte al-Kindī inizia descrivendo Dio secondo una teologia negativa imbevuta ancora una volta delle teorie di Proclo e conclude con una teorizzazione circa la creazione del mondo ex nihilo, in accordo con la corrente teologica musulmana in auge a quei tempi: la mu’tazila. Questo breve schema proposto espone come in campo metafisico al-Kindī abbia adottato alla bisogna diversi modelli e teoremi. Mentre abbiamo un quadro abbastanza chiaro delle fonti e delle influenze greche di al-Kindī , un elemento fino ad ora trascurato è il suo rapporto con la 46 mu῾tazila , che fu la dottrina ufficiale dell’Islam sunnita fino all’ascesa al regno di Mutawakkil. Al-Kindī non faceva parte del loro gruppo ma intratteneva con questo gruppo rapporti intellettuali e personali. L’obiettivo di questa tesi è analizzare, dopo averlo tradotto, la Epistola sulle definizioni e descrizioni delle cose di Al-Kindī. ___________________________ Al-Ğḥāiẓ, al-Bayān wa’t-tabyīn, ed. Hārūn, vol. I, 5° rist., [alQāhira: Dār Saḥnūn li’n-našr wa’t-tawzī, 1990], 328 2 Ibn an-Nadīm, Kitāb al-Fihrist, ed. Flügel, [Beyrut : Maktaba Khayyat, 1871-1872], 354 3 Dimitri Gutas, Pensiero Greco e Cultura Araba, ed. Cristina D’Ancona Costa e trad. di Cecilia Martini, [Torino : Einaudi, 2002]; edizione originale: Greek thought, arabic culture, [London : Routledge, 1998] 4 G. Strohmaier, Ḥunayn Ibn Isḥāq al-‘Ibādī, Encyclopédie de l’Islam (nouvelle édition), vol. III, [Leiden : E.J. Brill, 1990], 598-601 5 Henry Corbin, Storia della Filosofia Islamica, trad. di V. Calasso e R. Donatoni, [Milano : Adelphi, 2007], 32 6 Di alcuni testi da lui tradotti e sulle sue tecniche di traduzione ne dà egli stesso testimonianza nella Risāla ī ḍikr mā turğima min kutub Ğālīnūs bi-‘ilmihā wa ba’ḍ mā lam yutarğam edita e tradotta da G. Bergsträsser, Ḥunayn ibn Isḥāq über die syrischen und arabischen GalenÜbersetzungen, [Leipzig : F.A. Brockhaus, 1925] 7 Lucien Leclerc, Histoire de la médecine arabe, vol. 1, [Rabat : Ministère des habous et des affaires islamiques, 1980], 144 8 Mirella Cassarino, Traduzioni e Traduttori Arabi dall’VIII all’XI secolo, [Roma : Salerno, 1998], 16-17 9 Ibid., 18 10 Dimitri Gutas, Pensiero Greco e Cultura Araba, 11 11 Ulrich Rudolph, La filosofia Islamica, trad. di Carmela Baffioni, [Bologna : Il Mulino, 2006], 12-13 12 Carmela Baffioni, Storia della filosofia Islamica, [Milano: Mondadori, 1991], 21-22 13 Dimitri Gutas, Pensiero Greco e Cultura Araba, 168 14 Dimitri Gutas, Pensiero Greco e Cultura Araba, 178 15 Richard Walzer, Greek into Arabic: essays on Islamic Philosophy, [Oxford : B. Cassirer, 1962], 6 16 Per approfondire il ruolo dei Cristiani nel movimento di traduzione si rimanda a J.M. Fiey, Chrétiens syriaques sous les Abbassides, surtout à Bagdad (749 – 1259), [Louvain: Peeters, 1980] 17 Al-Ḫwārizmī , Ma ātīḥ al-‘ulūm, ed. da G. van Vloten, [Leiden : E.J. Brill , 1895], 131 18 Richard Walzer, Greek into Arabic: essays on Islamic Philosophy, [Oxford : B. Cassirer, 1962], 1 19 Carmela Baffioni, Storia della filosofia islamica, [Milano : Mondadori, 1991], 22-23
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G. Furlani, “La filosofia araba”, in Caratteri e modi della cultura araba, AA. VV [Roma: Reale Accademia d’Italia, 1943], 137 - 138 21 Richard Walzer, Greek into Arabic: essays on Islamic Philosophy, [London : B. Cassirer, 1962], 11 22 Le due opere principali su cui fondiamo le nostre conoscenze biografiche su al-Kindī sono: Ibn an-Nadīm, Kitāb al-Fihrist, ed. G. Flügel, [Beirut : Maktaba Ḥayyat, 1871-1872] e Ibn al-Qifṭī, Ta’rīḫ al-Ḥukamā', ed. J. Rippert, [Leipzig, 1903] 23 J. Jolivet – R. Rashed, Abū Yūsu Isḥāq al-Kindī, Encyclopédie de l’Islam (nouvelle édition), vol. V, [Leiden : E.J. Brill, 1986], 124-126 24 P. Adamson, al-Kindī, [London : Oxford University Press, 2006], 4 25 Tamar Frank, Al-Kindi’s Book o De initions: Its Place in Arabic Definition Literature [PhD diss., YALE University, 1975], pp. 2 - 3 26 F. Rosenthal, “al-Kindī and Ptolemy”, in Studi orientalistici in onore di Giorgio Levi Della Vida, [Roma, 1956], vol. II, pp. 455-456 27 I membri del circolo di al-Kindī e le opere da loro tradotte sono stati identificati da G. Endress sulla base delle somiglianze linguistiche. Si veda G. Endress, “The Circle of al-Kindī – Early Arabic Translations from the Greek and the rise of Islamic Philosophy”, in The Ancient Tradition in Christian and Islamic Hellenism, ed. da R. Kruk e G. Endress, [Leiden : Research School CNWS, 1997] 28 P. Adamson, al-Kindī, [London : Oxford University Press, 2006], 26 29 Vedi nota 23 30 P. Adamson, al-Kindī, 12 31 D. Gutas, Pensiero Greco e cultura Araba, 104 32 Ibn an-Nadīm, Kitāb al-Fihrist, ed. G. Flügel, [Beirut : Maktaba Ḥayyat, 1871-1872], p. 255 33 P. Adamson, al-Kindī, 7 34 Anche se T.J. De Boer e Philip Hitti hanno parere diametralmente opposto. Si vedano a tal proposito: T.J. De Boer, al-Kindī, Encyclopedia of Islam, vol. II, [Leiden : 1927], 1019 e Philip Hitti, History of the Arabs, 7° edizione, [ New York : 1960], 384 . Un saggio riguardante la possibilità che alKindī abbia o meno tradotto opere in prima persona è: M. Moosa, “al-Kindi’s role in the Transmission of the Greek Knowledge to the Arabs”, in Journal of the Pakistan Historical Society 15 (1), (1967): 3-18. 35 Non la pensa così Cristina D’Ancona Costa, seconda la quale un parte del cosiddetto Plotino Arabo è stata tradotta da al-Kindī in persona; quest’ipotesi è stata rigettata da Peter Adamson. A tal proposito di vedano D’Ancona Costa (2001) e Adamson (2002b). Pur non essendo questa informazione risolutiva nella disputa, possiamo constatare che Al-Kindī non ha mai scritto di conoscere almeno una lingua fra il greco e il siriaco. 36 P. Adamson, al-Kindī, 26 37 M. Moosa, “al-Kindi’s role in the Transmission of the Greek Knowledge to the Arabs”, in Journal of the Pakistan Historical Society 15 (1), (1967): 3-18, a pag. 4 38 Al-Kindī, Risālat ī ḥudūd al-ašyā’ wa rusūmihā, a cura di Tamar Frank, Al-Kindi’s Book of Definitions: Its Place in Arabic Definition Literature [PhD diss., YALE University, 1975], 73 39 Mirella Cassarino, Traduzioni e Traduttori Arabi dall’VIII all’XI secolo, [Roma : Salerno, 1998], 108-111 40 Richard Walzer, Greek into Arabic: essays on Islamic Philosophy, [Oxford : B. Cassirer, 1962], 15 41 La seconda delle due è l’ipotesi ritenuta più probabile da Peter Adamson. Si veda a tal proposito P. Adamson, al-Kindī, 40. F. Klein-Franke considera invece la Epistola sulle definizioni e descrizioni delle cose una testimone attendibile del pensiero di al-Kindī: cfr. F. Klein-Franke, “Al-Kindī’s On definitions and Descriptions of Things”, in Muséon, 95 (1982), pp. 191-216 42 Al-Fārābī, Kitāb al-ḥurū , ed. da Muḥsin Sayyid Mahdī [Bayrūt : Dār al-Mašriq, 1970], 158
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G. Endress, “The Circle of al-Kindī – Early Arabic Translations from the Greek and the rise of Islamic Philosophy”, in The Ancient Tradition in Christian and Islamic Hellenism, ed. da R. Kruk e G. Endress, [Leiden : Research School CNWS, 1997], 52 - 58 44 G. Endress, “The Circle of al-Kindī – Early Arabic Translations from the Greek and the rise of Islamic Philosophy”, in The Ancient Tradition in Christian and Islamic Hellenism, ed. da R. Kruk e G. Endress, [Leiden : Research School CNWS, 1997], 58-59 45 P. Adamson, al-Kindī, 29 46 Per comprendere meglio il rapporto fra filosofia e la Mu‘taliza si rimanda a: I. Zilio Grandi, Temi e figure dell’apologia musulmana (‘ilm al-kalām) in relazione al sorgere e allo sviluppo della “ alsa a”, in C. D’Ancona Costa, Storia della iloso ia nell’Islam Medievale (a cura di), [Torino : Einaudi, 2005] BIBLIOGRAFIA PRIMARIA Al-Aš‘arī, Maqālāt al-Islāmiyyīn, ed. H. Ritter, [Wiesbaden :1963] al-ʻAmirī, as-Saʻāda wa al-Isʻād, ed. M. Minovi, [Wiesbaden : 1957-58] Al-Fārābī, Kitāb al-ḥurū , ed. da Muḥsin Sayyid Mahdī [Bayrūt : Dār al-Mašriq, 1970] Al-Ğāḥiẓ, al-Bayān wa’t-tabyīn, ed. Hārūn, vol. I, 5° rist., [al-Qāhira : Dār Saḥnūn li’n-našr wa’t-tawzī, 1990] Al-Ḫayyāt, Kitāb al-intiṣār, ed. e trad. A. Nader, [Beirut : Les lettres orientales, 1957] Al-Ḫwārizmī , Ma ātīḥ al-‘ulūm, ed. G. van Vloten, [Leiden : Brill , 1895] Al-Kindī, Rasā’il al-Kindī al-falsafiyya, ed. M. A. Abū Rīda, [Cairo : 1955] Al-Kindī, Risāla ī ḥudūd al-ašyā’ wa-rusūmihā, ed. e trad. da Tamar Frank, Al-Kindi’s Book o De initions: Its Place in Arabic Definition Literature, [PhD diss., YALE University, 1975] Aristotele, Metafisica, ed. G. Giannantoni e trad. A. Russo, [Bari : Laterza, 1982] Ḥunayn Ibn Isḥāq, Risāla ī ḍikr mā turğima min kutub Ğālīnūs bi-‘ilmihā wa ba’ḍ mā lam yutarğam, ed. e trad. da G. Bergsträsser, Ḥunayn ibn Isḥāq über die syrischen und arabischen Galen-Übersetzungen, [Leipzig : F.A. Brockhaus, 1925] Ibn an-Nadīm, Kitāb al-Fihrist, ed. G. Flügel, [Beirut : Maktaba Ḥayyat, 1871-1872] Ibn al-Qifṭī, Ta’rīḫ al-Ḥukamā', ed. J. Rippert, [Leipzig, 1903] Manoscritto di Istanbul, Süleymaniye, Aya Sofia 4832, scoperto da H. Ritter e M. Plessner, Schri ten Ja‘qūb Ibn Isḥāq al-Kindīs in Stambuler Bibliotheken, in “Archiv Orientální”, 4 (1932), pp. 363 – 372. Successivamente edito da Muḥammad Abū Rīda negli anni 1950-1953. BIBLIOGRAFIA SECONDARIA R. Abelson, Definition, in Encyclopedia of Philosophy, ed. Paul Edwards [New York: Macmillan, 1967], vol. 2, 314–24 P. Adamson, “Before essence and existence: AlKindī’s conception of being”, in The Journal of the History of Philosophy, 40 [2002] 297 – 312 P. Adamson, “Al-Kindī and the Mu‘tazila: Divine attributes, Creation and Freedom”, in Arabic Sciences and Philosophy 13 [2003], 45-77 P. Adamson, “al-Kindī and the reception of Greek philosophy”, in The Cambridge companion to Arabic philosophy, edited by P. Adamson and R.C. Taylor, [Cambridge : Cambridge University Press, 2005] P. Adamson, al-Kindī, [London : Oxford University Press, 2006]
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1) Continua Bhagyashree Balestrieri (1992) —Treviso/ Bangalore (India)
La valenza dell’amore in alcune opere di Harivansh Rai Bachchan (1907 – 2003)
Introduzione Il titolo di questo elaborato, La valenza dell’amore in alcune poesie di Harivansh Rai Bachchan (1907-2003), ha lo scopo di spiegare quanto scrive l’autore e di introdurre l’argomento di tesi, soffermandosi sull’idea del “vero amore”, secondo Harivansh Rai ‘Bachchan’, scrittore e poeta vissuto in India nel 1900. Ho deciso di considerare questo tema in quanto, dopo aver letto alcuni scritti di Bachchan e di altri autori appartenenti alla stessa corrente letteraria, ho riscontrato una notevole differenza di pensiero tra questi ultimi e i poeti della tradizione classica che mi ha portato a voler approfondire il tema dell’amore nella poesia indiana. L’obiettivo è di osservare in quali modi esso può essere interpretato. Si è soliti pensare, infatti, all’amore solo come l’espressione di un sentimento che nasce tra due persone, convenzionalmente identificato nel solo contesto di coppia. Sicuramente può essere inteso nel suo senso più ampio, riferendosi al sentimento verso famiglia, amici e spesso anche “sconosciuti” e lo si può percepire in ogni forma, anche attraverso un semplice sguardo o un sorriso. Inoltre, grazie ad alcune mie esperienze ho capito quanto questo sentimento, che può sembrare banale e scontato, si riveli in realtà fondamentale nella vita di ognuno di noi. E’ interessante notare come l’amore che descrivono nel 1900 gli autori in India, sia molto vicino a ciò che ritroviamo oggi in Occidente. Intendo analizzare ed interpretare alcune opere di Harivansh Rai Śrivāstav “Bachchan”, in cui spicca questo tema, cercando di comprendere la sua visione di amore ideale e confrontarla con la mia. Con la tesi andrò a dimostrare non solo come la differenza d’età, ma anche la differenza di contesto storico – sociale, possa condizionare il pensiero e di conseguenza anche il comportamento in tema amoroso. Questo elaborato è diviso in due parti: il poeta – la poesia.
Nella prima parte si ha la prefazione in lingua hindī, l’ introduzione, un quadro generale del contesto storico – letterario e socio – linguistico dell’India del ventesimo secolo ed infine la presentazione della vita e della carriera poetica di Bachchan. Nella seconda parte presento un esame sull’idea di amore nella poesia moderna indiana, portando ad esempio alcune opere del poeta. In questa tesi di laurea partirò trattando il contesto storico della letteratura, concentrandomi in particolar modo sull’evoluzione del movimento poetico e rivoluzionario nato nell’epoca moderna in India, anche grazie all’influenza del Mahātmā Gandhī, il Chhāyāvād; con questo termine si fa riferimento al periodo del romanticismo indiano. Confronterò il tema trattato nei tre principali periodi della letteratura indiana: bhakti kāl (periodo della letteratura devozionale), rīti kāl (periodo della letteratura manierista), chhāyāvād kāl (il romanticismo hindī). Tratterò dell’amore in questo contesto, portando alcuni esempi di poesie dei quattro principali autori della nuova corrente letteraria, quali, Sūryakānt Tripāthī ‘Nirālā’ (1896 – 1961) e Sumitrānand Pant (1900 – 1977), Mahādevī Varmā (1907 – 1987) e Jaiśankar Prasād (1889 – 1937). Mi soffermerò sulla figura di Bachchan come uomo, scrittore, poeta, esponendo le sue opere principali. Arriverò poi al tema centrale della tesi: la traduzione, l’analisi e il commento personale di tre delle sue poesie: Ādarś prem (L’amore ideale), Agnipath (Il sentiero del fuoco) e Jo bīt ga’ī so bāt ga’ī (Ciò che è passato, è andato). Concluderò, infine, con il mio pensiero. 1.1 Il Chhāyāvād Il mondo sud asiatico è caratterizzato da una grande varietà linguistica e tre delle sue lingue vengono definite come le principali lingue culturali del territorio: il 1 sanscrito, lingua maggiore tra quelle indo–arie , il persiano e, dal diciottesimo secolo, l’inglese. A queste possono essere aggiunte altre lingue locali, come ad esempio apabhramśa e pracrito, hindī, gujaratī, urdū e 2 tamil. E’ importante sottolineare che le lingue popolari parlate, non corrispondo alle tre principali, bensì alle altre, definite lingue vernacolari, le quali hanno portato alla formazione di diversi stati autonomi su basi linguistiche. La lingua ufficiale del subcontinente indiano, è oggi la hindī, accompagnata dalla lingua inglese; ciononostante, nelle diverse regioni continuano ad essere parlate le forme dialettali e non tutti hanno la conoscenza della lingua ufficiale. La parola hindī proviene dalla parola “Hind”, usata in persiano per identificare il territorio indiano, mentre la sua variante linguistica hindavī deriva dal vocabolo “hindū”, anch’esso derivante da Hind; questo aggettivo viene utilizzato inizialmente con la sola connotazione religiosa, per distinguere il popolo indiano rispetto a quello musulmano. I suddetti termini sono derivati dalla parola sanscrita sindhu, con il significato di “fiume”, di tale rilevanza che in seguito uno dei più importanti fiumi del territorio prenderà questo nome, dando poi il nome anche alla regione Sindh, che bagna con le sue acque, una delle quattro province del Pakistan. Bisogna considerare che, gli indiani comunque non chiamano, né hanno mai chiamato “India” il loro Paese. Infatti, il
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nome tradizionale in hindī è Bhārat, dal nome Bhārata, imperatore dell’India e progenitore della stirpe dei Bhāratidi, ovvero gli indiani. Nel contesto letterario, la lingua più usata è quella sanscrita; nonostante tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo il suo utilizzo sia diminuito, perché sostituito dalle altre varietà linguistiche, ancora oggi la si ritrova in molti testi e questo denota la sua importanza come lingua letteraria e ci fa capire che l’intera storia letteraria dell’India si basa su quella della 3 letteratura sanscrita. Tutti i testi appartenenti alla letteratura hindī erano scritti in braj bhāşa, avadhī e altre lingue regionali; dal diciannovesimo secolo, anche grazie ai poeti chhāyāvādi, si sviluppa un’unica lingua letteraria, la 4 khaŗi boli hindī. Inizialmente questa lingua viene usata solo per la prosa mentre per quanto riguarda la poesia gli autori scrivono ancora in braj bhāşa. Questo avviene perché la khaŗi boli hindī non è considerata un buon strumento per scrivere poesia. Dal 1914, invece viene standardizzata e diventa ufficialmente la lingua per eccellenza sia della prosa sia della poesia nella letteratura indiana. Grazie all’utilizzo che alcuni poeti degni di nota, fanno della lingua per le loro poesie, la khaŗi boli hindī diventa il mezzo ufficiale della poesia 5 hindī. Il termine Chhāyāvād deriva dal nome chhāyā (“ombra”) con il significato di scuola delle ombre; viene anche definito Rahāsyāvād, che denota il misticismo, e Svacchandtāvād, ovvero la liberazione dalle regole. Tre termini che indicano la nuova corrente letteraria dell’epoca e i poeti appartenenti a questo movimento vengono considerati rivoluzionari perché fanno una ricerca interiore del proprio “Io” e si ribellano agli stili e alle tradizioni di scrittura classiche, distaccandosi così 6 dai temi e dalle tecniche tradizionali. Il Chhāyāvād nasce nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, denota il romanticismo indiano, dura circa vent’anni (1918 – 1940). Dopo l’ammutinamento (Indian Mutiny), avvenuto nel 1857 nei pressi di Delhi, in India si hanno una serie di insurrezioni da parte degli inglesi. Questo porta alla nascita di un nazionalismo indiano, intenzionato a riacquistare la propria identità e indipendenza dal popolo colonizzatore; quindi, viene creato il Partito del Congresso, che si riunisce per la 7 prima volta a Bombay nel 1885. Il Partito del Congresso è visto come lo strumento di unione tra hindū e musulmani nella lotta contro il dominio britannico, e vuole rappresentare la rivalsa indiana. I principali membri di questo partito sono: Allan Octavian Hume, fondatore del partito, Dadabhai Naoroji, capo politico dell’associazione nazionale indiana, Motilal Nehru e Mohandas Karamchand Gandhī. Dai primi decenni del 1900 il capo del partito è Gandhī, il quale applica la sua politica di lotta non violenta, satyāgraha, con lo scopo di ottenere l’indipendenza (svarāj) dell’India dal dominio britannico. Egli è stato una figura molto influente anche per la letteratura del tempo, infatti molti letterati come Sumitrānand Pant, Mahādevī Varmā, Harivansh Rai Bachchan, e Rabīndranāth Tagore, sono entrati a stretto contatto con lui rimanendone colpiti; Tagore, il più famoso poeta indiano dell’epoca, gli dà il soprannome di Mahātmā con il significato di “Grande Anima”; Bachchan e Pant gli dedicano delle raccolte di 52
poesie in occasione della sua morte, avvenuta nel 1948. Il Mahātmā parla di temi sociali, politici ma anche di emozioni, sentimenti, natura, amore. L’amore di cui parla Gandhī proiettato nel divino, è rivolto alla natura, alla gente, alla società ed alla patria. Questi sono anche i temi caratteristici della poesia 8 chhāyāvādi. Gli iniziatori di questa nuova tendenza poetica sono Suryakānt Tripāthī Nirālā e Sumitrānand Pant. Nirālā nasce nel 1891 in Bengala, anche se originario di Unnao, nell’Uttar Pradeś. Proveniente da una 9 famiglia brahmana , egli è un famoso poeta hindī del periodo moderno, oltre ad essere il pioniere del movimento del romanticismo indiano, è un importante autore del gruppo Hindī Kavi Sammelan. Anche se studia fin da giovane la lingua bengalī, è subito affascinato dalla lingua sanscrita e successivamente imparerà le lingue hindī e inglese. Parimal e Anāmikā sono le opere più importanti del suo contributo alla letteratura del Chhāyāvād. Il suo stile è rivoluzionario per l’epoca, e nelle sue poesie tratta temi politici, sociali e religiosi; introduce i versi sciolti e l’opinione personale, il senso estetico e l’amore per la natura, tutti temi che saranno basilari nel nascente movimento. Nirālā muore nel 1961 a Allahabad. 10 Pant nasce nel 1900 in Uttarakhand ed è uno dei più famosi autori del periodo moderno indiano. E’ uno dei principali esponenti del Chhāyāvād e scrive tutte le sue poesie in hindī sanscritizzata con temi filosofici, politici e sociali. Nel corso della sua vita ha ricevuto molti premi, tra cui Jnanpith Award e Sahitya Kalā Academy per il suo contributo alla letteratura. Chidambara è il titolo della raccolta delle sue poesie più conosciute, e Pallava è la più famosa collezione di opere liriche. Pant muore nel 1977 in Andhra Pradesh. Altri autori degni di nota di questo gruppo sono: Mahādevī Varmā, la quale incentra il ruolo della donna all’interno del contesto del romanticismo; Jaiśankar Prasad, il quale tratta per lo più di arte e filosofia e nei suoi scritti utilizza solo elementi derivanti dal sanscrito; Harivansh Rai ‘Bachchan’, il quale oltre alla sua opera maggiore, Madhuśālā, scrive molte opere chhāyāvādi nelle quali unisce la tradizione sanscrita a quella arabo – persiana. Nonostante questi letterati scrivano opere in poesia e prosa, la maggior parte di loro scrive a proposito del misticismo e della ricerca interiore dell’individuo esprimendoli soprattutto attraverso le liriche. Questa nuova forma letteraria è una rivolta contro la struttura tradizionale e la società; è un movimento estetico e soggettivo, con nuovi stili e temi rinnovati, quali, l’estetica, la bellezza, la gioia, l’amore per la natura, il dolore dell’amore, “ l’ubriachezza ” delle emozioni ( o del vino ), l’individualismo e spesso la 11 critica sociale espressa in forma poetica . Proprio per questo motivo, i poeti chhāyāvādi non sono curanti della sofferenza del genere umano, inteso come la massa comune sotto la tirannia e le oppressioni, ma prestano più attenzione al singolo nella società. Oltre al contenuto, l’innovazione principale consiste nell’uso di un nuovo stile tecnico, una libertà di scrittura, di linguaggio e soprattutto, l’utilizzo della lingua khaŗī boli 12 hindī per la poesia in versi. All’interno di questo genere letterario, troviamo un sotto genere chiamato gīti-kāvya, letteralmente “Poesia per essere cantata”, definito come lirica che però
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corrisponde alle canzoni indiane, le quali vengono suddivise in due parti: Sthāyī e Antarā. Sthāyī è una frase o un piccolo verso all’interno di una singola stanza e un testo che contiene la sthāyī dev’essere molto significativo poiché questa frase viene ripetuta più volte per tutta l’opera. Antarā è una coppia di versi in rima (distico) e sviluppa la parte di sthāyī, mantenendo però lo stesso ritmo. Nella poesia il numero di antarā non è superiore a quattro. Queste canzoni sono scritte in braj bhāşā e successivamente diventano dominio di alcuni poeti chhāyāvādi, come ad esempio, Nirālā e lo stesso Bachchan. I temi di questo genere poetico sono l’amore, il patriottismo, il sentimento e la devozione religiosa. Non esiste una vera e propria evoluzione della poesia musicale, le uniche innovazioni si hanno in una libertà con gli elementi melodici e nella scelta di parole che possono distruggere il carattere dell’intera composizione. Questa nuova forma verrà poi chiamata 13 Navagīt, con il significato di “Canzone nuova”. L’ultima opera del Chhāyāvād, pubblicata nel 1936 è Kāmāyanī, considerata la poesia più importante di Jaiśankar Prasad, dove il tema principale è il viaggio cosmico dal quale l’essere umano è lasciato all’intuizione visionaria. In questo contesto nasce una nuova poesia composta da simboli, immagini e forme pittoriche con le quali i poeti rappresentano la loro esperienza; questa forma è espressione di una nuova consapevolezza. Il poeta diventa quindi un solitario e tratta la situazione dell’individuo all’interno della 14 società. Questi sono i temi e le caratteristiche tipici del romanticismo inglese, quindi esiste l’ipotesi che la letteratura indiana del ventesimo secolo prenda spunto, o sia influenzata pesantemente, dalla letteratura inglese del diciannovesimo secolo. Questo lo si può riscontrare 15 soprattutto nelle opere di Pant. Bisogna però ricordare che tutti i poeti sopracitati sono influenzati dalle opere del poeta più conosciuto del ventesimo secolo, Rabīndranāth Tagore. Tagore nasce a Calcutta nel 1861 da una famiglia in cui erano già noti il nonno paterno e il padre: il nonno, Dwārkanāth Tagore, è un noto componente del 16 17 Brahmo–Samāj , fondato da Ram Mohan Roy ; mentre il padre, Devendranāth Tagore è il fondatore di Śāntiniketan, cioè āśram, termine che deriva dalla parola sanscrita āśray che significa protezione. Lo si può tradurre con il termine monastero, anche se in questo caso si tratta di un centro sociale polivalente nel quale ci si dedica alla meditazione, alla letteratura, facendo anche attivismo politico. Questo centro viene creato nel 1863, nelle vicinanze di Calcutta. Nel 1901 Rabīndranāth Tagore vi crea una scuola chiamata Viśva Bāhārāti (" La voce universale "), la quale è basata sull’antico sistema dell’educazione indiana, diventando nel 1922, un’università conosciuta per il suo impegno all’avvicinamento tra occidente e oriente. Dal 1877, egli vive in Inghilterra potendo così migliorare i propri studi e imparare la lingua inglese. Rabīndranāth Tagore è un poeta, drammaturgo, musicista, pittore e filosofo indiano ed è considerato una delle figure più notevoli dell’epoca moderna. Le sue opere principali sono: Gītāñjali (Offerta di canti) e Śiśu (Il bambino), due importanti raccolte liriche che l’autore stesso traduce in inglese, con i rispettivi titoli Song Offerings e The Crescent Moon. Compone in musica altre sue liriche, tra cui Jana Gana Mana, composto nel
1912 e tradotto come “Tu sei il dominatore delle menti di tutti”, che diventerà poi, l’inno nazionale indiano. Nel 1913 riceve il premio Nobel per la letteratura, grazie a Gītāñjali. Questa lirica non era la prima opera del poeta ma è stata la più influente per suoi i contemporanei e successori. La sua poesia è rivoluzionaria perché caratterizzata da un’impronta devozionale, sentimenti e emozioni d’amore, compassione e dolore e associato all’autore nasce il termine Rahasyāvād, con il significato di ‘misticismo’. Tutti i poeti che seguono lo stile di Tagore, vengono definiti rahasyāvādī kavi e successivamente saranno 18 conosciuti con il nome di chhāyāvādi kavi. Con il Chhāyāvād, nasce una nuova concezione di sé stessi, e dell’individuo rispetto alla società. Il poeti romantici danno molta più importanza all’essere umano, inteso come individuo rispetto alla tradizione poetica; con questa nuova idea, nasce anche un nuovo tipo di poesia d’amore. Questa nuova poesia si basa sul sentimento che c’è tra l’uomo e la donna, due anime che condividono un amore che li fa crescere. Il concetto dell’amore nella poesia moderna è cambiato rispetto alla poesia Ritī, nella quale gli amanti erano identificati come “eroe” ed “eroina”, e anche 19 rispetto alla poesia bhakti dove Kŗşņa era definito come amante, capo o signore. I poeti chhāyāvādi, identificano l’uomo come il solo amante e la donna come l’oggetto desiderato ma anche come l’amica con la quale condividere un sentimento e un’intimità profonda. Quello che i poeti rappresentano è un amore interiore, che va al di là della società e spesso, nelle poesie non viene nemmeno considerato il rango sociale; mentre quando viene espresso, viene visto come un ostacolo o una minaccia per la relazione. Un esempio di ciò, lo troviamo nell’opera di Nirālā, Preyasī (L’amato) nel quale una donna si innamora di un uomo di casta inferiore e sfida la società per il suo amore: Siamo diversi nel colore, nella casta, nell’apparenza, nella religione, ma siamo uguali nel cuore e nell’anima Qui, l’amore diventa un sentimento emozionale, mentre prima esso era visto come la passione sessuale. Non sempre gli autori indirizzano le loro poesie verso una donna, ma spesso verso l’idea e l’immagine che hanno della donna stessa. Non si tratta quindi, di descrivere aspetti e caratteri specifici esterni della persona, come accadeva in precedenza, bensì di esprimere e manifestare le qualità dello spirito. Nonostante l’erotismo sia un tema secondario per questi scrittori, l’eros è qualcosa che esiste nell’universo, infuso nella vita ed è motivo di relazione tra uomo e donna che devono partecipare a questo “gioco erotico”. Questo viene descritto in poesie quali, Anang (Il Dio dell’amore) di Pant, e Prem ke prati (Per amore) di Nirālā. Dalle prime tradizioni fino all’epoca moderna si ha un’evoluzione del concetto di amore: nella Bhakti, l’amore era un qualcosa di astratto e metafisico; nel Ritī, diventa un desiderio concreto, un gioco e un divertimento; mentre nel Chhāyāvād esso non è semplice unione tra gli amanti, ma è la crescita personale di un individuo attraverso il sentimento dell’amore. E’ proprio per questo motivo che, nelle poesie di Jaiśankar Prasad o Mahādevī Varmā, i quali 53
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trattano di amori perduti e sofferenze, il dolore per la separazione si tramuta in forza, compassione e alla fine in una profonda gioia. Un altro tema tipico della poesia del Chhāyāvād è quello della natura. La natura è vista come uno stato dell’essere umano, e quindi può essere ricollegato allo stato erotico; i poeti tendono, ad “umanizzare” anche gli stessi elementi della natura: il cielo, le nuvole, la pioggia, le montagne e così via. Infatti, la caratteristica principale di questo nuovo stile, è la proiezione delle emozioni e delle azioni degli amanti nei diversi aspetti della natura. Un esempio, lo possiamo trovare nella poesia Lāye kaun sandeś naye ghan? (Quali notizie portano le nuvole cariche di pioggia?) di Mahādevī Varmā: Il cielo orgoglioso si inchina; le lacrime del monsone crescono nell’eterno silenzio del cuore. La fiacca notte inizia dal suo sonno; i bracciali del fulmine mostrano sul suo nero polso tremante. Il rapporto tra la natura e l’essere umano non è espresso solo attraverso la proiezione degli amanti sui fenomeni naturali, ma anche nella grandezza della natura descritta dai poeti attraverso montagne ed oceani. Inoltre, vengono rappresentati scenari non solo nuovi rispetto a quelli della letteratura medievale, ma anche drammatici. Nel primo canto di Kāmāyanī, Prasad descrive l’inondazione che distrugge la civiltà degli dei: Le onde dell’oceano, attorcigliate come il cappio della morte, urlando e avanzando come serpenti con la testa 20 alzata, sputando schiuma. Il tema dell’amore ha un cambiamento graduale dal periodo medievale al tempo presente, passando dall’essere astratto, all’essere fisico e di tipo erotico e passionale, per poi diventare una proiezione e personificazione della natura e del divino. L’amore quindi, per i poeti dell’epoca moderna indiana, è descritto come un’immagine, un’idea della relazione tra due amanti proiettata anche nei fenomeni naturali, senza però dimenticare che a base di tutto c’è una forza, l’eros. _______________________________ 1
Nel subcontinente indiano esistono diverse famiglie linguistiche, tra cui la famiglia delle lingue indo – europee, alla quale appartiene la famiglia indo – iranica che a sua volta si divide in due gruppi: Iranico e indo–ario. Alcune delle lingue indo – arie moderne, attestate oggi sono: sindhī, urdū, bengalī, hindī, gujaratī e pañjābī. 2 Sheldon Pollock, “Introduction”, in Sh. Pollock Literary Cultures in History. Reconstructions from South Asia, Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press, 2003, p. 23. 3 Pisani, Vittore: “Le letterature dell’India; con un profilo della letteratura del Tibet di Giuseppe Tucci”, Firenze: Sansoni Editore; Milano: Accademia, 1970, pp. 11 – 12. 4 AA. VV. : “Contemporary Indian Literature”, New Delhi; Sahitya Akademi 1968, pp. 84 – 85. 5 King, Christopher: “One language, two scripts: the Hindi movement in nineteenth century North India”, Oxford University Press, 1994, p. 36.
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Jindal, K. B. : “ A History of Hindi Literature”, Munshiram Manoharlal Publishers, 1993, pp. 291 – 299. 7 E’ nota con questo nome fino al 1995, quando il governo del Māhārāśtra approva la denominazione da “Bombay” a “Mumbai”. Bombay è il nome tradizionale che adottano i portoghesi al loro arrivo in India, ma successivamente, con l’arrivo degli inglesi la pronuncia cambia e così anche lo stesso nome. Mumbai è oggi la capitale dello Stato del Māhārāśtra ed è la città più popolosa dell’India. 8 Datta, Amaresh: “Encyclopaedia of Indian Literature (Vol. II : devraj – jyoti)”, New Delhi: Sahitya akademi, 2009, p. 1353. 9 Con il termine bramano si denota in origine il sacerdote che faceva sacrifici vedici, poi il sacerdote per eccellenza, colui che conosce e insegna la dottrina ed infine, con l’introduzione del sistema castale, è diventato il nome per definire gli appartenenti alla casta sacerdotale, considerata oggi in India, la più importante nel sistema indiano. 10 Uttarkhand è uno stato federato dell’India settentrionale. 11 Gaeffke, P. : “Hindi literature in the twentieth century (in 'A History of Indian Literature Series, Vol. VIII)”, Wiesbaden: Otto Harassowitz, 1978, pp. 34 - 83. 12 AA. VV. : “Contemporary Indian Literature”, New Delhi: Sahitya Akademi 1968, pp. 85 - 86. 13 Gaeffke, P. : “Hindi literature in the twentieth century (in 'A History of Indian Literature Series, Vol. VIII)”, Wiesbaden: Otto Harassowitz, 1978, pp. 84 – 85. 14 AA.VV. : “Modernity and contemporary Indian Literature (Vol. V)”, Lucknow: Indian Institute of Advanced Study, 1968, pp. 151 – 153. 15 Gaeffke, P. : “Hindi literature in the twentieth century (in 'A History of Indian Literature Series, Vol. VIII)”, Wiesbaden: Otto Harassowitz, 1978, pp. 29 - 31. 16 Brāhma Samāj è un movimento religioso che si afferma soprattutto nel Bengala a metà del 1800, che inizialmente si discosta dal mondo indiano, perché predica una religiosità cristiana, ma in seguito alla morte del fondatore, saranno i nuovi capostipiti a dare un’impronta più “indiana” al movimento. 17 Ram Mohan Roy proviene da una famiglia brahmana, quindi conosce l’arabo, il persiano, il sanscrito e l’inglese. Egli è considerato l’ indiano moderno, poiché è il pioniere dell’educazione inglese: attacca il sistema castale, la pratica del sati (sacrificio della vedova), e tutte le altre ingiustizie sociali, tra cui la disuguaglianza della donna rispetto all’uomo e il matrimonio tra bambini. Nel 1829 fonda a Calcutta un organismo che sarà poi conosciuto come Brāhma Samāj. 18 Schomer K. :“Mahadevi Varma and the Chhayavad age of modern hindi poetry”, University of California Press, London, 1983, pp. 23 – 24. 19 Bhakti kāl e ritī kāl sono due generi letterari della storia dell’India. Il periodo medievale ( 1375 – 1700) è influenzato dalla nascita di un movimento letterario, Bhakti, che significa “condivisione”. Si tratta di una letteratura improntata sulla devozione religiosa e caratterizzata da lunghi poemi epici. Due autori importanti nella storia della letteratura indiana che seguono questa corrente, sono: Goswami Tulsidas (1497/1532 – 1623), autore di Rāmacharitamanas e Surdas (1478 – 1581/1584), autore di Sur Sagar. Il periodo che va tra il 1700 e il 1900 viene definito Riti-kavya kāl e si concentra sull’elemento erotico, mandando in secondo piano i temi tipi del periodo precedente. 20 Schomer K. :“Mahadevi Varma and the Chhayavad age of modern hindi poetry”, University of California Press, London, 1983, pp.31 – 48. Bibliografia -AA. VV. : Contemporary Indian Literature, New Delhi: Sahitya Akademi 1968. -AA. VV. : Modernity and contemporary Indian Literature (Vol. V), Lucknow: Indian Institute of Advanced Study, 1968.
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IL DOVERE MORALE DELL’INTELLE(A)TTUALE NEON-AVANGUARDISTA DI «GUASTARE» I GIOVANI
L’orizzonte culturale del «giovane» italiano è caratterizzato dall’anti-valore della «chiacchiera», come estrema forma mass-mediatica, dal bofonchiato allo scritto (c.d. «scrivere pur di scrivere»), di degradazione del linguaggio alla dimensione della quotidianità media: in un orizzonte dove – come sostiene brillantemente Luigi Lombardi Vallauri- ogni rivoluzione smette d’aver
ragione di esistere, mandati in cassa integrazione i residui anacronistici del marxianesimo o dei marxismi da un super-capitalismo oramai nomadizzato, due strade restano ai c.d. «giovani», categoria sociologica molto borgesiana: a] rivolta (non scevra dalla retorica del conformismo dell’anti-conformismo: idioti che si muovono come asini in branco, coperti da una kefiah nera e con in mano una bottiglia molotov) o b] conformismo (idioti che si muovono come asini in branco, rassicurati dal «[…] marchio della marca, // condannata ogni diversità // allo spettro della forca […]». Nell’antistato di diritto collodiano il «branco d’asini», forza assoluta d’un Italia Paese dei Balocchi, è simbolo dell’identità tra anti-conformismo (Lucignolo) e conformismo (Pinocchio), della infattibilità di qualsiasi diversificazione tra rivolta e conformismo, essendo l’anti-conformismo un conformismo in rivolta. Come uscire dalla disastrosa impasse? L’intelle(a)ttuale tardomoderno, neon-avanguardista, configuratosi sul modello dell’ironiste derridaiano, è ancora in grado di trovare un senso nell’educazione dei «giovani»? L’«educazione» classica, etimologicamente vista come un e / ducere (in tempi di totalitarismo del politically correct, ogni riferimento a un duce rischia di essere deleterio all’energia argomentativa del discorso), come un «[…] condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura […]», come, nella concezione organica dell’intellettuale di Gramsci, condurre il «branco d’asini» lontano dal Paese dei Balocchi, è ancora idonea a render felice i «giovani» balotellizzati o belenizzati? Mah! Questo genere di intellettuale classico, tradizionale, si attirerebbe bestemmie, minacce e denunce di moltissimi genitori della mia età, immersi, sempre di più, nel ruolo di agenti scroungers o di ributtanti maîtresses di «giovani». Prima di educare, un intelle(a)ttuale tardomoderno, neon-avanguardista, configuratosi sul modello dell’ironiste derridaiano, dovrebbe dys-educare, cioè opporsi maieuticamente, con l’auto-ironia d’un Socrate, ad ogni forma di e / ducere: creare dis-trofie (alterazioni del «giusto» nutrimento intellettuale) contro ogni tipo di mass-media, dis-topie (alterazioni della «giusta» desiderabilità sociale) contro ogni forma di consumismo, dis-crasie (alterazione delle «giuste» mescolanze di ingredienti) contro ogni strategia dell’“accontentarsi” o dis-fasie (alterazione del «giusto» ordine delle frasi) contro ogni formalismo artistico, etc… L’ironia, come mezzo di ribaltamento, di rimorfologizzazione costante (dall’asino all’uomo e dall’uomo all’asino in asino umanitario), assume ruolo centrale nella dis-educazione del «giovane», sfuriando da una fase destruens in cui svuoti e/o abbatta ogni struttura di senso, e arrivando a costruire sensi sempre nuovi e rivivificanti; antimetabolitica e antimetabolica, l’ironia, a cavallo del paradosso (parà-doxa), lontana dal conformismo e dall’anti-conformismo, dalla concordia ordinum e dalla rivolta, è, insieme, arma del dis-formismo, cioè – come mera ironia- dell’attitudine a cagionare alterazioni morfologiche cronicizzate, e strumento dell’auto-dis-morfismo, cioè – come autoironia- della comunicazione di un’attitudine a cagionarsi alterazioni morfologiche cronicizzate. Tra conformismi e anti-conformismi, tra cum o anti, tra la dialettica «con me o contro di me», c’è una terza via: 55
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l’auto-scontro del dis-morfismo. L’«ironista» - come sostiene Rorty- è colui che, dominando vocabolari diversi ha «[…] dubbi radicali e continui […]» su ogni vocabolario, incluso il suo, senza mai esigere che il suo sia un vocabolario definitivo. Che dis-messaggio lanciare ai «giovani», allora? 1] Siate dis-morfici, sempre disponibili ad alterazioni di stato (solido / fluido / gassoso), contro l’abituale dis-formismo dei nuovi modelli capitalistici e di «dominanza» (neonavanguardia); 2] siate ironici e, insieme, auto-ironici (maieutica); 3] siate dubbiosi: non lasciatevi educare e lasciatevi andare ad una costante dis-educazione (disformismo); 4] andè a dar via i ciapp, con serenità, com’è andata a fare in culo l’intera nostra generazione di trentenni e quarantenni (calembour). Contro l’orizzonte esistenziale di «chiacchiera» dei massmedia: neon-avanguardia, maieutica, dis-formismo e calembour, senza dimenticare, «giovani» miei, miei amatissimi «giovani» che il mio cuore è con voi branchi di somari con somatiche branchie-. è con voi il mio cuore quando taglio il filo spinato delle trincee nemiche, coltello tra i denti, bombe a mano nel tascapane, con la speranza che, almeno voi, all’assalto della baionetta, non rimaniate ammazzati. «Giovani»! Ma andè a dar via i ciapp! MEMORIA, «NECESSITÀ AUTOBIOGRAFICA» ED AMERICAN DREAM. H. C. BUKOWSKI La concezione unitaria bukowskiana del binomio arte/ vita attribuisce ruolo sovrano alla memoria, nella dimensione di conservazione e stocking dei contenuti informativi dell’avventura artistica individuale; oltre ad essere trait d’union tra vita ed arte, avere memoria, nei suoi tratti di conservazione dell’identità e rimozione del dolore, è determinante artificio di resistenza ai mezzi di controllo e dominanza della moderna società americana. «Necessità autobiografica» - come nei beats- è massimo scudo contro i resets valoriali della cultura istituzionale (cultura di massa), rivolti alla cancellazione dei contenuti informativi dell’avventura artistica individuale e alla sostituzione, ad essi, di valori e ideali dell’american dream. Per Bukowski – nel suo slancio verso una decisa «necessità autobiografica» memoria è sommo mezzo di resistenza e ricordare, insieme ad osservare e raccontare, è massima funzione della scrittura; in una lettera del 1965 all’amico D. Blazek, il nostro autore asserisce «[...] non credere che non mi ricordo di essere stato giovane – i bar, le risse, i vicoli, tutto- il rifiuto del matrimonio, del lavoro, del mio paese, della cultura, della letteratura, di ogni cosa […]», riconoscendo i due concetti di memoria e ricordo come trait d’union tra vita, arte e resistenza. La memoria bukowskiana è dimensione chiave dell’artistico, e consta di due tratti, essendo strumento di a] conservazione dell’identità e b] rimozione del dolore. Prima di tutto memoria è medium di conservazione dell’identità, davanti alla tendenza di ciascun «authority» a sostituirsi all’ambito della decisione individuale; tutela d’un io vincolato alle alienanti abitudini sociali dell’americano medio e schiacciato dalle tensioni stressanti della vita moderna è missione della memoria/scrittura bukowskiana, in costante ricerca della salvezza individuale dell’artista. Per Bukowski «to write» - inchiodando memorie sulla 56
carta- è resistere alla banalità e alla routine della vita ordinaria, nella coscienza che «my former life as a bibliophile», aiutandolo a «laugh at the impossibilities», sia riuscita a «gave me a space, a pause»; «to write» è rimedio artistico universale all’insensatezza delle esistenze umane. Nella lettera a J.W. Corrington del 17 Gennaio 1961, il nostro autore abbozza un «mental experiment» sulla valenza suturante della memoria/scrittura: «[…] Ma c’era un gioco che facevo tra me e me, un gioco chiamato Isola Deserta: mentre ero sbracato su una panca in galera, o a una lezione di storia dell’arte, o mentre mi dirigevo verso lo sportello delle puntate da 10 dollari all’ippodromo, mi chiedevo: Bukowski, se tu fossi solo su un’isola deserta, e nessuno ti potesse più trovare, tranne gli uccelli e i vermi, prenderesti un bastone per scribacchiare parole sulla sabbia? Non potevo che rispondermi “no”, e per un po’ questo risolveva un sacco di problemi, mi permetteva di mettermi a fare un sacco di cose che non volevo fare, mi teneva lontano dalla macchina da scrivere e mi faceva finire nel reparto dei barboni all’ospedale della contea, col sangue che mi sboccava dalle orecchie, dalla bocca e dal culo, e quelli aspettavano che morissi, ma non succedeva mai. E ogni volta che uscivo mi domandavo di nuovo: Bukowski, se fossi solo su un’isola deserta ecc.; e sa, credo che fosse perché al cervello mi arrivava meno sangue, o qualcosa del genere, ma dicevo sì, sì, lo farei, prenderei un bastone e scriverei sulla sabbia. Be’, questo risolveva un sacco di problemi, perché mi permetteva di mettermi a fare certe cose, tutte le cose che non volevo fare, senza neanche lasciar perdere la macchina da scrivere […]»; sono messe in chiaro idea di irrinunciabilità alla «macchina da scrivere», rafforzata dalla sanzione del «finire nel reparto dei barboni all’ospedale della contea», e idea di «macchina da scrivere» come coronamento necessario alla everyday life, nel ruolo di termostato esistenziale. Per Bukowski «[…] c’era sempre la macchina per scrivere per calmarmi, per parlarmi, per intrattenermi, per salvarmi il culo. Fondamentalmente, per questo scrivevo: per salvarmi il culo, per salvare il culo dal manicomio, dalle strade, da me stesso […]»; nella teoria bukowskiana dell’arte, la «macchina da scrivere» - moderno simbolo metonimico dell’arte, moderno attrezzo di assestamento della memoria- è efficace mezzo di difesa, attraverso un’attività risoluta di conservazione dell’identità, contro i moderni rischi di frantumazione dell’io individuale [«disintegrazione dell’identità»], e tale da resistere alle istanze di controllo/dominanza della società moderna, mantenendo in vita identità e volontà individuali, nel tentativo di ostacolare i meccanismi di sostituzione nella decisione introdotti da ciascuna «authority». Nella weltanschauung di Bukowski, in seconda battuta, memoria è medium di rimozione del dolore; oltre a conservare l’identità dell’artista in una società assai fluida, la memoria – nella manifestazione cristallizzata della scrittura- aiuta costui, con maestria catartica, a rimuovere il dolore d’esistere, e ne assicura il mantenimento di una certa vitalità creativa. Per Bukowski memoria/scrittura è «[…] come un gatto. Mi consente di affrontare tutto il resto. Mi fa sbollire. Almeno per un po’. Poi mi si imbrogliano i fili e devo ricominciare tutto daccapo»; e nel “calmare”, nel “raffreddare” («far sbollire», nei termini bukowskiani) il dolore esistenziale consiste un tratto determinante della
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sua natura. Scrivere, nel ricordo di «desperation», «dissatisfaction», «disillusion», conduce ad una sorta di esorcizzazione di esse, come se una scaltra immobilizzazione del dolore sulla carta, nelle forme della scrittura in versi, bastasse a ricondurre l’artista ad uno stato di serenità esistenziale; senza dimenticare mai della sua iniziale condizione di «marginale» nei confronti della moderna società americana, Bukowski non smette di cantare amarezza e tormento della sconfitta sociale, smaltendone i residui tossici e neutralizzandone i devastanti esiti mentali nell’attimo stesso del raccontare: «[…] perché negli avvenimenti sportivi quasi sempre faccio il tifo per i perdenti e in quelli spirituali sono colpito dalla stessa malattia, perché non sono un uomo che pensa, seguo ciò che sento, e i miei sentimenti stanno con gli handicappati, i torturati, i dannati e i perduti, non per simpatia ma per fratellanza, perché sono stato uno di loro, perduto, confuso, indecente, meschino, spaventato e codardo; ingiusto, e gentile solo a piccoli lampi e sebbene fossi fregato, sapessi che non serviva a niente, che non curava niente, lo rafforzava soltanto […]». Questi motivi dell’interesse bukowskiano nei confronti della «marginalizzazione» dell’individuo moderno conducono il nostro autore ad asserire, in un racconto di South of no North «[…] Come può dirvi chiunque, non sono un
tipo molto gradevole. Non so nemmeno cosa voglia dire. Ho sempre ammirato i cattivi, i fuorilegge, i figli di puttana. Non mi piacciono gli uomini perfettamente rasati, con la cravatta e un buon lavoro. Mi piacciono gli uomini disperati, coi denti rotti, il cervello a pezzi e una vita da schifo. Sono loro che mi interessano. Sono pieni di sorprese. Ho anche un debole per le donnacce, quelle che si ubriacano e bestemmiano, che hanno le calze molli e il trucco sbavato. Mi interessano di più i pervertiti dei santi. Mi rilasso con gli scoppiati perché anch’io sono uno scoppiato. Non mi vanno le leggi, la morale, la religione, le regole. Non mi va di essere plasmato dalla società […]», mostrando come un’accurata memoria della sua stessa condizione di deviante abbia influenzato i suoi stile e modalità narrativi. Aldilà d’essere veicolo di conservazione dell’unitarietà dell’io, memoria culturale dell’uomo è mezzo di esorcizzazione del dolore individuale, destinato a mettere in evidenza i caratteri di «marginalizzazione» dell’american way of life, senza insincere rimozioni; sfruttando il valore catartico della memoria/scrittura il nostro autore “ricorda”, ai fini di dimenticare i suoi insuccessi umani iniziali ma senza dimenticare l’altrui disfatta sociale.
L’ECO & RIFLESSIONI ossia FORUM AUCTORIS Daniele Boldrini (1952)
UNA VICENDA DELTIZIA Romeo non era abituato a vedersi attorno, viaggiando, tanta varietà di paesaggio, ma proprio per questo gli piacevano i posti che vedeva dai finestrini dell'automobile, diversi da quelli, pur di pianura, dov'egli un bel mucchietto d'anni aveva abitato, e ora ne ricordava gli orizzonti lineari e bassi che concedevano al suo sguardo una sola, non sempre nitida, prospettiva. Anche gli davano un senso di vertigine, il bisogno di trovare una spiegazione al mutamento uguale tra il giorno e la sera, come fosse sempre lo stesso sole, a volte semmai amplificato, che gli calava dietro. E c'era, lì dove avrebbe trovato la sua residenza nuova, il di più del mare, e sentiva come il mare finalmente gli appartenesse, nascente là dove incrociava gli argini del fiume, e venuto a restargli accanto; che invece quand'era ragazzo lo vedeva solo di tanto in tanto, nelle fughe a raggiungerlo, a tuffarcisi dentro. Poteva così attendersi una men forte solitudine, se anche vi s'aggiungeva la novità degli itinerari fra questa e altre strade. S'accorse in ogni modo che la cupezza dei luoghi, certo risentente della pineta attorno, lungo le notti che niente li rischiarava, anzi che immalinconirlo gli dava come una consolazione, il senso benefico di un'attesa. Ancora non seppe d'una giungente sventura, che avrebbe avuto un suo seguito speciale. Pensava che, riappropriatasi una serenità a vivere, potesse col mondo, dopo che ne aveva patito i morsi, già nella mente (era ricorso a cure di psicologi, anzi di psichiatri, che si dice non sian la stessa cosa), taluno nel cuore, far pace. Ma se incantesimo era, lo ruppe la strada, anch'essa scura, nera scendendo la pioggia; via di rottura d'un
paesaggio che pur sempre da remoto, selvaggio di bellezza qual era, grazie a quella, che vi s'incuneava, veniva talvolta a ordinarsi in geometrici e pur fantasiosi appezzamenti ove giacevano i coltivi, ma più spesso divagava negli spazi d'acqua vallivi che lo stesso Romeo avrebbe somigliati a occhi di cielo gettati fra una e l'altra terra. Egli tuttavia pensò: perché la strada? Forse ch'era necessaria? Quando lui spinse il piede sul freno la macchina continuò la scivolata, non vi fu rimedio e fu tardi. Si concentrarono attorno a lui idee lampo di vita vissuta, rivide se stesso che i genitori gl'insegnavano da bimbo a cavalcare, e cavalli, gli stessi della Camargue, attorno a lui zoccolanti, tuonarono, dandogli la fitta dei rimbombi. Intanto che G., la ragazza da poco conosciuta, cui già dava appuntamento, aspettava, e lui voleva arrivare in tempo; e perché s'era messo in testa, adesso che usciva dal nuovo lavoro, di raggiungere l'edicola dove vendevano i giornali, prima che li impacchettassero, cosa che, egli annotava con un cero nervosismo, s'andava negli anni anticipando a orari sempre più pristini, senza che ne fosse chiara la ragione ma era da ravvedersene una mancanza di rispetto nei confronti dei turisti e anche di coloro che lavorando avevano questa quotidianità preclusa, nonché degli stessi giornalisti, tra i quali egli ancor sperava, romanticamente, di trovare qualche elzevirista che tracciasse una comunanza d'impressioni sui luoghi e sull'andare. In questo stato proteso, quasi di concitazione, Romeo credette d'aver sonno e la gran pozzanghera che stagnava sull'asfalto fece il resto. L'auto prese quella signora anziana alle gambe ed egli 57
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sentì il grido e il tonfo e il repentino accorrere di gente, e si trovò al centro immediato della scena, e tutta quella vita nuova che gli era parsa avviata retrocesse a un punto di partenza (quando nemmeno sapeva il Delta che fosse). E n'ebbe, di là dalla delusione, il terrore dello smarrimento, poiché fece sperimentare a un essere umano ciò che per lui, nel suo valore estremo, messo a confronto con l'incolumità dei tanti, che ammette solo piccole incrinature, era l'infinito fuori controllo che unicamente chi lo patisce capisce e se vita rimane potrà raccontare. Al lutto e al sangue parteciparono le foglie bianche, 1 nella lor parte versa, degli albogatti , i quali, se avessero potuto, li avrebbero coperti e cancellati, e in quell’insoccorribile momento disse Romeo al suo cuore: perché adesso e proprio a me accade, per quali congiure della sorte, perché sì tanta sfortuna e le cattiverìe (ponendo l'accento sull'ultima i ) che mi vorrebbero schiacciare ? Ma bastò un attimo e venne il risveglio; dentro una rilassatezza, un languore beato, gli fu detto: tranquillo ch'è nulla, la macchina s'è fatta niente, soltanto la zucca, rotolata da una di quelle baracchine che stanno di lato alla strada e fan unico spettacolo, consueto a chi conosca la strada, d'ortaggi
e frutti multicolori, dove vermiglio domina, la zucca è sfracellata, rossa sull'asfalto, come sangue. Romeo tirò un sospiro e fece sogno all'incontrario, calarono foglie dai gattici e spazzarono la strada, la zucca rimpolpò e tornò al suo posto (anche se poté darsi fosse stata un'anguria, nemmeno la zucca, a finire sotto, se si trascurano i diversi tempi, sul mercato, delle loro apparizioni, quel che vale, in natura e in doveroso esempio, per le rose e le viole); l'ordine si rifece compatto. Capì Romeo che l'aveva protetto, lì poco distante, il mare, dal quale era uscito giusto in tempo perché non scrosciasse, tra nuvole sospese, un'acquazzone. Tanto che aveva rinunciato a stiracchiarsi sulla spiaggia e riprese, un poco insonnolito, l'automobile. Dall'onda equorea che gli consentì, plasmato a sogno, fasullo l'investimento, da tutte le vegetazioni musicanti alla brezza estiva e dai profumi variegati, per l'aria suadenti, ebbe a sentirsi rigenerato. Ma anche da quella stessa strada coi suoi dolenti traffici che in fondo tutto l'aveva fuorché tradito. E come poteva, essa svolgendosi piana da cotanto nome? 1
I pioppi bianchi
GIRO ALLA FOCE
Parco Delta del Po Foto © G.O.B
Qui non c'è parte che sveli determinatezza di luoghi. Uno crede che il Delta, il Parco che gli s'intitola con quella sua ridondanza del-Del che pare davvero inevitabile, appartenga al territorio di una provincia o di due o di tre, si estenda a mezzo di due regioni, e invece, viaggiatore disincantato ch'egli sia, o scienziato in cerca di tracce e di conferme, qualche cosa ben 58
presto l'avverte d'una più vasta e molteplice geografia, che solo per caso si commisura a spazi definiti e s'identifica in toponimi precisi. Fortuna, ecco, è trovarcisi quando sospinge buona ventura il passo e il cuore, e li fa partecipi d'una bellezza che a volte si spiega a volte no. Poiché laddove pare ch'esista acqua e acqua soltanto, compatta, d'alto strato, placida o
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corrente tra le sue fortezze arginali, ecco affiorano isole; e c'è uno specchio di valle, di lato alla strada degli Acciaioli, che tutta ne fiorisce, ora più ora meno secondo moti che oscure ragioni governa, lembi e lembi di terra che ne frammentano la superficie a mo' di zolle disperse, una all'altra congiunte da voli posati d'ampi uccelli, solide abbastanza da sostenere casupole perfino, altrove più felicemente chiamate "Casoni": i Casoni del Parco del Delta, se ancora non si rifugge e s'accetta questa sillaba che suona e si ripete uguale. Sono i rami terminali del Po che, lo saprete, formano il Delta, cinque dai diversi nomi secondo latitudini e paesi, così come son cinque, se torna buono il paragone, le digitazioni della mano del primate cui da luogo il carpo, parola che guardacaso s'anagramma con parco, giacché son come dita ora distese ora contratte questi suoi rami che anche lo fan somigliare a un albero giacente orizzontale, che artigliano e trattengono argilla e sabbioni prima che s'asciughino nelle barene o si facciano contorno e limite tra le acque dolci e il mare. Uno dei rami, penso il maggiore, in fondo si partisce in due e così, sulla carta, mi viene da compararlo, chissà perché, a coda biforcuta di lucertola, che similmente talvolta le ricresce, quando la sua "originale" per effetto di trauma si stacca a tutto vantaggio della vita, le cui ragioni vanno di là dalla bellezza estetica; sennonché il rettile trascina avanti la coda, che segue il corpo, sua appendice estrema, il fiume, invece ve ne confluisce per moto inverso, come se la diramazione ne rappresentasse il capo. Ancóra, il ramo più basso già si origina dal fiume alcune decine di chilometri avanti la sua foce, passa la città e attraversa un paesone e case vi si affacciano come fossero in riviera, e ha tutta l'aria, più che d'un fiume, d'un grande canale. Io non so, non credo ch'esista al mondo altro fiume che in due lettere, in una sillaba che non è proprio sillaba ma per altro verso e in lingua contrazione, troncamento di parola valente il suo stesso contrario, chiuda in sì breve pronuncia, tutta la possanza, la sua portata immane; per quanto sappia d'altri fiumi di ben più grande corso che solcano la terra, fattisi Anaconda nella nostra ancor giovane fantasia, serpeggianti righe d'azzurro sulla carta, al cospetto d'un pitoncino o, meglio, della nostrana anguilla, di certo più nobile e sinuosa, erratica com'è dal suo fondo dulciacquaiolo alle salse derive oceaniche segrete e fascinose (quanto profonda andrà laggiù l'anguilla?), sororale ancella dei nostri più lieti desinari. E questo fiume che da un canto raduna e lascia depositati strada facendo i suoi bagagli di scorie e di detriti, dall'altro canto si concede di circoscrivere il "Boscone", che sarà pure relitto, il più grande e bello, d'antica flora planiziale padana, ma all'occhio di chi ne attraversa le dense vegetazioni diviene suo eletto simbolo e campione, fermo, immoto, o d'un filo mosso appena là dove già s'annuncia e freme la marina; e così geometrico, intorno a se stesso raccolto. C'è un altro aspetto insolito di questo fiume d'acqua grigiastra che dove s'apre a ventaglio, intenerisce le sabbie e passando ai coltivi fiacca noi pure e anche c'inebria, e son le vigne che lascia e a malapena ombreggia se accoste all'argine o al riparo degli alberi ch'esso obbliga a radicare: le uve d'oro e di bianco eliceo, che traggono e mutano a sapido buon vino l'essenza di suoli che inapparente insospetta vena,
vaporosa linfa tra i granelli della sabbia (altrove stanno e in ogni modo son presenti, i terreni enfi e limacciosi), finge di seccume e di aridità, non molto lontano dalle sue rive. Se Parco e Delta sono tutt'una cosa, quantunque nel primo s'includano aree distanti quali le oasi argentane, inimmaginata bellezza fiorente su acque separate da cortine di boschi, e le piccine misconosciute oasi d'altra località vicina, l'uno e l'altro insieme concedono qualche variazione alla piattezza assoluta (che qui vorrei chiamare 'piattura' se solo non fosse illecita parola), assai scarna d'altri esempi al mondo, ove sulla gran piana di terra e acque s'innalzano regolari dislivelli a strisce, a quadri, esiti d'umano esercizio o di spontanee germinazioni, sicché ne deriva una sorta di bassorilievo. Già le sponde dei fiumi e dei canali la recintano di qualche metro d'altura, e poi gli alberi che di qua dalle arenicole, frammezzo a tamerici e eleagni, alle robinie inselvatichite, sono gli ubiquitari grandi pioppi, che spesso qualcheduno deve aver piantato a sperimentarne la resistenza alla salsedine, prova ch'essi hanno egregiamente superato derivando forse dalla silice il verde o glauco polveroso delle loro fronde che nuvola passeggera o il primo vento d'un subito ribalta a inatteso biancore. Sì, i pioppi bianchi; ho sempre sentito consolatoria la presenza di questi alberi che mi riporta a distesi pomeriggi d'estate, a fresche fruscianti notti sotto la luna. Ma ancora i capanni qua e là disseminati, cui le canne e le frasche donano davvero parvenza d'esotico, il baracchino dai freschi cocomeri che non di rado incontra chi cerchi ristoro, son altre rotture del paesaggio che ne sostengono il profilo, a volte più basso di quello del mare. Ci sono paesi nel Parco che raccontano un passato di secoli, canali che ne incrociano le strade, e uno all'altro trasmette questa specie di grazia e di simmetrie che sale dall'acqua alle pietre, quantunque ciascuno conservi sua propria fisionomia e ricchezze, e uno ce l'ha tanto vasta e splendente (ora ridotta di un terzo di quel che era), che a guardarlo di lontano è come moscerino poggiato al bordo di questo grande occhio che è la valle. Altra cosa da sapersi di questi paesi è che la gente che li abita son gente comune, non racchiusa in particolari aristocrazie, benché se ne possa rintracciare una solidità dei modi e una vena a un tempo passionale e ironica, di voglia a vivere di semplice vita, e del raccolto delle proprie messi. Lasciateci a noi che abbiamo da vivere e lavorare ma pure ci si rispetti il benamato riposo, direbbero al forestiero, peggio se incauto e troppo cittadino. Certo son conosciuti al mondo, e molti v'han fatto strada, ma invano vi si cercherebbe, chessó, il sembiante, il tratto unico e ben pubblicizzato del Buttero della Maremma toscana. Qui, forse più modestamente o forse no, son pescatori (e pescano quel frutto miracoloso che è l'anguilla, spesso tendendole trappole, come loro direbbero, al lume di luna) o coltivano la terra, o altri fanno umili mestieri; altri ancora si spingono a gestire i bagni al mare che, diciamolo, sono tra i più belli dell'Adriatico, alcuni modesti e piccolini quali miraggi d'oasi posti dinanzi a limitati conchiusi deserti di sabbia, altri più grandi e strutturati tanto da contenere un ristorante che per solito ha tutta una fiancata a vetrina sul mare. Di nuovo guardo la carta geografica che tratteggia l'intero Delta e mai così m'appare solitario e vasto, 59
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riando a mie passeggiate e peregrinazioni e penso come sarà possibile che i rami di Po, che dan luogo a quel grande sipario che di continuo o forse a impercettibili intermittenze s'apre sul mare, siano alcuni, magari a tratti, così larghi da superare il tronco principale che a monte (così si dice) li ha fatti nascere, sicché a metterli uno accanto all'altro questi rami che traversando contrade, incolti terreni e città, hanno ciascheduno la propria leggenda e storia o appartenenza a qualche mito paesano, s'arriverebbe a una massa d'acqua di gran lunga superiore a quella che da sopra gli si distribuisce. Fatto che parrebbe contro logica e razionalità, non dico contro natura, e sarà forse per la diversa lunghezza dei tratti, o per l'apporto d'acque degli affluenti, o per quel difetto di percezione che fa empiriche e sbagliate le misure, o per tutte cose che spiegarmi non so; e nemmeno capisco se sia più giusto affermare che il Po si divide nei suoi cinque o sei rami, o per quelli stessi si moltiplichi. Ma tanto è e non muta il paesaggio se non le volte che si va cambiando un corso, o più d'uno, cosa che del resto, a balzi di secoli, per autonoma iniziativa del fiume, o per imperscrutabili strade, avviene. Giacché nulla è eterno o eternamente uguale, neanche il Delta, quantunque dia l'impressione d'una perdurante stabilità; e dunque non sarà che un ritratto passeggero, quello che ne vado dipingendo. Sta di fatto che questa del Delta è la sua forma, d'imbuto ramificato a singoli elementi che confluiscono al mare, d'acque che s'avanzano ora adagio e molli, piatte o appena increspate o convergenti a piccoli buchi e molinelli, a minime correntie, facenti corpo, unica
mole che passa e va, con il primo strato d'aria che le sovrasta limpido o caliginoso, ora svelte e impetuose, torbide d'un colore di spavento ma sempre con questaloro smania d'andarsene libere in gioiosa incontinenza ove non sanno d'ostacoli e di barriere che non siano gli argini, il modesto freno dei pioppeti in golena, e ancora in ultimo il mare che le sbarra e nello stesso tempo le lusinga e le risucchia e di tutta quell'infinita onda dolce si salva sì e no un millesimo del suo sale, e alzerà io penso non più d'una spanna il suo livello (altra cosa son le maree), mentre del fiume e del suo abbandono ha preso l'anima e l'andare. Ma ecco si concreta il pericolo che in tutta involontarietà e per note sapute e tintinnanti all'orecchio m'accada di rubacchiare, cosa che non voglio giammai, qualche passo d'uno o più narratori della nostra terra padana, che hanno dilatata al mondo aggiungendovi luce di fuochi e di stelle. C'era niente allora di quel che oggi è il Parco, e dunque adesso se ne potrebbe ricavare, da quest'opera attesa da tempo, forse incompiuta, fatta d'ideali recinzioni, nuovo spazio di scrittura che però torni a misurarsi, a pareggio, con altro spazio rarefatto, riaperto ai sogni. Ma non so, non m'azzardo, e dunque smetto, o dovrei tornare innocente bambino alle prese con il tema d'italiano in classe. Mi trovassi con loro, i fanciulli, sarebbe sin troppo facile trarre dalle parole, che qui si prestano, una cantilena: Po, Delta, mare, amare il Delta, a mare, un Po, un pochino, tanto tantissimo amare, ch'è nostro, e sempre è stato e così sia. Come al fiume anche a me di tanto in tanto ritorna quiete. La ritrovo nei suoi luoghi che ora han nome
Parco Delta del Po Foto © G.O.B
Parco. Siedo al tavolo dello stesso ristorantino d'allora, mezzo bar, mezza trattoria, a due passi dall'argine e a qualche metro in più dal mare che da qui non si vede 60
essendone la vista separata da un'alta siepe di lauro, fuori c'è anche un paio di palme che rinvigoriscono a ogni estate e qualche giovane aliante che ha da
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crescere. Seduti accanto a me sono l'artigiano-artista e l'amico musicante. Uno lavora a radici d'alberi trovate qua e là ma soprattutto in certe spiagge dei lidi, ove la marea le ha portate a riva dopo averle catturate al fiume. Ne costruisce figure d'animali, uccelli soprattutto, terrestri e marini, e sono piccoli capolavori. Dovreste vedere l'interesse della gente quando l'artista espone le sue opere alle mostre e alle fiere di paese. Egli ha un segreto: preso a modello l'animale, realizzatene le forme, non v'aggiunge tocco di colore se non quando sia indispensabile alla resa del soggetto o perché ne siano chiare a chi l'osserva le somiglianze. Anche di queste preziosità s'arricchisce il Delta. L'altro viene rammentando di quando suonava nelle orchestrine in giro ovunque lo chiamassero. Ma qui vi ha suonato a lungo e tante sere: un posto tranquillo, mi dice, riparato dalle piene anche le più impetuose che lì nei paraggi, fattosi il Delta già prossimo al mare, non potevano giungere. Neanche una ciabatta i turisti si sarebbero bagnata. Suonava il fagotto, mentre un compagno pizzicava le corde del banyo e, le volte che ce l'aveva, anche il violino; e si può immaginare quale varietà di musica ne uscisse: dolce, melodica, allegra, qualche pezzo di classica o jazz. E poiché la musica è sentimento e ha timbro universale, quelle note
carezzevoli, che incoraggiavano ragazzi e ragazze, uomini e donne allo sguardo e a colloquiare, siccome non ne avrebbero coperto le voci, quando già il cibo servito pareva acquistasse maggiore fragranza e bontà, s'univano alle fronde di quegli alberi là fuori, così che davvero, facendone da terzo elemento il tetto di paglia del ristorantino, venivano a costruirsi fattezze d'Africa, e un senso d'esotica mediterraneità calava in tutti noi. Il resto del tempo, giuro, si pensava alle ragazze. Ora non più. Ora, mentr'egli parla e soffia aria di disappunto verso le ciglia, riascolto dentro di me un sogno. Vedo la banda del paese che si sposta sul battello che non è nave ma è semplice barcone, pronto a salpare. Ah gran cosa è la banda, e quel suono voluttuoso che esce dai tromboni, a circolo nell'aria. La rivedo a terra che a un tempo cammina e suona, passa sopra l'acqua dei fiumi, prima uno poi l'altro, e l'acqua, rosseggiante dalle divise, la sorregge. Cammina e suona la banda, come poggiasse i piedi sulla terra ma leggera tanto che l'acqua, pur fonda e dal suo profondo a quella musica danzante, la sorregge e se ne lascia percorrere. E io dietro, che cammino e penso: anch'io il Delta, solo camminando del mio passo, l'ho potuto attraversare.
Parco Delta del Po Foto © G.O.B Daniele Boldrini (1952), di origini bolognesi, è medico chirurgo all’Ospedale del Delta di Lagosanto (Ferrara). Ciò che lo distingue è la profonda passione botanica, con la quale da anni sta lavorando ad una monografia sul pioppo bianco (nome latino, populus alba). A suo parere, il pioppo bianco, dalla chioma slargata, è un albero nostrano dei più belli del mondo. Tra Bologna e Ferrara, esistono alcuni popolamenti di pioppi bianchi, con grandi esemplari, che godono di una certa notorietà tra i botanici. Le prime foglie, a primavera, quando gli alberi crescono selvatici nelle golene e fino negli alvei dei corsi d’acqua, hanno un colore che non si sa quanto di più bianco ci sia o quanto più di verde, e non si ripeterà in altro tempo né in altra veste che non sia un pioppo bianco a primavera. Tra marzo e aprile, si scorge il primo verde sugli alberi, in alto: per osservarli, è là che si deve rivolgere lo sguardo, là dove finisce l’impalcatura dei rami bianchi. Si OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove ANNO XVIII/XIX – NN. 101/102
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crede un verde brillante di foglie (i pascoliani “gattici d’argento”) e invece son fiori: i fiori femminili del pioppo bianco che annunciano le nuove foglie. Finché piove, la scorza del pioppo si fa scura, come se l’umidità l’avesse corrotta per sempre, ma basta un ritorno di sole e l’albero, scrollato il nerume, torna a biancheggiare splendente, mostrando al vento la parte versa delle sue foglie, bianca come spazzatura di nuvole. Nel pioppo, secondo Daniele Boldrini, c’è il significato dell’albero: un perpetuo ritorno a sé, alla propria essenza, ai propri umori e colori, come se esso, dalle avversità della stagione, non avesse ricevuto che una mite carezza. (Fonte: http://blog.libero.it/Lesto/9353756.html)
ARTICOLI BREVI DAL BLOG DI UN AMICO D’UNGHERIA: Giuseppe Dimola (1956) — Vittuone (Mi)
EGER, NON SOLO CANTINE
Eger: chiesa e minareto. Lo ammetto. Conosco Eger (55mila abitanti, capoluogo della provincia nord di Heves) solo per due ottimi vini rossi ungheresi: Egri Bikavér (sangue di toro) e Egri Kékfrankos. Ma l’invito alla presentazione del libro Stelle di Eger (ungh. Egri Csillagok) – premiato nel 2005 come “il libro più amato dai lettori ungheresi” – m’incuriosisce molto. L’evento sarà a Venezia (Scoletta dei Calegheri) il 6 giugno (ore 18), promosso dall’Associazione italoungherese del Triveneto, il Consolato ungherese e l’università di Debrecen (parteciperà Madarász Imre, docente di italianistica a Budapest e Debrecen).
Eger (gemellata con Arezzo e Sarzana) è famosa per il vino (bor), i vigneti (borvidék), le cantine (pincék). Una città con tante testimonianze storiche (barocche e medievali), che si trova anche in una invidiabile posizione geografica, tra i monti Bükk e Mátra e il fiume Tibisco (Tisza): la pittoresca “valle delle belle signore” (Szépasszony-völgy). L’evento di Venezia è un’occasione unica, anche perché libri di Gárdonyi in Italia non ce ne sono: l’unico finora tradotto da Filippo Faber risale al 1939, Gli schiavi di Dio (Utet). Stelle di Eger - tradotto in italiano da Patricia Nagy e curato da Guido Tanca – è stato stampato lo scorso anno in Ungheria, a Pécs, e sarà in vendita all’incontro. ATTILA IN ITALIA
Eger: chiesa e minareto Il libro è di Gárdonyi Géza (1863-1922), famoso in Ungheria per i romanzi storici, ma anche per racconti di vita campestre con una vena umoristica. Stelle di Eger descrive il patriottismo magiaro contro l’impero ottomano che minacciava l’Europa nel XVI secolo (le guerre ottomano-ungheresi durarono dalla fine del ‘300 a metà del ‘500, concludendosi con la distruzione del Regno d’Ungheria e la sua spartizione tra turchi e austriaci). Leggendaria fu la difesa della fortezza di Eger (1552) da parte di un gruppo di magiari capitanati da Dobó István contro i turchi di Alì Pascià. La fortezza pentagonale è ancora là, così come una traccia della presenza turca: un minareto (quello più a nord in Europa). 62
A Magyarok nyilaitól ments meg Uram, Minket! Così in ungherese, ma l'originale era in latino: A sagittis Hugarorum Libera Nos Domine, “dalla frecce degli Ungari, salvaci Nostro Signore”, una preghiera cristiana del IX secolo. Era un'invocazione contro le invasioni degli Ungari in quel periodo, affinché non si ripetesse la tragedia del 452, quando gli Unni guidati da Attila “il flagello di Dio” (Isten ostora) invasero l'Impero Romano d'Occidente e, tra l'altro, rasero al suolo Aquileia, i cui abitanti si rifugiarono nelle paludi, dando origine così a Venezia. Nell'immaginario ungherse Unni (Hunok) e Magiari (Magyarok) sono ancora associati. Un interessante convegno, ATTILA IN ITALIA dalla letteratura franco-italiana a Verdi (e oltre), è previsto a Padova (Accademia Galileiana) il 29 e 30 maggio (inizio giovedì ore 15.30). Tra i relatori anche Edina Bozoky, studiosa di storia medievale all’Università di Poitiers (Francia), autrice del libro ATTILA E GLI UNNI. Verità e leggende (Il Mulino, 2014, traduzione di A. Talamonti). Chi erano Attila e gli Unni, circondati da fama di devastazione e crudeltà? Il libro racconta storia e
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leggenda, nelle diverse aree europee. Attila per gli italiani è “il terribile”, ma nei paesi germanici è un re benevolo e generoso; in Ungheria addirittura un eroe nazionale. L'evento è promosso dall' Associazione Culturale italoungherese del Triveneto, oltre che dal Consolato ungherese di Venezia e l'Accademia d'Ungheria di Roma. Per Antonio Bonfini, umanista e storiografo italiano alla corte ungherese del XV secolo, Attila era come un principe rinascimentale, astuto condottiero capace di tenere unite le varie tribù nomadi degli Unni. Incaricato di scrivere una storia dei Magiari (Rerum Ungaricarum Decades), ne fece un modello ideale del “secondo Attila”, il Re Mattia Corvino, capace di ristabilire un Regno unitario e rinascimentale. Una raffigurazione divergente, quella del Bonfini: ora Attila era potente e simpatico, ora diveniva antipatico e crudele (nella descrizione delle campagne militari contro Italia e Francia). Un paragone che si ritorse contro il Re Mattia, nuovo “Flagellum Dei” per i suoi critici. Ma il mito di Attila servì come strumento ideologico a scopo politico. Del resto, secondo Kulcsár Péter, la leggenda degli Unni offriva un passato eroico agli Ungheresi. In seguito, si è chiarito che i Magiari o Ungari – di origine ugrica (est degli Urali), con mescolanze bulgaroturche – non discendevano dagli Unni, di origine turcomongola. La presenza dei due popoli nel bacino carpatico è separata da 600 anni e, alla morte di Attila nel 453, l'impero cadde e gli Unni tornarono verso le steppe asiatiche. Il mito sopravvive tra i magiari: ancor'oggi è comune il nome Attila (gli ungheresi lo pronunciano “ò-tilla”), simbolo di coraggio e fiera indipendenza, come pure quello di Ildikó, sua seconda moglie. Oltre ai libri storici, anche il cinema e la tv si sono occupati di lui. Attila the Hun nel 2001 è stata una miniserie tv di produzione americana. “Dove passa Attila non cresce più l'erba” era un modo di dire, specie nel Nord-Est dell'Italia, e una persona malvagia o un bambino violento venivano definiti “Attila”. Oggi gli si riconoscono anche doti di abile politico ed esperto di strategie militari, ma nell'immaginario resta il temibile condottiero che capeggiava abili cavalieri-arceri.
VIAGGIO IN UNGHERIA 80 ANNI FA Com’era l’Ungheria 80 fa? Un inglese diciannovenne la attraversa in un vitalistico viaggio, a piedi, dall’Olanda a Costantinopoli. Non come turista, ma come un viaggiatore che si ferma ad ascoltare, osservare, imparare. Patrick Leigh Fermor (19152011) ha poi raccontato quel viaggio di formazione in tre libri. Ho letto il secondo, Fra i boschi e l’acqua (Adelphi, 2013; traduzione di Adriana
Bottini e Jacopo M. Colucci), ambientato in Ungheria e Transilvania. Questa parte del viaggio, seguendo il corso del Danubio, comincia da Esztergom, al confine tra Slovacchia e Ungheria, e arriva alle Porte di ferro, in Romania, dopo aver attraversato “la frontiera più odiata d’Europa” (nel contenzioso tra i due Stati, Tremor si colloca a metà strada tra la teoria ungherese del vuoto e quella rumena del focolaio, che legittimerebbero le rispettive rivendicazioni territoriali sull’Erdély/Ardeal, e “desidera ardentemente la riconciliazione” tra i due popoli). È una lettura avvincente, piena di dotte descrizioni naturalistiche, architettoniche, etnologiche, negli scenari della grande pianura ungherese (Alföld) prima, e dei boschi montani della Transilvania (fino al 1920 parte dell’Ungheria, dove ancora oggi vive la più grande minoranza in Europa, quella magiara) poi. Una lettura densa di digressioni stimolanti sulla lingua (“miracolosamente integra”) e sulla storia ungherese, in quegli anni sfociata nello smembramento del multietnico Regno d’Ungheria, sancito dal Trattato del Trianon a seguito della sconfitta nella I guerra mondiale. Fermor descrive un mondo – quello dell’aristocrazia decaduta e quello di pastori e contadini non toccati dalla rivoluzione industriale – che da lì a pochi anni scomparirà, con la catastrofe della II guerra mondiale e le trasformazioni socio-economiche del dopoguerra. È anche un’esperienza sentimentale e ludica, foriera di nuove sensazioni, come il mulatság (sul vocabolario è tradotto “divertimento, trattenimento, kermesse”, ma questa parola ungherese è intraducibile e corrisponde a uno stato d’animo brioso, godereccio ma anche melanconico, suscitato da musica zigana, ballo e alcool). Un libro da leggere, per salvare la ricchezza delle diversità culturali. “La cultura è ciò che resta quando si è tutto dimenticato”, secondo Erbert Herriot, citato da Fermor. Fonte: http://amicizia-italo-ungherese.blogspot.it/ Umberto Pasqui (1978) — Forlì
CRESPO E GENESI
Una Biblia pauperum dalla contemporanea Andalusia Col termine “Biblia pauperum” (cioè Bibbia dei poveri), in senso estensivo, si può intendere l'apparato iconografico della Chiesa: cioè dipinti, affreschi, tele, icone, organizzati in modo da illustrare in sequenze, con episodi successivi, la storia di Gesù, di Maria, dei santi o episodi dell'Antico Testamento. La gente semplice, quella che nel medioevo non sapeva né leggere né scrivere, imparava le vicende della Scrittura contemplando le opere d'arte nelle cattedrali, nelle pievi, nelle chiese. Così le sacre immagini hanno sempre avuto una rilevante importanza per il cattolicesimo. Proseguendo in questa lunga scia di storia e arrivando al presente mi ha colpito l'opera di un artista spagnolo: Francisco Crespo Lopez. Egli si è concentrato, per ora, su Genesi, sul primo libro che
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compone l'Antico Testamento. Il pittore mi ha gentilmente inviato un catalogo con i quadri che sono in cantiere. Alcuni sono solo bozzetti, ma rendono già l'idea dell'opera. Tele di varie dimensioni, alcune su supporto cartonato che, se su carta appaiono “sbiadite”, dal vero sono intense e vivide. “Questo lavoro – così scrive nella presentazione – è stato pensato per far conoscere la storia sacra ai bambini in età scolare. L'intento è stato quello di mantenere il più possibile l'attinenza del linguaggio artistico con quello delle Scritture: se non ci fossi riuscito, almeno ci ho provato”. L'iniziativa, dunque, è più che lodevole e lo stile è decisamente efficace. E si può dire che i destinatari possono benissimo essere anche adulti. Francisco Crespo Lopez (si firma semplicemente Crespo), andaluso di Almeria nato nel 1943, durante il suo lungo cammino artistico ha allestito numerose mostre: sono presenti sue opere in Germania, Francia, Stati Uniti, Corea del Sud, Portogallo, Marocco, Italia. Sue sono anche le decorazioni di diversi alberghi europei. Fu autore pure di alcune illustrazioni ornitologiche per un periodico locale nell'annata 1980. Attento osservatore, per così dire empatico, di ciò che lo circonda, lo trasforma conferendogli uno stile incisivo e immediato. Capace di ricreare i costumi dei luoghi visitati, ne cattura l'ambiente circostante senza ambire alla figura perfetta, né al realismo più schietto: vuol rendere, però, e difficilmente questa caratteristica è stata raggiunta da altri artisti, il movimento delle sue figure. Dotato di grande forza espressiva, riesce a presentare con semplicità solo all'apparenza quasi infantile, le azioni e le intenzioni dei personaggi che rappresenta. Per chiarire meglio le sue illustrazioni di Genesi, ha voluto anche apporre delle didascalie: ma sono superflue, tanto le immagini sono chiare. Oltre alle tele dedicate alla Creazione, si sofferma ovviamente sull'uomo e la donna, e la collocazione nel Giardino dell'Eden. Non banalizza niente, segue il testo biblico paragrafo per paragrafo, sottolineando anche la disobbedienza di Adamo ed Eva. La tela raffigurante la cacciata dall'Eden è particolarmente forte: un cherubino sospinto da una nube caccia, con la sua spada, Adamo dal passo impaurito ed Eva che si copre il volto per il rimorso e per la vergogna. Il suolo è spoglio, con qualche sasso che affiora qua e là, con qualche ciuffo d'erba: ormai il paradiso terrestre è solo un ricordo. E poi tratteggia la vicenda tragica di Caino e Abele, il diluvio e Noè, la torre di Babele, il ciclo di Abramo, la distruzione di Sodoma e Gomorra, la moglie di Lot che diventa statua di sale, il baratto della primogenitura per un piatto di lenticchie tra Esaù e Giacobbe, fino ad addentrarsi (e questo è sicuramente un pregio) in episodi meno noti. “Ho scelto Genesi – spiega l'artista – perché sto facendo un corso di teologia e penso di riallacciare queste opere seguendo le vicende di Abramo, Noè, Isacco e altri. Mi piace molto leggere e sono stato professore al Liceo, per questo illustrai anche brani dall'Iliade, l'Odissea, don Chisciotte, e anche testi teatrali di Garcia Lorca (specialmente Il maleficio della farfalla)”. L'opera, essendo in divenire, è incompleta (la maggior parte delle tele è datata 2014) e chissà se l'artista ha in serbo di proseguire anche oltre Genesi.
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Mario Sapia (1942) — Rossano (Cs) L’EUROPA UNITA: IL SOGNO ANCHE DI DANTE
Il primo parlamento europeo si riunì a Strasburgo nel 1979 ed elesse presidente Simone Veil, filosofa e scrittrice francese di religione ebraica, sopravvissuta ad Auschwitz e liberata insieme con la sorella nel gennaio del 1945. Da allora l’idea di una unità europea, lontana dai giochi di potere e dagli interessi egoistici nazionali, ha avuto un cammino non molto agevole e spedito fino ai nostri giorni. Anzi pare che oggi viva stancamente nei discorsi dei politici senza avere più la forza e l’entusiasmo che era proprio dei padri fondatori. Certamente quell’idea di unità non si è radicata nelle coscienze dei cittadini europei né si è incardinata in istituzioni nuove, dinamiche ed animate da uno giusto spirito comunitario. D’altra parte, come si poteva pensare alla realtà di un’Europa «effettuale» se i politici dei paesi membri, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, non hanno avuto la capacità o la volontà di scriverne la legge fondamentale, cioè la Costituzione Europea, per cui il potere resta gelosamente sempre nelle mani dei singoli stati nazionali che perseguono il proprio “particulare” piuttosto che l’interesse della comunità. Per questo le recenti elezioni per il rinnovo del parlamento nel mese di maggio, al di là delle dichiarazioni ufficiali e delle retoriche affermazioni di principi, sono state più un’occasione per verificare i rapporti di forza dei partiti all’interno delle singole nazioni che un’opportunità per alimentare quella giusta e sana dialettica basata su proposte di progetti politici ed economici di ampio respiro. L’europeismo inizialmente ha acceso l’entusiasmo e la mente di intellettuali e politici che hanno creduto nella realizzazione futura degli Stati Uniti d’Europa. Esso affonda le sue origini, afferma C. Magris, nell’humus della cultura europea che poneva al centro il valore universale dell’individuo e di alcuni diritti inalienabili: infatti dalla democrazia della polis greca al concetto di persona del pensiero cristiano, dal diritto romano all’umanesimo rinascimentale, dal liberalismo al socialismo sempre “il protagonista della civiltà europea è l’individuo” nell’arte, nella letteratura, nella scienza. Ma questo humus culturale, evidentemente, non basta per fare di un cittadino italiano o francese o tedesco un cittadino europeo, pur rispettandone le sue radici, le sue tradizioni, la sua storia, perché la diversità è un valore e va difeso quando non è inquinato da becero nazionalismo e da irrazionale purezza identitaria. Sembra che l’unità non rappresenti per alcuni popoli europei un obiettivo ideale e politico utile, ma piuttosto l’istituzionalizzazione e l’imbalsamazione di un’idea bella, ma in realtà poco significativa perché viene mortificata dall’eccessiva burocrazia, dalla crescita di enti inutili, dallo spreco di denaro pubblico, dalla ricerca paralizzante di unanimità che è negazione di democrazia. Il termometro del consenso ad una vera unità europea è offerto dall’andamento della percentuale degli elettori alle urne in questi decenni: nel 1979 ha votato il 61,99 % degli europei, nel 1994 il 56,67 %, nel 2009 il 43 %, e quest’anno la percentuale mi sembra sia scesa sotto il 40%. Questi dati confermano l’interesse generico o scarso dei cittadini per l’Europa: le nuvole dell’euroscetticismo attraversano ormai non solo l’Italia ma anche la 66
Francia, l’Austria, l’Inghilterra e giungono a lambire i cieli dell’Olanda e della Finlandia. Una diffusa atmosfera di pessimismo si accompagna quindi alla retorica dell’europeismo generando incertezze, perplessità, diffidenze. Il rischio, paventato dal card. Martini in un suo articolo sull’Euro, dell’egemonia della finanza e del predominio degli aspetti economicomercantilistici è diventato una realtà. Ecco perché non basta l’unione monetaria per fare l’unità europea, ma è necessario riproporre «il primato della politica» per pensare in grande riconoscendo che al di sopra di tutto c’è l’uomo concreto con la sua dignità da salvaguardare e da promuovere. L’Europa che si dovrebbe costruire non è e non può essere l’Europa dei mercati e dei mercanti. L’euro inoltre ha bisogno dell’unione fiscale e bancaria per completare la costruzione economica e finanziaria. Su questa solida piattaforma dovrà poggiare l’unità politica, funzionale alla realizzazione di un progetto di crescita comunitario, che tenga conto della dimensione morale dello sviluppo, altrimenti questa bella e sospirata Europa sarà come un vertebrato senza spina dorsale, quindi non può stare in piedi. E’ giusto allora tendere anche all’unità culturale intesa come pluralismo dialogante e collaborativo. In questa prospettiva la stessa unione monetaria potrebbe dare libera e piena attuazione a tutte le sue potenzialità. Ma ciò finora non si è realizzato ed anche il cemento dell’euro mostra delle crepe. A questo punto è legittimo domandarsi come mai, nonostante la sua gracile struttura, l’unità trovi ancora oggi tanti convinti difensori. Probabilmente il timore di scivolare nelle sabbie mobili del degrado e dell’inflazione, e, quindi, il pericolo di un comune destino di inevitabile declino induce i 28 paesi membri a rimanere insieme. E pur se gli stati più deboli si sentono condizionati dal peso politico, economico e finanziario dei più forti, esistono significative ed importanti motivazioni ideali che ancora sostengono il fragile architrave della casa europea. L’idea di «Europa» nasce con la storia della civiltà europea, ma anche quella dell’unità, che si afferma dopo la seconda guerra mondiale, ha origini remote. Tralasciando la bella favola di Europa e Giove che appartiene al mito e considerando la parola «europa» come caduta per caso tra le migliaia e migliaia di parole che formano le opere di Tucidide o di Aristotile, bisogna aspettare l’epoca carolingia per trovare nel concetto di Europa l’idea di unità politica e culturale. Questo non vuol dire tuttavia che i popoli europei, riuniti nel nome di Carlo Magno, avessero una coscienza europea. La disgregazione del grande impero alla morte dell’imperatore dimostra chiaramente che l’idea di Europa era generica, approssimativa, legata al prestigio del sovrano e a quello della Res Publica Christiana di cui Carlo Magno era interprete e difensore. A Carlo Magno va riconosciuto comunque il merito di essere stato «il primo creatore dell’unione monetaria europea» scrive G. Vigo, perché ha introdotto un sistema monetario basato su lira, soldi e denari, che è durato per quasi un millennio. L’idea di un’Europa unita comincia ad apparire in maniera più chiara e definita con Dante Alighieri che nel De Monarchia si interroga sulla necessità di un governo universale, sulla missione storica del popolo romano, sulla relazione tra impero e papato e sostiene che l’impero romano, nato sotto il segno della Provvidenza,
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è l’attuazione di un disegno divino. Ogni bene deriva da Dio che ha creato gli uomini e la natura: quindi anche il diritto, che è uno dei beni fondamentali per l’umanità, deriva da Dio (ius in rebus nihil est aliud quam similitudo divinae voluntatis). L’impero romano ha un’origine naturale, perché è incentrato sul diritto, interpreta la volontà di Dio ed è finalizzato al bene comune. Pertanto i Romani hanno costruito il loro impero non con il sangue e la violenza, ma proprio con la forza del diritto. L’espansione dell’impero romano si configura perciò come volontà di estendere il diritto a tutti. Perciò la sottomissione dei popoli da parte dei romani deve essere vista come un’opera di salvezza, di pace e di pietà (“ Romanum imperium de fonte nascitur pietatis”, De monarchia, II, 5). E’ un disegno provvidenziale che si svela nella storia di Cristo, il quale nasce sotto l’autorità di Roma che allora dominava quasi tutto il mondo conosciuto ed è condannato da Pilato, procuratore romano in Palestina. Se l’impero romano non si fosse basato sul diritto, che è un bene dell’umanità, né Pilato né Tiberio avrebbero avuto giurisdizione su tutto il genere umano. Dante definisce Roma “la santa cittade” perché destinata a dare origine all’Europa cristiana con il trasferimento da oriente ad occidente dell’aquila imperiale, che ha consentito quindi a Carlo Magno di essere il degno successore dei romani. L’imperatore, difensore del Papa contro i Longobardi, ha inaugurato «il sacro romano impero in cui l’universalismo politico si amalgamò con l’universalismo cristiano». Così Carlo Magno fa rinascere l’impero romano nel segno della continuità di romanità e cristianesimo. Quando Dante vede che l’universalismo è offeso dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini, tra Svevi e Angioini, che il particolarismo politico avvelena i rapporti tra gli stati mentre la corruzione morale dilaga ovunque, allora sente il bisogno di reagire contrapponendo alla Firenze rissosa e corrotta dei suoi tempi la Firenze del secolo passato che viveva “sobria e pudica” dentro “la cerchia antica” secondo i sentimenti di solidarietà, di pudicizia e di sobrietà che erano in fondo i valori ereditati dall’universalismo di Roma ed autenticati dallo spirito cristiano. Così nasce in Dante la mirabile idea di una monarchia universale che spazia nell’ecumene cristiano e poggia sull’impero, visto come «potere sacrale concesso da Dio ai Romani e perpetuato nella monarchia carolingia e poi in quella germanica». Ecco allora il progetto elaborato da Dante, che presenta comunque qualche venatura di utopia: una diarchia basata sulla coesistenza armonica delle due autorità universali il papato e l’impero, l’uno con il compito di guidare l’uomo alla felicità spirituale ed l’altro alla felicità terrena. Sarebbe tuttavia antistorico considerare Dante “un precursore dell’unità europea quale si viene configurando ai nostri giorni” scrive il prof. Mario Scotto, tuttavia l’europeismo vive nel pensiero e nella poesia del poeta fiorentino come “coscienza di una comune patria ideale”. I confini ideali dell’Europa di Dante Dante canta poeticamente l’impero nel VI canto del Paradiso e indica i confini ideali dell’Europa genericamente con i termini di oriente ed occidente. Il primo è segnato dai monti della Troade («lo stremo d’Europa») da cui si trasferì il segno dell’aquila
imperiale in occidente ed il secondo dalle coste atlantiche della Castiglia «ove surge ad aprire / zefiro dolce le novelle fronde/ di che si vede Europa rivestire». Quella di Dante corrisponde geograficamente grosso modo all’Europa attuale, ma trova il suo limite, oggi come allora, negli interessi e nei contrasti politici ed economici dei singoli stati. In questo territorio dai confini simbolici realizzano la loro cittadinanza civile e religiosa uomini umili e dotti che creano quella dimensione etica e spirituale nella quale vive l’Europa immaginata da Dante e tramandata fino a noi. Anche l’orizzonte culturale di Dante lo possiamo iscrivere in una dimensione europea non solo quando facciamo riferimento alla sua esperienza di poeta lirico, ma anche quando egli si fa storico delle vicende umane, quando si trasforma in giudice inesorabile di personaggi del passato o a lui contemporanei o quando i suoi interessi di filosofo e di uomo colto lo fanno spaziare tra i dotti della cultura europea. A formare la corona dei beati nel Paradiso troviamo, infatti, tra i sapienti nel cielo del Sole, uomini illustri e colti provenienti da diversi paesi, i quali hanno esercitato il loro magistero nell’area europea: da Severino Boezio a Beda, da Alberto Magno di Colonia a Tommaso d’Aquino, dal viterbese Pietro Lombardo, maestro a Parigi, allo scozzese Riccardo di San Vittore, dal meridionale Gioacchino da Fiore, il cui “spirito profetico” dall’acrocoro silano riecheggia nel mondo intero, al settentrionale Sigieri di Brabante, che esercita il suo magistero nella prestigiosa università della Sorbona. Ritornando al tema oggetto della nostra attenzione, ci domandiamo in che senso Dante possa rappresentare un punto di riferimento dell’idea di unità europea, tenuto conto che oggi sono sempre meno i cittadini che credono nell’unione europea. Anzi proprio l’europeismo, nobile idea nata per unire i paesi dell’Europa, sembra che alimenti le spinte alla loro disintegrazione. Esse – osserva G. della Loggia - si vanno diffondendo per uno strano fenomeno di eterogenesi dei fini, per cui «dalla Catalogna alla Scozia, dalla Bretagna alla Galizia, dal Veneto alla Fiandre è ormai tutta un’esplosione di movimenti i quali, partiti con richieste autonomistiche, stanno approdando – o sono già approdati – al separatismo puro e semplice». In questo contesto, quindi, è naturale chiedersi se la parola di Dante possa dire qualcosa al cuore e all’intelligenza degli uomini d’oggi. Noi siamo convinti che la sua voce sia ancora oggi molto importante: essa ricorda che la civiltà europea ha radici comuni che ci riportano all’Europa medievale, all’incontro di romanesimo e di cristianesimo, ai legami di affinità esistenti tra vari paesi europei uniti dai valori di libertà, di giustizia e di solidarietà al di là della diversità di lingue e degli interessi geopolitici. E’ chiaro che tutto ciò non è sufficiente per tradurre nella realtà l’ideale dell’unità. Lo dimostra il grave fenomeno dell’immigrazione che rappresenta un drammatico problema per l’Italia, mentre lascia quasi indifferenti gli altri paesi dell’unione sebbene la crescente presenza di persone provenienti dall’Asia e dall’Africa alimenti un senso ora larvato ora manifesto di insofferenza psicologica e di disagio sociale in tutti i paesi europei sollevando la questione dell’identità sociale e culturale, che viene utilizzata come argomento di propaganda di determinati schieramenti ideologici. Se a questo si aggiunge il fatto che l’attuale crisi economica acuisce i 67
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vari problemi all’interno degli stati, si può immaginare in queste condizioni quale voglia abbiano gli stati europei di dare una mano all’Italia che di fronte all’emergenza immigrati si muove tra spirito di solidarietà e problemi di accoglienza. Insomma dopo decenni di politica e di attività di legiferazione ispirate apparentemente ad interessi comuni, la verità cruda sull’Europa unita sembra essere questa: all’interno di ogni paese europeo ci sono problemi che non interessano un bel nulla agli altri; ognuno è geloso della propria sovranità e difende i valori nazionali, con buona pace degli ideali sovranazionali dei padri ispiratori, a cominciare da Dante. E’ necessario un cambiamento della politica
europea, altrimenti è possibile che il filo della cultura non sia sufficiente a frenare gli appetiti egoistici ed il sogno potrebbe naufragare. Questo ci dispiacerebbe. Ci dispiacerebbe come lettori del nostro sommo poeta, italiano per nascita, europeo per pensiero ed universale per spirito, che ha fatto sventolare per primo la bandiera dell’unità nella coscienza europea; come uomini, le cui radici profonde si nutrono di cultura e di civiltà europea; come cittadini che, senza perdere la loro identità nazionale, comprendono i vantaggi di vivere in una patria più grande.
IN MEMORIAM MAGDA OLIVERO, ALLA SIGNORA DELLA LIRICA
L’8 settembre 2014, a 104 anni, si è spenta a Milano la celeberrima soprano Magda Olivero. In sua memoria riportiamo il testo di Emilio Spedicato scritto in occasione del 100° compleanno della Signora della lirica: Emilio Spedicato (1945) — Milano
LA SIGNORA DELLA LIRICA… (Titolo originale: La Signora della Lirica compie cento anni) Il 25 marzo 2010 il soprano Magda Olivero ha compiuto cento anni, i miei primi cento anni, secondo il titolo dell’articolo apparso su Chi, settimanale popolare di massima diffusione (oltre un milione di copie). Articolo di Roberto Allegri, corredato da fotografie in cui Magda dimostra certo meno della sua età anagrafica, in parallelo con il fatto che come memoria e lucidità mentale i segni del passaggio del tempo sono per lei quasi inesistenti. Cento anni festeggiati da intervista alla Barcaccia, la nota trasmissione su Rai3 di Enrico Stinchelli, e da due puntate dal programma Il loggione, su Canale 5, corredate da registrazioni dei primi anni sessanta dove lei canta in Traviata e Tosca. Cento anni sembrano tanti, ma ricordiamo che fu l’età raggiunta da Ester Mazzoleni e da Adelaide Saraceni, e che Gina Cigna raggiunse i 101; pare che un altro soprano e 68
mezzosoprano italiano abbiano passato i cento da non poco (ma non si chiede l’età delle signore disse una volta Di Stefano rifiutando in un albergo in Messico di scrivere i dati di Lina Pagliughi; e la polizia gli fece poi una ramanzina). Il record di longevità, 108 anni, pare appartenga al tenore Hugues Cuénod, che vive in buone condizioni a Vevey, noto per la strepitosa tecnica che gli permetteva di eseguire i pezzi più difficili della letteratura operistica e liederistica. Ma devo dire, riguardando queste note, che Cuénod è morto a 109 anni a fine 2010, e ora il decano potrebbe essere Licia Albanese, forse anche lei di 108 anni... ma nell’intervista che le ho fatto, non ho chiesto l’età. Diamo alcuni cenni sulla biografia della Olivero, che nel seguito chiamiamo Magda, e la sua arte nel canto. Magda è un soprano lirico verista che affermò, in
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presenza mia e del soprano Anna Maria Cappa, io amo Puccini. E a lei Gilda dalla Rizza, incontrata alla Casa Verdi di Milano, dichiarò se Puccini l’avesse conosciuta l’avrebbe amata più di ogni altra donna. In una enciclopedia De Agostini leggiamo: MAGDA OLIVERO (Saluzzo 1910) considerata fin dagli inizi di carriera nel novero dei maggiori soprani lirici del momento, si dedicò prevalentemente al repertorio verista. Declamato, fraseggio penetrante, toni morbidi e suadenti uniti ad una consumata arte scenica fanno di lei la più grande cantante-attrice verista della nostra epoca. La sua voce, un tempo molto estesa, è di smalto puro, capace di splendide filature e dorate mezze voci, resa più affascinante da una vibrazione che si accentua nei pianissimi. Aggiungiamo che Claudia Muzio, grandissima fra i soprani (fu sedotta dal giovane Onassis che sfruttò le foto con lei per fare pubblicità alle sue sigarette) e usa a recarsi al teatro su una carrozza trainata da cavalli bianchi e coperta di rose bianche, fu chiamata “divina” da Eugenio Montale, che era raffinato critico musicale. Nel libro Stelle della lirica di Stinchelli, fra circa 300 cantanti donne esaminate, la Olivero è l’unica a essere chiamata “divina”. Tullio Serafin affermò, prima del debutto della Olivero, che fra i cantanti ci sono tre miracoli, Caruso, Titta Ruffo e la Ponselle; fra gli altri ce ne sono di bravi. Forse Serafin avrebbe più tardi aggiunto Scialiapin e la Olivero, alla quale disse, dopo un Mefistofele del 54 a Firenze, lei è sempre il numero uno. E quando la Olivero, a oltre sessant’anni iniziò a cantare in USA con enorme successo, Rosa Ponselle si era ormai ritirata (salvo insegnare, anche al nostro grande soprano Adriana Maliponte). Rosa la ascoltò alla radio e le telefonò per dirle il suo apprezzamento. Per inciso noto che le prime celebrazioni della Ponselle in Italia sono previste in questo 2011. Magda era molto amica del grande mezzosoprano Giulietta Simionato, scomparsa nel 2010 poco prima di raggiungere l’età di 100 (o più probabilmente 104) anni. Parlando con Giulietta al telefono, lei definì Magda Signora della lirica. Aveva lamentato che non ci sono più cantanti come quelli di una volta; a un mio cenno alla Olivero disse ma lei non è una cantante, è la Signora della Lirica. Magda è nata a Saluzzo in famiglia di buon livello sociale e culturale. Avviata a una carriera musicale scelse il canto. Presentatasi a due audizioni presso l’EIAR di Torino, fu giudicata priva di capacità come cantante, ma trovò favorevole il maestro Gerussi, erede della tecnica di canto del baritono ottocentesco Cotogni. Sotto la guida sua, e dopo la sua morte quella del maestro Luigi Ricci, Magda eliminò gli errori nella respirazione e sviluppò straordinarie capacità tecniche. Poteva raggiungere il sol sopracuto della quinta ottava (la Callas arrivava al fa; ma Lina Pagliughi e Maria Laura Martorana al la, Beverly Hoch al si bemolle, Wilma Lipp e le cantanti pigmee alla sesta ottava). Eseguiva un’opera senza l’affaticamento dell’organo vocale, ma solo quello mentale e psicologico, dovuto all’assoluta identificazione che otteneva con i personaggi affidati alla sua voce. Una volta, avendo lei cantato in una settimana quattro volte, l’otorino della Scala esaminò le sue corde vocali; e fu stupefatto nel non trovare traccia che avesse cantato! Grazie a questa straordinaria tecnica poté cantare per cinquanta
anni (come pochi, ma non un record, Taddei ha cantato per una sessantina di anni…), e avrebbe continuato se non fosse morto il marito. Magda debuttò nel 1932, cantò nel carro di Tespi organizzato da Achille Starace, e dopo un inizio dedicato al bel canto, si spostò sul verismo, ottenendo immenso successo con la Traviata e l’Adriana Lecouvreur di Cilea. Un episodio va ricordato: dopo una Adriana, quando il camerino si era svuotato, notò in un angolo una signora che piangeva. Questa si avvicinò, la abbracciò, e le disse: finora Adriana sono stata io, ora sei tu. Era Giuseppina Cobelli, grande e bella soprano degli anni venti, che avrebbe lasciato presto le scene, causa perdita dell’udito (aprì una pensioncina sul lago di Garda, morì di tumore nel 1948; una sua biografia esce nel 2011 dopo il casuale ritrovamento di sue lettere, foto e altro a casa della signora che le fu vicina negli ultimi tempi, ora di circa 95 anni). Nel 1941, sposatasi, Magda abbandonò le scene. Nel 1946 Toscanini, che la conosceva via radio, la voleva come il soprano alla riapertura della Scala, ma nonostante una sua richiesta nessuno si curò di contattarla. Fu allora la Tebaldi a vincere l’audizione con Toscanini, venendo lanciata sulle scene mondiali. Nel 1951 Magda rientrò sulle scene, caso forse unico nella storia della lirica dopo un’assenza di dieci anni. Da allora per una trentina di anni fu presente in tantissimi teatri in Italia e all’estero, cantando un’ottantina di opere. Straordinari furono i successi in America, a Dallas e al Metropolitan, dove una sua Tosca ebbe 40 minuti di applausi, record forse assoluto. Il pubblico andava in trance ascoltando la sua voce e colpito dall’aspetto di questa cantante-attrice, dalla figura molto bella, da molti chiamata l’Alida Valli della lirica. Magda ha cantato con Pertile, Gigli, Schipa, Tagliavini, Corelli, Di Stefano, Pasero, Pavarotti, Domingo, Protti, Bastianini, Simionato, Elmo, Stignani… fra i quali particolare è la sua stima per la Stignani, Di Stefano e Corelli. Sul mercato sono poche le registrazioni delle opere in cui è lei, quasi tutte dal vivo e pochissime in studio. Ho conosciuto tale Luigi Cestari, allievo del tenore wagneriano Ettore Parmeggiani, e membro della claque che Parmeggiani dirigeva alla Scala. Cestari ha ascoltato centinaia di cantanti. La Olivero, che in un anno ascoltò sette volte, era l’unica cantante che facesse passare un brivido per la spina dorsale. Ritiratasi dalle scene, Magda ha mantenuto i contatti con il mondo della lirica come presidente di commissioni in concorsi per cantanti. A fine 2007 è partito il concorso internazionale per cantanti “Magda Olivero”. Vincitore della prima edizione un baritono coreano, secondo un tenore giapponese, poi due soprani dell’est europeo. Su circa 180 domande, solo un paio erano di italiani. Ma nella seconda edizione ai primi posti è giunto un soprano napoletano dalla voce molto bella. Il repertorio di Magda, sulla base del suo biografo Quattrocchi, consiste di 74 opere di 44 autori, di cui numerosi autori moderni anche poco noti. Pochi gli autori del Settecento o prima, numerosi i grandi dell’Ottocento, Alfano, Bizet, Boito, Catalani, Ciaikovskij, Giordano, Gounod, Mascagni, Massenet, 69
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Puccini, Verdi, Zandonai… Niente Rossini o Bellini, sebbene ne avesse studiato varie opere e fosse in grado di cantarle.
Al momento in cui termino questo libro* Magda si approssima a compiere 101 anni, lucidissima come sempre....
Questa fotografia è stata scattata nella primavera 2007 durante una visita di Magda Olivero a casa di Emilio Spedicato. N.d.R. Argomento correlato: Emilio Spedicato, Omaggio a due glorie della musica italiana: Arturo Toscanini e Magda Olivero (http://www.unibg.it/dati/persone/636/2682.pdf) In ungherese (trad. di Dr. B. Tamás-Tarr Melinda): Az olasz zene két dicső művéséznek: Arturo Toscanininek és Magda Oliverónak (http://www.unibg.it/dati/persone/636/2682.pdf). Vs. In tante altre lingue: http://www.unibg.it/struttura/struttura.asp?cerca=rubrica&rubrica=1&persona=636&nome=Emilio&cognome=Spedicato&titolo=Prof.
* Tratto dal manoscritto Un matematico ra misteri dell’universo e della storia.
CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA IL CINEMA È CINEMA ________Servizi cinematografici ________
Italia e Ungheria a Cannes
Il 67° festival del cinema di Cannes, dal 14 al 25 maggio, ha nel poster ufficiale l'immagine di Marcello Mastroianni: uno sguardo rivolto alle donne. 70
CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA E le donne appaiono protagoniste di questa edizione del prestigioso festival cinematografico francese. Il cinema italiano è presente con due donne nelle sezioni più importanti: Alice Rohrwacher (le Meraviglie) per il Concorso, e Asia Argento (Incompresa) per la sezione “Un certain regard”. Per i film di studenti (Cinéfondation) è presente Fulvio Risuleo (Lievito Madre). Altri italiani sono presenti nelle sezioni parallele del festival: in particolare, Jonas Carpignano (A Ciambra) e Sebastiano Riso (Più buio di mezzanotte) per la “Semaine de la critique”. È donna la regista ungherese Szőcs Petra (A kivégzés, L'esecuzione), che compete con altri otto film selezionati per la Palma d'oro dei cortometraggi con una coproduzione Ungheria-Romania. Tra l'altro, suo padre Szőcs Géza è attualmente in Italia come commissario ungherese per l'Expo 2015. Per il Concorso dei lungometraggi gareggia il 39enne ungherese Mundruczó Kornél (Fehér Isten, Dio Bianco), già più volte presente a Cannes. Fonte: http://amicizia-italo-ungherese.blogspot.it/
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- Giuseppe Dimola NOV.– DIC./GENN.–FEBBR. 2014/2015
L'ungherese Mundruczó vince a Cannes
Mundruczó e il cane Hagen (Fonte: agenziaradicale.com)
In una delle sezioni dei premi minori di Cannes (Un certain regard) il primo premio, assegnato dalla giuria presieduta dal regista argentino Pablo Trapero, è andato al film White God (Dio Bianco, ungh. Fehér Isten) dell'ungherese Mundruczó Kornél, già premiato In una delle sezioni dei premi minori di Cannes (Un certain regard) il primo premio, assegnato dalla giuria presieduta dal regista argentino Pablo Trapero, è andato al film White God (Dio Bianco, ungh. Fehér Isten) dell'ungherese Mundruczó Kornél, già premiato nel 2008. In questo decimo lungometraggio, Mundruczó descrive un mondo apocalittico di perdenti, dove contano i privilegi. Ma alla fine si intravede la speranza di un mondo più giusto e senza ipocrisie. È la storia, della tredicenne Lili e del suo miglior amico, il cane meticcio Hagen. In una intervista [N.d.R.: agenziaradicale.com], Mundruczó sostiene che oggi: “ Il senso di superiorità è diventato il principale privilegio e valore della civilizzazione occidentale ed è divenuto impossibile evitarne l’abuso.” E prosegue: “È proprio questo atteggiamento che favorisce l’odio e che crea menzogne e semiverità. Che
sembra volere incessantemente addomesticare le minoranze mentre in realtà vuole distruggerle. Che in maniera ipocrita nega le illegalità mostrando di non credere né alla pace sociale né alla possibilità di una coesistenza possibile. Al posto delle minoranze ho voluto scegliere pertanto degli animali come soggetto del mio film, una specie derelitta che è stata una volta amica dell’uomo e che ora è costretta a rivoltarglisi contro pur di far valere la sua esistenza.” Insomma, il film è una critica alla società in cui viviamo in Europa. Un film che utilizza molti generi, dal melodrammatico al thriller, e che probabilmente avrà un successo internazionale grazie anche al produttore ungherese Andrew G. Vajna, quello di Atto di forza, Terminator 3, Die Hard. Il premio maggiore, la Palma d'Oro, va a Winter Sleep, film del turco Yuri Bilge Ceylan. C'è un premio anche per l'Italia: il film Le Meraviglie, di Alice Rohrwarcher, si aggiudica il Gran Prix. Fonte: http://amicizia-italo-ungherese.blogspot.it/ - Giuseppe Dimola -
_________L’Arcobaleno_________
Rubrica degli Immigrati Stranieri in Italia oppure Autori Stranieri ed Italiani d’altrove che scrivono e traducono in italiano
Melinda B. Tamás-Tarr (1953) ― Ferrara
DIARIO D’ESTATE 2014
Prima di andare in ferie consuete ed a quelle cosiddette sabbatiche ho terminato e spedito il fascicolo speciale del 99/100° numero del nostro periodico e ad essa abbinata antologia intitolata Rassegna solenne. Nel frattempo ho avuto un’esperienza emozionante il 2 giugno
scorso, nel giorno della festa della Repubblica d’Italia: durante le festività assieme ad altri insigniti - Carla Di Francesco, Mario Sarno (Commendatore). Andrea Alberti, Diego Del Tufo, Andrea Firrincieli, Giuseppe Gonnella, Giorgio Orsucci (Cavaliere) - ho ricevuto il diploma
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dell’onorificenza del Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (O.M.R.I).
catturato in Croazia nel settembre 1943 e deportato in Germania, a Camel, campo 501; liberato nell’aprile 1945, arrivò a casa in agosto. Nicola Santanatoglia, nato a Treia (Macerata) il 13 dicembre 1910, morto a Portomaggiore il 7 giugno 2000: fu catturato in Jugoslavia nel settembre 1943 e deportato in Germania, a Ottemshiem; liberato nel giugno 1945. (Fonti: La Nuova Ferrara del 3 giugno 2014 e testimonianza personale)
Foto © di G.O.B.
Accanto a me, alla mia destra, era seduto (v. sopra) il signor Armando Pedriali, 89 anni (è nato a S. Agostino il 4 dicembre 1924), che ha ricevuto la medaglia d’onore del presidente della Repubblica come internato nei campi nazisti. Degli internati decorati, egli è l’unico in vita, il solo che può ancora raccontare cosa gli capitò quando aveva vent’anni: «Ricordo ancora tutti di quegli anni, i posti di blocco tedeschi, gli spintoni, la prigionia, le persone, i russi che ci liberarono, ho tutto davanti agli occhi. E adesso siamo qui». Pedriali - come ha ricordato la professoressa Fiorenza Bonazzi, che fa parte del Laboratorio didattico dell’Istituto di Storia Contemporanea - fu catturato dai tedeschi a S. Pietro del Carso nel settembre 1943. Riuscì a fuggire ma venne ripreso a Trieste e deportato in Lituania, quindi internato a Teplis, dove lavorò in una segheria; nel maggio 1945 venne liberato. Le altre medaglie d’onore alla memoria sono state ritirate dai parenti di altri sette ferraresi che vennero internati nei campi tedeschi: Lino Ghesini, nato a Portomaggiore il 21 agosto 1924, morto a Treuenbrietzen (Germania) il 23 aprile 1945, dove era stato deportato da Trieste nel settembre 1943; venne liberato dai russi nell’aprile 1945 e subito ripreso a seguito di una controffensiva tedesca: venne fucilato insieme ad altri 100 prigionieri; i familiari, a causa di un banale errore del nome, seppero della sua morte solo nel 1990. Ario Manfrini, nato a Portomaggioe il 14 marzo 1916, morto il 6 agosto 1988; fu catturato in Albania nel settembre 1943 deportato ad Hannover; doveva anche pulire le camere a gas, una volta si rifiutò e rischiò di essere ucciso; venne liberato nell’aprile 1945. Guido Mazzoni, nato a Ferrara il 16 luglio 1920, morto a Ferrara il 26 luglio 2012; catturato a Treviso nel settembre 1943 venne deportato in Germania, stalag III C; liberato nel maggio 1945. Pasquale Nale, nato a Vescovana (Padova) l’1 aprile 1923, morto a Ferrara, il 14 gennaio 2013; catturato a Gorizia l’11 settembre 1943 e deportato in Germania, dove venne spostato in diversi campi, l’ultimo a Custrim; liberato dai russi nel settembre 1945. Elio Paolo Peverati, nato a Copparo 11 febbraio 1920, morto a Copparo il 14 agosto 1995; fu catturato a Duga Resa (Croazia) nel settembre 1943 ed è rimasto in Croazia per tutta la durata della prigionia fino al giugno 1945. Antonio Rambaldi, nato a Ferrara il 19 febbraio 1913, morto a Ferrara il 2 novembre 1945; 72
Cav. Prof.ssa Melinda B. Tamás-Tarr, il prefetto Dott. Michele Tortora ed il sindaco di Ferrara, Avv. Tiziano Tagliani. Foto © di G.O.B.
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Cav. Prof.ssa Melinda B. Tamás-Tarr, il prefetto Dott. Michele Tortora Foto © di G.O.B.
La spilla femminile del Cavaliere della Repubblica Italiana
Infine ecco alcune immagini della festa del 68° anniversario della Repubblica Italiana:
Sig. Armando Pedriali. Foto © di G.O.B.
Un gruppo degli insigniti. Foto © di G.O.B. OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove ANNO XVIII/XIX – NN. 101/102
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Foto © di G.O.B. NOV.– DIC./GENN.–FEBBR. 2014/2015
Foto © di G.O.B.
Durante l’esecuzione dell l’Inno d’Italia della chiusura cerimoniale dell’onori icenza in cui purtroppo a molti presenti mancava il rispetto, come lo dimostra anche quest’immagine… Foto © di G.O.B.
Vs. anche il sito web http://www.osservatorioletterario.net/consegna-diploma-omri_02.06.2014.pdf. Dopo questa cerimonia mi sono sentita molto stanca sia dall’enorme ed inconsueta emozione di questa grande giornata sia dagli eventi precedenti: il grande impegno della realizzazione dell’edizione speciale della nostra precedente rivista e ad essa abbinata, già citata antologia solenne e la loro spedizione. (Dal 22 maggio gradualmente ho spedito la rivista a tutti interessati, e l’11 giugno l’antologia.) Nel frattempo ho dovuto affrontare a casa mia ad opera nostra la pittura delle pareti del salotto a seguito del corridoio, cucina, bagno e la camera piccola di qualche anno fa. Dal 23 al 27 maggio scorso abbiamo vissuto in una specie di accampamento nella nostra casa. Ecco qualche mia foto di questi giorni: Foto © di Mttb
Dopo quest’accampamento finalmente siamo arrivati a capo e potevo partire il 19 giugno per le ferie… Fino alla fine della prima settimana di luglio ho veramente goduto le ferie dopo tanto affaticamento che ha preceduto questa agognata partenza. Sono riuscita a riposare tra spiaggia, letture e sartoria propria: non avendo con me la macchina da cucire, ho creato dei vestitini interamente a mano alle nipoti di 7 anni e 12 mesi di mia cognata. Eccole: Foto © di Mttb
Foto © di Mttb OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove ANNO XVIII/XIX – NN. 101/102
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Il 26 luglio abbiamo vissuto giorni infernali a causa della disastrosa bufera marina: il vento ha sradicato alberi, anche nel nostro giardino sono caduti pesanti rami di pino ed uno è rimasto e pendolava pericolosamente sopra la nostra testa finché non sono intervenuti immediatamente a tagliarlo. Era spaventosa: nel nostro giardino posteriore invece il gazebo è stato sradicato, e grazie alle corde con cui era ancora fissato, non è volato via. Naturalmente la tromba d’aria ha rovinato il telaio d’alluminio. Siamo riusciti a rialzarlo, però dovrà essere sostituito con un nuovo per il prossimo anno. Ecco le foto che testimoniano questa spaventosa giornata (la bufera ha provocato tanti danni economici ovunque a Lido di Spina, compresi gli stabilimenti balneari ma, per fortuna, vittime non c’erano):
Ramo oscillante tagliato a pezzi dopo quello caduto nel nostro giardino anteriore Foto di © Mttb
Foto di © Alessandra Bonani
Pino con rami caduti e con quello oscillante nel nostro giardino anteriore. Foto di © Alessandra Bonani
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Dopo aver terminato i vestitini sopra dimostrati, e dopo della spaventosa tempesta ho ripreso la lettura ed ho cominciato la selezione delle opere per questo presente fascicolo, e strada facendo ho anche iniziato a redigere la rivista. Come l’estate era abbastanza balorda, non ci ha coccolato con la temperatura da canicola, abbiamo anche progettato qualche gita nei dintorni al nostro domicilio marino. Così in una giornata nuvolosa – il 29 luglio – siamo partiti per il nostro giro turistico. Strada facendo però pioveva, ma non siamo scoraggiati e siamo arrivati a Castrocaro Terme… Siamo arrampicati fino al castello sulla Via Crucis. Però, tornando indietro mi sono scivolata sopra la griglia della fognatura e con le gambe in aria mi sono cascata come un salame: mi sono trovata in un attimo coricata sulla schiena. Ma la cosa è miracolosa: praticamente non mi sono fatta tanto male: mi sono procurata una piccola ferita sul gomito destro che non è stato protetto dall’impermeabile, dato che facendomi sudare ho appena piegato in sù la manica. Ho fatto un po’ più male sbattendo l’osso sacro, che per alcuni giorni facevo fatica a sedermi e rialzarmi e ho fatto un po’ di strappo con la gamba sinistra. Così zomba, un po’ zoppicando ho continuato a camminare, però non ho avuto la forza di arrivare alla prossima tappa programmata. Per fortuna che non ho rovinato completamente la nostra gita. Abbiamo deciso di pranzare in un agriturismo romagnolo, poi fare un po’ di giro nel centro commerciale di Ravenna, in cui ogni tanto avevo la possibilità di sedermi per riposarmi. Così passando questa giornata piovosa siamo rientrati alla nostra casa marina. Per alcuni giorni ho ancora sentito un po’ di dolori, però nel giro di 3-4 giorni tutto è passato. Insomma, sono stata fortunata, questa gita poteva finire molto peggio! Ecco qualche foto scattata in questa giornata:
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Prima della caduta spettacolare, durante l’arrampicata sulla Via Crucis – che è divantata per me proprio la via crucis -. Foto © di G.O.B.
Ecco su cui mi sono scivolata tornando indietro dal castello… Foto © di G.O.B.
Prima della caduta spettacolare, dopo l’arrampiacata sulla Via Crucis Foto © di G.O.B.
Fortezza medievale (X-XVI sec,) di Castrocaro Terme. Foto © di Mttb
Davanti al Castello del Governatore (o Capitano della Piazza) a Castrocaro Terme, dopo la caduta… Foto © di G.O.B.
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Fino a Ferragosto - festività che cade il 15 agosto in concomitanza con la ricorrenza cattolica dell'Assunzione di Maria - i giorni sono passati senza problemi. Alla vigilia, il 14 agosto, dopo la messa prefestiva dell’Assunzione di Maria su richiesta dei familiari ho preparato la cena all’ungherese: lángos - è una specialità culinaria ungherese i cui ingredienti base sono farina, lievito, acqua e sale e viene fritto nell’olio – ed ognuno di noi ha condito o con formaggio grattugiato (emmenthal bavarese che assomiglia di più a quello acquistabile in Ungheria, panna acida da me creata che in ungherese si dice tejföl o con affettati) e palacsinta/palacinta (simile alla crêpes francese) calda riempita con la nutella o marmellata di pesca o con tutte due decorando con la panna montata. (Vs. le seguenti immagini prestate dall’Internet.)
Nel proprio giorno del Ferragosto invece abbiamo pranzato pietanze più leggere. Verso il tardo pomeriggio ho avvertito un senso di nausea a causa dell’odore delle grigliate dei vicini di casa. Ho pensato di aver appesantito lo stomaco, perciò non ho neanche cenato. Però oltre la nausa ho cominciato a vomitare dalle otto di sera ed ho continuato fino alle tre di notte accompagnato da diarrea, mal di stomaco, mal di pancia nell’altezza della vescica urinaria. I dolori aumentavano sempre di più tutta la notte ed il giorno dopo. A metà della mattina del 16 agosto ho deciso di recarmi al pronto soccorso d’un ospedale nei dintorni in cui dopo tantissimi accertamenti accurati mi hanno ricoverata alla chirurgia generale in cui hanno ripetuto accuratamente tutti gli esami già fatti al pronto soccorso 78
aggiungendo altri esami e dopo la cura di un giorno di antibiotici la decisione era: l’operazione. La diagnosi: appendicite acuta, gangrenosa e peritonite. Inoltre hanno scoperto alcune tracce di diverticoli sull’intestino crasso. Così il 17 ho subìto l’intervento di appendicectomia durato di due ore circa. Data la gravità, purtroppo non sono riusciti ad estrare l’appendice con un piccolo taglio. Ho un taglio gigante – ho avuto 20 punti – sull’addome, come gravità è equivalente con il taglio cesareo. Mi hanno detto di aver rischiato tanto. Ad un pelo che non ho varcato la soglia dell’aldilà… Per fortuna la barca di Caronte – finora – è rimasta senza di me… Oggi, il 17 settembre è passato un mese che mi hanno operata. Sono stata ricoverata dal 16 al 27 agosto. La mattina del 27 mi hanno congedata. Ho avuto un'impressione molto positiva dal mio arrivo al pronto soccorso fino alla mia dimissione del 27 agosto scorso. Ringrazio tutti i medici, inferimiere/i, operatrici/operatori sanitari per la cura prestatami prima e dopo operazione. Soltanto un piccolo neo faceva un eposodio isolato del 19 agosto: un’operatrice sanitaria nel momento del cambiare la biancheria del letto bruscamente spingendomi per girarmi a fianco mi disse: «Su bella, girati!». Quando Le ho detto, «mi dispiace, faccio tanta fatica dal dolore» così mi ha risposto: «Ma dai, da un piccolo intervento di appendicectomia!» Però l’ha illuminata che quel «piccolo intervento» non era tale, anzi era pesante con venti punti… nei giorni successivi ha cambiato il suo atteggiamento, però non mi ha chiesto scusa. Un'altra cosa: avrebbe potuto fare meno di emettere grandi sospiri e commenti ripetuti «Oh, Dio mio, il lenzuolo è sporcato. Mamma mia!». Un degente ostacolato nella sua autonomia e nei suoi movimenti a causa di una fresca, grave e pesante operazione si sente già in forte disagio ed assoggettato e perciò certe azioni fisiologiche non riesce a controllare, particolarmente nel sonno, non è colpa sua. L’operatrice sanitaria – anche se il suo lavoro è pesante e se si sente anche frustrata – non deve far ricadere le sue frustrazioni sui pazienti. Peccato che questo piccolo neo si è presentato a due giorni dall’intervento chirurgico. Per fortuna, tutti gli altri del personale ospedaliero dal ruolo basso fino all’alto livello hanno dimostrato alta professionalità e grande umanità nei confronti di noi degenti. Durante la mia convalescenza, dopo i controlli prescritti ho eseguito me stessa la medicazione delle ferite – l’enorme incisione ed il buco del drenaggio – ed ho imparato ad effettuare a me stessa le 12 punture per la circolazione…
La siringa con ago corto prima e dopo la puntura…
Ora eccomi per terminare questo resoconto e redigere la rimanente parte del presente fascicolo nel mio domicilio marino durante la mia lunga convalescenza. Probabilmente rientrerò a Ferrara tra il 23 e 30
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settembre. Il 20 dovrò ancora ritirare l’esito dell’esame di sangue ulteriormente prescritto dal dottore delle medicazioni e dei controlli effettuati.
Insomma, tutte queste disavventure non sono state programmate per le ferie e per il periodo sabbatico. Anzi, il 27 agosto avrei dovuto ospitare una mia sorella minore col marito, però ella, un mese prima del loro arrivo ha fratturato una caviglia mentre faceva passeggare loro cane. Così la loro accoglienza anche quest’anno si è sfumata... Poi toccava a me: prima il mio preludio del Castrocaro Terme, poi l’involontaria avventura ospedaliera… Comunque poteva andare molto peggio. Ringrazio Dio che sono ancora qui ed ora ho rivalutato tutto: tutte le relazioni umane, tutta la mia vita e cercherò di realizzare tutto quello che sono chiamata o destinata da fare in questa mia esistenza terrena… La mia vita è nelle mani dell’Iddio, anche stavola era clemente con me e ne sono infinitamente grata!… (17 settembre 2014)
APPENDICE/FÜGGELÉK
____ Rubrica delle opere della letteratura e della pubblicistica ungherese in lingua originale e traduzioni in ungherese ___
VEZÉRCIKK Lectori salutem!
oldalakon:
Mint ahogy látható a edőlapon, az előző 100. számú periodikánk alkalmából sikerült megvalósítani az ünnepi antológiát is. Aki szeretné, megrendelheti bármikor az előző folyóiratszámukkal egyetemben az alábbi verziókat az alattuk jelzett web-
RASSEGNA SOLENNE, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2014, színes, kemény kötés, 77,50 €: A szerkesztőségen keresztül, RASSEGNA SOLENNE, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2014, fekete/fehér, puha kötés, 30 €: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1065921 RASSEGNA SOLENNE, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2014, Kivonat/, fekete/fehér, puha kötés 14,50 €: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1071790 OSSERVATORIO LETTERARIO NN. 99/100. az eredeti speciális, színes kiadás második kiadása 35 € http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1063990 Az összes 2009-től megjelent kiadvány: http://ilmiolibro.kataweb.it/community.asp?id=74180 Ezekkel az ünnepi kiadványokkal a folyóiratunk 100. számán kívül nagykorúságát is ünnepelhettük, hiszen betöltötte a 18. esztendendőt. A vaskos, 640 oldalas ünnepi antológia majdnem 50 – magyar és olasz – szerző alkotása olvasható 12 klasszikus és 37 kortárs tollából. A kötet első, 558 oldalas részében olasz nyelven olvashatók a művek, míg a fennmaradt oldalakon, a második részben magyarul. Az abc-sorrendben megjelentetett szerzők neve alatt versek, elbeszélések, esszék, cikkek olvashatók. Mivel ezeknek az ünnepi kiadványoknak a megjelentetése és szétküldése hatalmas kiadással
járt, ezen számunk éppen ezért az előző számunkkal ellentétben kevesebb oldalszámmal jelenik meg. Az évi rendes- és alkotói szabadságra indulás előtt kellemes élményekben volt részem. Az egyiket az Olasz Köztársaság Ünnepén, június 2-án rendezett ünnepi ceremónián való részvétel jelentette, amelynek keretében átvehettem a lovagi kitüntetésem oklevelét. Felejthetetlen élmény marad életem végéig. Erről az eseményről is az „Arcobaleno...” c. olasz nyelvű rovatban lehet látni egy képes beszámolót. A második élményt az Oszk részéről kapott kellemes meglepetés jelentette: elektronikus levélben értesítettek – az olasz nyelvű vezércikkemben eredeti nyelven olvashatják - , hogy újabb ajándékköteteket szeretnének nekem küldeni. Közös megegyezéssel erre végleges hazaköltözésemkor kerül sor. Hogy mely kötetekről van szó, azokat szintén az olasz nyelvű vezércikkemben tanulmányozhatják. Sok szeretettel ajánlom ezen számunkat, kellemes olvasást, áldott karácsonyi ünnepeket, boldog új esztendőt és első sorban jó egészséget kívánok minden kedves Olvasónak! Viszonthallásra tavasszal, márciusban! - Bttm -
LÍRIKA Bodosi György(1925) ― Pécsely
BODOSI GYÖRGY TÚLVILÁGI BOLYONGÁSAI Rövid eposz alexandrinusokban I. Ének Midőn megérkeztem a Végállomásra És utolsót dobban a szívem a mellkasban Az ki készen áll a messzibb utazásra, Elindul lelkem a végtelen világba. Se túl jó, se túl rossz nem voltam, a strázsa Bebocsát, de jelezve, a palotában
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Nem készült helyecske sok szép traktusában Neked, de meglehetsz külső udvarában. Beférsz oda te is, míg békén léssz, társa Lehetsz csillagoknak, pislákoló lámpa. Többre nem is vágytam, hát gyerünk csak hátra. II. Ének Ott mindjárt ténykedek. Varkocsát a Holdnak Meg is igazítom, fonva koszorúnak. Búzamagot bőven szórok Fiasztyúknak És míg rajta járok buckáit Tejútnak Eligazítom, meg ne botoljak. Fend ki a szerszámod fényes kovakővel, máskép nem bódogúsz a tengernyi fűvel meg a száz kóróval – mondom a Kaszásnak Segítek is néki egy-két suhintással. Terelgetném ezt a véghetetlen nyájat Szegődnék szívesen – ingyen – kisbojtárnak. Hun van a kezdete? – a Jó Isten tudja. Vége is hun? – Legyen csak az Ő Szent Titka! Meg megállva néha nézem kik mint igyeznek, A Vízöntő magát miként veti közbe, Bikaszarv Kosszarvval ne akadjon össze. Rászólok a Rákra, ollóját ne nyissa És ne birizgálja bajuszát Leónak! Az kegyetlen kerál csak a prédát várja. Hallgatok csak inkább. Egy szigorúbb szentnek Még majd szemet szúrok. Abból nagy baj lenne. A siralmas Földre visszapenderítne, Vagy ami még rosszabb Égetőbe vetne. III. Ének Jobb lesz nézelődni csak, még ott is odaát Látom tárt kapuját a nagy istállónak. Betévedek oda, Istállófiúnak Szegődnék szívesen, tán ki csak nem rúgnak! Nagy Sándor lovára rá se hederítek. Sárkányölőé fúj, de mégsem ijeszt meg, Szent László lovának intek csupán egyet, Aztán észbe veszem, hisz tom’ kit keresek. Szólít Pegazus, de nekem Ő sem kell Nyargalásszon hátán más ha tud – ez eccer! Ráró, mokány lovacskája Csaba úrnak Tüstént elébem állt, mihelyt meghallotta Nevét, és felfigyelt az édes szavakra, az oly régen hallott magyar mondatokra. Megsimogattam, s bár ragyogó tiszta volt a szőre, megcsutakoltam. Hagyta. Szívesen hallgatta hogyan becézgetem S ráfigyelt arra is amire megkértem. IV. Ének Azt várta, pattanjak hátára és vele Nyargalásszak. Ki a csillagvidékre Míg kantárak és nyergek közt válogattam – Rengeteg lógott ott kampókra akasztva – 80
Másra tereltem a szót. S neki azt mondtam: Nem vagyok én otthon a benső szobákban De te mindenről tudsz, hisz ezért vagy Táltos, Grádicsokon lépdelsz, kulcslyukon is átjutsz. Tanáld fel az úrfit, s riaszd föl az álmát Ne alussza mindég. Igen-igen várják. Hegyek közt völgyekben folyóvizek mentén Nagy városokban és tanyákon szintén. Hát eridj, ébreszd fő! És ha mélyen alszik Húzogasd gyöngéden vállánál az Úrfit! Legyen nagy álmának most már eccer vége, Hisz világgá széled, szerteszéjjel népe! V. Ének Hallgatott rám Ráró, s elnyargalt sietve Palotának eránt, hogy Csabát felköltse. Én meg várogattam, abban reménykedve Nem tér vissza mingyá, előbb mennek tán, Ama szép hazába, mely minket is dajkált, Hun gyönyörű beszédünk anyák tanítják. VI. Ének Kiléptem, s kicsinyég ballagva az égen Majd bele ütköztem a Göncöl szekérbe Annak a rúdjába kupám jól becsaptam Láttam csodát mikor szemem kinyitottam. Tizenkét szép angyal segített rakodni A szekérre, tüzelőfát, lisztet, krumplit, Szalonnát és hagymát, kulacsban borocskát. Tudtam, nem kérdeztem, hogy kinek szánják. Attó sem kérdeztem, ki a címzést írta A legkisebbiktől. Egy pufók angyalka Vót ez, ült, de ha állt nagyobbacska Lett. Zsákokra írt. Név, helység, ucca Mind föl lett tüntetve. Ügyelt, el ne rontsa, Nehogy illetlenek kezébe kerüljön. Az mind, aminek csak a szűkös örüljön. Nagyeszű volt e kis angyalka, azért Mert hogy fejbő’ tudta valamennyi címzést. VII. Ének Beálltam közébük én is, hogy segítsek Bíztattam, gyorsabban, ám ők nem siettek Hiába mondtam hány éhes száj vagyon lent. Ők csak komótosan, kényelmesen rakták Göncöl derekába, bár abba nem hatták. Közben mondogatták: ha nincs kész hónapra, Indul hónapután. Van annak rá gondja, Aki a világot innét igazgatja. Aki mindent lát, tud, el fogja rendelni, Hogy odalenn éhes ne maradjon senki. Még csak arra kértem a sok szárnyas szépet: Ha majd lerakodtak, s ide visszatérnek, Ne üres szekérrel gyűjjenek már vissza! Vessék ki hálójuk sok hízott gazdagra, Hijják varázslatos útra, kacsingatva!
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Aztán, mikor az Ég tetejére érnek, Fordítsák meg gyorsan rúdját a szekérnek! Lökjék ki mind őket a Büdös bugyorba! Ahol az örök tűz perzsel, s meg van írva, Ott fognak szenvedni, reszketve, vacogva. Epilógus Belefáradva a hosszú rakodásba Visszasompolygok az istállós szobába Ráró ott vár ébren. A fülét hegyezve Vár: valakire, hogy nevét kiejtse Míg megcsutakolom, faggatom suttogva: Rávennéd magadat, arra a nagyútra Még eccer? Hátadon, bármi legyen ára, Ha csupán egy napra, csak egyetlen órára, Egy szempillantásra. Legyen bármi ára! Visszatérnék ama gyönyörű hazába, Nézni, virágzik-e valahány tája, Mer fődön, se égen, sehun nincsen párja! Cs. Pataki Ferenc (1949) ― Veszprém
IMÁDKOZZ ÉRTEM IS
Márfi Gyula Érsek Atyának
Nem tudom, a Mennyben is volt-e ünnep, de fogadd őt a szentek közé szentnek. Ajkunkon mosoly, hálaadó ima –és ének, méltó utód, ki közülünk most avatta szentnek. Karol és II. János Pál -egyazon ember-, s benne mennyire valós és milyen magasztos az Isten. Mintha te jártál volna újra itt a Földön, -Atyánk által teremtett kis gömbön-, hogy átgondolják a hozzád mért kétezer évet, hogy megértsünk, hogy értve kövessünk téged. Hogy élő legyen az elrendelt Tízparancsolat, -az életünk meghatározó legfőbb tíz gondolat-, s aztán te eljöjj közénk, élő, igaz igének, hogy értelmet adj e rövidke földi létnek. Itt, hol annyi a szenny, a halál, a kiontott vér, a milliárdnyi koldus, a nincstelen szegény, anyák ölén a gyermeki-jaj, a menekült áradat… Csak a szeretet oldja fel bűneinket az egységes ég alatt. A cselekedet számít, a hazug imában nincs erény, megláttuk benne: te több vagy, mint áradó remény. Kell, hogy tudjunk megbocsájtani, és másoktól kérni azt, mert fájdalmainkra, könnyeinkre te nyújtasz vigaszt. Humanistákhoz szólt, és akinek lelke más hitben ég, hogy okuljon felnőtt hibáinkból az ifjabb nemzedék. Utolsó kísérleted volt, hogy megmentsd a világot? Emeld magadhoz őt, a köztünk járt Újtestamentumot. Ki hallotta vagy látta, Uram, téged benne látott, -s ha kérné-, váltsad meg újra e tékozló világot! Nem tudom, meddig ér el egy egyszerű kis költő szava, - ha hallasz -, imádkozz értem is, Szent Karol Wojtyla! BŰNTELEN GONDOLAT Mélyre ástam magamba vermet, hogy átkutassam e magányos, néma termet, hogy megértsek minden
sejtet, mely bennem él –és éltet. A gondolat útvesztőin át, eljutva az első ősi sejtig – s a bölcsőig tovább-, hol az elemek az ősrobbanás titkát rejtik. Tizennégy milliárd éves matuzsálem anyag, mit szétszórt az ősenergia a pillanat törtrésze alatt, s ott rohan a térben, hogy a gravitáció galaxisokba törje, s hogy belezuhanjon a vele együtt született végtelen időbe. S te hol voltál Uram? Benne az ősanyagban, s te repítetted szét, aztán megcsodáljad, hogy teremtett világod mennyire szép? Vagy kívülről alkottad a parányi morzsát, hogy a programodba írt törvények szétszakítsák? Öröktől fogva nincs intervallum, melyben ne volna külön időd –s tered, hisz, e háromdi[menzióban is csak együtt létezünk veled; a csillagrendsze[rek örök mozgása képpen, Napunk körül keringve a mindenség Tejútrendszerében. Négy –és félmilliárd éves tanyánk a Föld, melyet - hogy rajta megszülessünk-, a korszakok evolúciója hányszor meggyötört. Mennyi va[júdás az anyag rejtekén a mélyben, hogy az élettelen atom egymással fúzióra lépjen, s a molekula – mely addig mozdulásra csak önmagában képes-, sejtté érlelődjön egy másfajta, értelmes létezéshez. Hogy irányítottan, a körülmények kényszere alatt, bennünk ébredjen tudatá[ra a tudattalan anyag. Mennyi évmillió, mire a fejlődés csúcsára hágtunk, s hány ezer év, mire Téged – az [Igaz Istent – megtaláltunk. Uram! Ugye nem bűn a gondolat, mely a Szentírásban megragadt, melyben bennem va[lami mást is sejtet, hogy a betűk mögé a valóságot rejted, [hogy Teremtésed hétnapnyi csodája, a milliárdnyi évek héttel osztott állomása. Korunk kíváncsisága, a ránk zúdult információ, a múltat kereső számtalan lelet… Engedd csak – ha néha ellentmondva is -, hadd szolgálják szel[lemed. Ki önmagába ás, és az életet benned kutatni képes, vigyázz reá, hogy teóriája ne legyen vétkes! Minden sejtemben hordozom a programodba írt valósá[got, de hagyjad, hogy arcodról lemossam, a hozzád méltat[lan hasonmásod.
Elbert Anita (1985) ― Székesfehérvár
A FEHÉR CSEND SZÁRNYAI
Fehér csend lobogtatja a lét Szárnyait, reszketve benne Szelídség, mely kibontakozik, Akár virág a bimbóból, s lépte A türelem oltárát eléri. Papírból fehér galambot hajtogat Az ég, hullnak a harmatcseppek, Kis tó lesz a földön belőle, Ebbe csobbanva bele a papírgalamb, Elmossa az idő, s semmi se lesz, Elhalkul lángnyelve. A fehér csend repedezett szárnyaira Fekszem, oly jó a hangtalanság,
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Lebegve szállok, repülök a magasban, S közben gondolatáramom megáll. Mintha egy nagyot sóhajtott volna A halál, fehér kezeivel megsimogatja Fejemet, s szárnyak csattognak, A feltámadás útját megnyitották Előttem. Tiszta hófehérben Állok, és merengve bámulom A holdat, és a csillagokat, Trapéznyi helyen topogok, A kerítés már készen van. Zokog a fehér csend, Hosszú könnycseppjei Az aszfaltra hullnak, Kikerekíti, szolgálva A népeket, a tisztaság Leplében. Elrugaszkodik A némaság oltáráról A fehérség, nagyot ugrik, Majd megáll, a csend Keretezi be életét, Mint egy csokor virág. Vázába tűzi az égboltot A fény, a fehér csend Megbújik, lappang A hangtalanság, Majd szétfeszített Szárnyain bebarangolja Velem a kozmoszt. Székesfehérvár, 2014. április 26.
Gyöngyös Imre (1932) ― Wellington (Új-Zéland)
Szabó Lőrinc fordítása Szemem a festőt játszotta, s szívem lapjára karcolta be arcodat; ott most testemmel én keretezem, s a távlat remek művészre mutat, mert, hogy hová tett, azt is látni kell a képpel együtt s a művészen át: keblemnek állított boltjába, mely szemeiddel ablakozta magát. Már most, nézd, szemet hogy segít a szem: az enyém rajzolta meg másodat, s a tiéd szívem ablaka, melyen gyönyörködni rád-rádmosolyg a nap. De egy varázs nincs meg e bölcs szemekben: csak a láthatót festik, szívedet nem. Gyöngyös Imre fordítása Festőt játszó szemem szépségedet a szívem táblájára véste át, hol testem rámázza s ez a keret biztosítja a műnek távlatát. A festő szemszögéből kell kutasd a kép helyességét, s hogy megtaláld: keblem képcsarnokában tárlom azt, s ott fénymázát szemed csillogja át. Mit tesz: „szemet szemért" - most láthatod: az én szemem megrajzolt, míg tiéd bennem a napnak vágott ablakot, hogy azon lesse formád remekét. Művész szemlátomása lesz a rajz, nem ábrázolja, mit a szív felajz.
SHAKESPEARE-SOROZAT XXII.
Gy.I. megjegyzése:
William Shakespeare (1564–1616)
Shakespeare 24. Sonnet
Mine eye hath play'd the painter and has stell'd Thy beauty's form in table of my heart; My body is the frame wherein 'tis held, And perspective it is best painter's art. For through the painter must you see his skill To find where your true image pictured lies, Which in my bosom's shop is hanging still, That has his windows glazed with thine eyes. Now see what good turns eyes for eyes have done: Mine eyes have drawn thy shape, and thine for me Are windows to my breast, where through the sun Delights to peep, to gaze therein on thee; Yet eyes this cunning want to grace their art: They draw but what they see, know not the heart.
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Ez megint egy eléggé banális, slágerszövegnek is beillő kép, amit Szabó Lőrinc sem vesz komolyan. Erre enged következtetni a kilencedik sor „Már most" kezdete, ami egy komikus monológban szokás szerint valami humoros csattanót készít elő. Az angol szöveg azonban teljes komolysággal kezeli az eléggé émelyítő képet. Egyébként a humort a kilencedik sorban a „szemet szemért"- re való utalás képviseli, de a Bárd szövegében nem érezhető semmi komolytalanság, amit Szabó Lőrinc negyedik sorával éreztet olyan öngúnnyal, ami az eredetiben nincs. A hatodik sorban a „your true image" az egyetlen modern névmás használata csak egy olyan általánosságot jelent, ami nem a kedvesre vonatkozik, akihez az egész szonett íródik, mert hiszen minden más helyen a régies „thou"-t és annak megfelelő ragjait használja. Az a gyanúm, hogy azokban az időkben a szenvedőt használták inkább és az a modernebbnek tűnő kifejezés, hogy „one does not do that" még nem létezett, ahol az alany megnevezése nem annyira fontos, mint az állítmány. A magyar megfelelője talán: „Ezt nem csinálják." Ugyanígy a hatodik sor modernizált formában: „one's true image" lehetne. Egyébként Szabó Lőrinc az ötödik sortól a nyolcadik végéig nagyon szabad átírást használ!
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Hollósy-Tóth Klára(1949) ― Győr
REGGELI ÁHITAT
Ezeréves béke, csend, nyugalom! álmodom, ahogy Te, csendbehaltan, suttog az erdő, neszez fuvalom, ahogy ezer éve, most és hajdan. Fény-árny játszik a csend sugárlantján, álmodik a lélek, a hit, a vágy, téged áld Uram sajátos hangján, ez Ős- Halom maga a szent magány. Áramlik a csend, s én elmélkedem, áldott hely ez itt, Isten közele, valamiért bűnhődöm, vezeklem, imáimba feledkezve bele. A hő áhítat némán csodálja Uram, a te hatalmas művedet, az ember keresztje terhét állja, amíg az útja hozzád elvezet.
EGYÚT SZONETT
In memoriam Balogh László Imre
Feledd a pénzt, mert a múltba záró Hiány is csak zsarnoktépelődés, Mit életünk vágya sző önmagáról, Ha balga ész az üres zsebre néz. Oly kép, és látomás ez, mely a Jangból Törhet át, mint felhők között a fény, Augusztusi, késő alkonyatkor, Ha szivárvány gyúl életünk egén. Lebegő Jin felett káprázat lebeg, Hegyek, távolban vitorlák ködlenek, És felfoghatatlan életöröm Sugárzik át az opál vízkörön – Kialszik a látvány szülte képzelet: Jin-jang együtt írja már versemet. Pete László Miklós (1962)― Sarkad
ŐSZ MOSOLYA
Bámulom hatalmas Úr létedet Én, a véges életű zarándok, Te állsz Istenem mindenekfelett, Légy örökre érte százszor áldott!
Ősz mosolya hallgatag; Semmiért kell lebontani A Múltat, A szép Nyarat.
Engedd megköszönnöm az életem, mély hálával hullok le most eléd! Tőled van reményem, az értelem, s a hitem is, melynek csak mécse ég.
Egész világ bánatos, A táj dekadenciától, Elmúlástól Harmatos.
Bízom benned, remélek Istenem, Bárhogy törnek is rám a viharok. Hallani vélem ígéretedet: Ne félj! Hogyha hívsz, melletted vagyok!
Nyirkos őszi paszomány; Ősz nevében elvetendő Minden régi Hagyomány.
Horváth Sándor (1940) ― Kaposvár
Ősz mosolya éteri; Magát mindig okosnak és Haladónak Képzeli.
ALKONYI SZONETT M R Rilke: Este parafra
Várja az alkony éji nász ruháját, Mit terhes árny sziréne hoz elé, Hiába nézed eltűnő alakját, Itthagy a táj, úszik az ég felé. Elfogy a Nap: varázsa, éjbe hullva, Már nem oly forró, mint ifjúi nász, Mikor tavaszvágy hívja dalra gyúlva, Holdnővér egy költővel éjszakáz. Körös-körül tündér maják kacagnak: Ámulva kérded, hol voltak tegnap? Jaj! Feledd el, kit tetemre hívtak! Szobor, vízpart, szép nő mind rádköszöntek, Már hiába, nyoma sincs örömnek, Feledni kell, mert elfogytak a könnyek!
Ősz mosolya hatalom, Sose lesz itt rajta kívül Semmilyen más Uralom. Ősz mosolya: rossz jelen; A világban ő egyedül Az igazi Posztmodern.
Szirmay Endre (1920-2013)
MINDEN LOBOGÁS
A kövek közt a virágok mind megfeke[tedtek, Az álmok ízei a számban megkövesed[tek; Ájult hitemre rátérdelt a megszokás, a törvény, Várnál, de elsodor a habosan zuhogó örvény; Kiáltanál, hogy megoszthasd sovány örömöd mással,
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Futnál hogy megbékélj a fekete mozdulatlansággal; Bizonyos már, hogy az időt nem fogja vissza semmi, Siklik a tér, nem lehet, csak előre menni, Mozdulataidat az ész és indulat még rendbe fogja, Vágyaidat a szíved híven visszadobolja, Hiszen már látod, hogy emberek szabta emberséged, Másokkal mér és másokkal azonosít régen,
Arcán végig, Le a földig. Fejét csóválta csendesen És nem szólt, vagy néhány percig. S áldást osztva ment az Isten Csónakjával Fehér árral Ó-berekre, vad vizekre, S mi csak néztük sóhajtással.
A láthatatlan csillag pályája neked is törvény, Amit nem bont meg ember alkotta önkény, Minden lobogás úgy adja vissza fényét, Ha a mindenséghez emeli fázós reményét. SIENÁBAN
Forrás: Tolnai Bíró Ábel, Vita hungarica, Edizione O.L.F.A. , Ferrara 2011. II. Kiadás
PRÓZA
Tégla, kő és márvány foglalatban őrködik a múlt a völgyek felett, Romulus farkasa vonít a dombok alján, az ifjak ajkán kürtök zengenek. Karcsú szentek lépnek le a képről, messze vad lovasok árnya kavarog, a sikátorokban lángol a homály, etruszk lándzsás kopog a falakon; csonka tornyok, árva templomhajók, gigászi tervek kőbe törött szárnya; torzó város ez! – minden történelme az ember hősi vágyait példázza. Mintha otthon járnám a zselici erdőt, vagy Fonyódnál hallgatnám a vizet; történelem mozdul minden moccanásban, de a mi múltunk nem kővel üzen; nem toronnyal, szelíd freskóképpel, elsöpört itt mindent az áradat; csak szívünk őrzi emlékét és vágyát, ami Sienának itthon megmaradt.
Tolnai Bíró Ábel (1928) ― Veszprém
ISTENRŐL ÁLMODTAM AZ ÉJJEL
Glóriásan jött az Isten Csónakjával Fehér árral Ó–berekről, vad vizekről, S mi fogadtuk sóhajtással. Nem hangosan, nem dobszóval, Csak egyedül, Idegenül, Némán, mint mi, bús emberek, Akik vártuk seregestül. Megállt szegény, s körülnézett: Öreg szeme Lábadt könnybe, Mert becsapják a világot, S mert az ember rabszolga se' – Gyöngyözött le öreg könnye 84
Dombóvár, 1950. április 12.
B. Tamás-Tarr Melinda (1953) — Ferrara (It) NYÁRI NAPLÓ 2014
Május 22-től postáztam az előfizetőknek és a külön megrendelőknek az OL 99/100. ünnepi számát, majd június 11én az ehhez kapcsolódó 640 oldalas ünnepi antológiát. Siettem ezeknek a kiadói produktumoknak a kiadásával és postázásával, hogy június 19-től rendes évi- és tanulmányi szabadságra mehessek a tengerparti nyaralónkba. A rendes évi szabadságom jól sikerült, a nagy hajtás után igazán pihenhettem, strandolhattam, sokat olvashattam, emellett sógornőm 7 éves és a 12 hónapos leányunokáinak nyári ruhácskákat varrtam nagylányom hasonló korú időszakából megmaradt kartonokból. Mivel a varrógépem Ferrarában maradt, mind kézzel varrtam és nagyon élveztem. Mellette hallgattam a Capo d'Istria Rádiót, ami valóban kellemes társaságot jelentett zenével, igazi kulturális műsorokkal, megfelelő mértékű híradással. Több olaszországi kulturális, irodalmi- és egyéb rendezvényről és eseményekről szereztem tudomást, mint az agyonpolitizált, veszekedős olasz RAi adóinak hallgatásakor, amelynek során csak felhúzom magam... Ezután, mivel ez a furcsa nyár, ami igazán nem volt nyár, inkább csapadékos, őszies évszak, hozzáláttam apránként a folyóirat ezen számába az anyagválogatáshoz és az apránkénti szerkesztéséhez... Közben, július 26-án borzalmas ítéletidőt éltünk át: gyökerestől hatalmas fenyőfákat szakított ki a hurrikán. Nem messze a szomszédunkban a gyökerestől kitépett fenyő a mellette lévő épületkomplesszumra dőlt. Szerencsére emberi életben nem okozott kárt, de nagy anyagi károkat igen. A mi udvarunkban is hatalmas gallyak szakadtak le - szerencsére nem a fejünkre - s ráadásul még fent maradt, himbálózó óriási fenyőág veszélyeztette mind a járókelőket, mind bennünket. Azonnal intézkedtek a túzoltók, a polgárvédelem és a környezetvédelem, s hozzáláttak a veszélyes ágak lefűrészeléséhez és a fenyőroncsok eltakarításához. Ezek után a borús és kissé csepergős időszakban kisebb kirándulásokat terveztünk. Július 29-én
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Castrocaro Terme - gyógyfürdő - várát tekintettük meg. Csakhogy, itt a várból lefelé haladva, a hosszú szennyvízcsatornán megcsúsztam - a teniszcipőm sarkával éppen ráléptem, pedig direkt ügyeltem, hogy átlépjem - megcsúsztam, elvesztettem az egyensúlyomat és lábaim az égnek meredve hanyattvágódtam. Mivel esőkabát volt rajtam, csak a jobb könyököm horzsolódott meg egy kicsit, mivel éppen előtte kicsit feltűrtem, mert melegem lett, izzasztott a műanyag köpönyeg - ld. a fényképeket a 71. oldalon kezdődően az olasz nyelvű „Arcobaleno...” c. rovatban: az esésem előtti képem a várba vezető feljáraton, a bűnös hosszú csatornafedél, majd az esés után, a Governatore váránál (itt nem is látszik, hogy a nagy esésem után vagyok) -... A várba vezető Via Crucis (Keresztút) utcában történt, ami valóban keresztutammá vált... Jól megütöttem a farkcsontomat, s a bal lábam kicsit meghúzódott, de szerencsére nagyobb bajom nem esett. Néhány napon belül helyre jöttem, már rendesen tudtam járni és leülni és felállni, lépcsőn járni. Hála Istennek nem tört el semmim!!! Pedig hát nagyot huppantam.. Ezzel befellegzett a további kirándulás. Éppen ezért úgy döntöttünk, hogy egy agriturizmusban megebédelünk, s a ravennai üzletközpontban körülnézünk, ahol időnként le lehetett ülni, így pihenhettem időnként. Szerencsémre azért, ha lassan is, de tudtam járni, s nem rontottam el teljesen a kirándulási programot, amelyet a sógornőmmel és férjével együtt terveztünk... Ezek után augusztus 14-ig minden incidens nélkül teltek a napok: rengeteg olvasással és anyagválogatással töltöttem el a napjaim egybekötve egy-két tengerparti sétával... Augusztus 15-e előestéjére a gyerekek (lányom és vőlegénye) és férjem kérésére palacsintát és burgonyás lángost sütöttem vacsorára tetszés szerint ízesítve. A leendő vejem és férjem felvágott-tal együtt fogyasztotta a lángost, leányom bajor ementáli sajtot reszelt rá, én meg ezzel a sajttal és általam készített savanyú tejföllel - mivel itt nem lehet kapni, ill. nem mindenütt lehet találni -, enyhén fokhagymával megdörzsölve fogyasztottam el. A palacsintát baracklekvárral, és nutellával valamint tejszínhabbal ízesítve kebeleztük be. Én nutellával és a lekvárral együtt ízesítettem a palacsintámat. Remekül sikerültek, örültem, hogy mindent jóízűen fogyasztottak. Másnap, az ünnepnapon valamivel könnyebb ebédet ettünk. Minden simán zajlott le, késő délután, a szomszédból átjövő grillsütő gyújtós szaga hányingert okozott. Arra gondoltam, hogy talán mégis megterheltem a gyomromat, így én nem is vacsoráztam. Csakhogy az állapotom hirtelen egyre rosszabbra fordult, este nyolctól éjjel háromig egyfolytában hánytam és hasmenéssel is küszködtem, a hasam rettenetesen fájt a húgyhólyag tájékán, amihez gyomorfájdalom is társult. Olyasmi fájdalom, amit éhségkor lehet néha érezni.... Másnap reggel, 16-án sem szűntek a fájdalmak, sőt egyre fokozódtak, csak a hányás és a diaré szűnt meg. (Ez utóbbi másnap újra jelentkezett.) Gyorsan sebtében a legszükségesebbeket összekészítettem és férjem és lányom elvittek az egyik közeli, jól felszerelt kórház elsősegély osztályára. Alapos vizsgálatok után azonnal beutaltak a sebészetre, ahol szintén alapos, többféle megismételve az elsősegélyen végzett vizsgálatokat, röntgeneket, Ekg-t -, plusz ultrahangos és egyéb
vizsgálatokon mentem még keresztül. Először antibiotikumokkal próbálták csökkenteni a vakbélgyulladást - ezeknek köszönhetően újra jelentkezett a diarém -, de az állapotom nem javult; 17én, vasárnap sürgősséggel megoperáltak... Diagnózis: heveny, üszkös vakbélgyulladás és hashártyagyulladás, valamint a vastagbélen néhány vertikulumnyom... Egy hajszálon múlt, hogy nem léptem át a túlvilág küszöbét... Kháron ladikja szerencsére egyelőre nélkülem maradt... Az odaátiak nyilván úgy döntöttek, hogy még van küldetésem ezen a világon... 12 napig voltam kórházban, augusztus 27-én adtak ki. 2-3 naponként jártam kötözésre, fertőtlenítésre. Sajnos nem tudták kis apró vágással eltávolítani a vakbelet és a körülötte lévő gennyes, rothadó váladékot, amiért az operáló orvos még bocsánatot is kért. A hasamat jól felvágták, 20 fémkapoccsal, s a jobb oldalamon egy kivezető lyukkal „dekorálták”, ahonnan eltávolították a felgyülemlett váladékot... Ami az operáció súlyosságát illeti, a császármetszéssel egyenértékű, csakhogy nálam függőlegesen nyesték fel a pocakom a köldököm felettől 2 cm-rel kezdődően, plusz a hosszú vágás alatti kezdeti, eredménytelen kis vágás... Szerencsére a szervezetem eddig jól reagált és reagál. A karom tele volt véraláfutásokkal. Többször kellett eret választani, mivel nagyon törékenyek, s hamar vénán kívülire kerültek az infúziós tűk. Mindennap vért vettek és rettenetesen csípős embóliaelleni injekciót kaptam naponta, ami szintén növelte a véraláfutásokat. Tiltakoztam a hasamba adás ellen, így a vállamba adták. Itthon 12 napig meg én adtam a bőr alá, a combomba. Ezt is elsajátítottam... Most már a véraláfutások is felszívódtak, már jóformán nincs nyomuk csak alig észrevehetően, másoknak talán már fel sem tűnik. Most már elég jól vagyok az energiámat illetően is. Persze, még sokat gyalogolni nem tudok, de mindig egyre nagyobb távolságokat tudok tenni. Mindenesetre ez a kórházi kiruccanás egyáltalán nem volt beprogramozva. Egy kórházi szakmunkás alkalmazott kivételével a legoptimálisabb véleménnyel vagyok a kórház minden egyes dolgozójáról a legalacsonyabb besztásútól a legfelsőbb kategóriáig. Mind az orvosok, mind az ápolók és egyéb beteggondozók, mind a takarító személyzet kifogástalanul, a legprofesszionálisabb szaktudással látták el feladatukat, akiknek csak köszönettel tartozom. Jó volt érezni, hogy minden beteget szakszerűen, odafigyeléssel kezeltek, gyógyítottak. A kétágyas, tv-vel és fürdőszobával ellátott kellemes égszinkék variációval festett falú kórtermek akár szállodai szobának is beillenének. Mindennap kétszer takarítottak, minden reggel ágyneműt cseréltek, a vizitelő orvos- és ápolócsoport délelőtt és délután ellenőrizte a betegeket, míg a köztes időben rendszeresen ellenőrizték a hőmérsékletünket, pontosan beadták a gyógyszereinket, injekcióinkat és cserélték az infúziós zacskókat, s még menet közben is állandóan ellenőrizték, hogy minden rendben zajlik-e. Mi betegek valóban éreztük a gondoskodást, a törődést, nem voltunk magunkra hagyva, mint ahogy szülőhazám kórházaiban tapasztaltam. Mindezt a kórházi személyzet a magyarországi szégyenletes, legalizált korrupciós paraszolvencia, azaz hálapénz nélkül végezte. Itt nem tartják az orvosok és az ápolók az öblös zsebüket, hogy a pénzes borítékot 85
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belecsusszanthassák a nyomorult betegek vagy azok hozzátartozói! S ennek ellenére mind az állami, mind a magánorvosok úgy bánnak a beteggel, mint a kapcaronggyal. Éppen erről számolt be idősebb húgom, aki eltörte az egyik bokáját, s emiatt – valamint az én kórházi kalandom miatt is – nem jöhetett ki hozzám férjével. A tervezett érkezésük napján, augusztus 27-én én jöttem ki a kórházból s a tengeri vendéglátás helyett a tengerparti nyaralónkban én lábadoztam… Úgy érzem, nagy isteni kegyelemben volt részem, s nagyon hálás vagyok a jó Istennek, hiszen tragikus vége is lehetett volna. Az operációt követő napon, 18án, az egyik sebészorvos a vizitkor azzal köszöntött mosolyogva, hogy „milyen csúnya meglepetést tartogattam nekik“. Hát nemcsak nekik, de nekem is csúnya meglepetés volt… Az alkotószabadságom alatt emiatt nem tudtam a tervezettek szerint alkotni, de legalább lényegesen kevesebb műfordításommal, mind a kórházi kiruccanásom előtt, mind azután sikerült legalább összeállítanom ezen folyóiratszámunkat és nagy szerencse, hogy nem a legnagyobb dologidő alatt történt, hanem a szabadság alatt! Minderről az előbb említett olasz nyelvű rovatban láthatnak fényképes összeállítást. Hála Istennek itt vagyok, jelen írásomkor az operációtól már eltelt egy hónap és három nap:
A jövő héten belül – de legkésőbb szept. 30-án belül – végre visszatérek Ferrarába… (Szerk. : Az eredeti, változata.)
olasz nyelvű
szöveg
lerövidített
Czakó Gábor (1942) — Budapest BÁJOSKA
Barna adjunktus kissé csapzottan érkezett a társaságba. Órát tartott ugyanis az egyetemen, s munkája 86
évről-évre jobban megviselte. A helyzetet Szőke adjunktus így magyarázta: azért butábbak a mai diákok az előző nemzedéknél, mert a gimnáziumban immár az általunk nevelt tanárok oktatják őket. Szőlősgazda töltött nekik ősi rizlingjéből, hogy a bor karcossága észhez térítse őket. Barna adjunktus belefogott a mesélésbe. - József Atilla ódáját elemeztem volna, s amikor e mondathoz értem: "Viszik az örök áramot, hogy/ orcádon nyíljon ki a szerelem/ s méhednek áldott gyümölcse legyen." Azon mód megkérdeztem hallgatóimat, hogy mi jut eszükbe az utolsó sorról. - Semmi - kottyantotta Szőke adjunktus. - Az egyiknek valami mégis - folytatta barátja. Türelmes nógatásomra kibökte a legcsinosabb lány, hogy a nagymamája minden nap szokta imádkozni e szavakat ebben a sorrendben: "áldott a te méhednek gyümölcse". Rögtön lecsaptam rá: Nagymamája értené, hogy összefüggés van az ima és a vers között? Hogyne, bizonyára, felelte Bájoska. Most már maga is látja a kapcsolatot? Nem, felelte Bájoska PÉTER A VÍZEN JÁR A szentírás történetei tele vannak különleges, apró mozzanatokkal, amelyek megrendítőek, és bámulatos alapossággal emelik ki a lényeget, ugyanakkor a szemtanú személyét is bevonják az elbeszélésbe. Talán minket is. Márk, Máté és János evangéliuma elmondja, hogy a csodálatos kenyérszaporítás után Jézus a bárkával előre küldi tanítványait, majd a vízen járva indul utánuk. Hármójuk közül Máté számol be Péter istenkísértő kísérletéről. Márk, Péter tanítványa lévén, talán nem hallotta mesterétől. Hogy János miért hallgat róla, nem tudjuk. Máté ezt írja azok után, hogy a tanítványok először kísértetnek nézik az Urat, megijednek tőle, majd Péter így szól: "Uram, ha te vagy, parancsold meg, hogy hozzád menjek a vízen." "Jöjj!" - mondta ő. Péter kiszállt a bárkából és Jézus felé indult a vízen. De az erős szél láttára megijedt, s mikor merülni kezdett, így kiáltott: "Uram, ments meg!" Jézus nyomban kinyújtotta kezét, megragadta és azt mondta neki: "Te kicsinyhitű, miért kételkedtél?" (Mt 14. 28-31) Máté kétségtelenül figyelmes szemtanú volt, ezt beszámolója világosan tanúsítja. Péter próba-kérdéssel indít: „Uram, ha te vagy…” És ha nem ő lett volna? Készült-e erre az eshetőségre a Kőszikla? Még érdekesebb a leírásának ez a mellékmondata: „s mikor merülni kezdett.” Először is nehezen hihető, hogy a halász Péter ne tudott volna úszni. De erről később. A mellékmondatban a „merülni kezdett” kifejezés érdekes. Aki már látott vízbe pottyanó embert, az igazolhatja, hogy a dolog villámsebesen történik, jó, ha az illető szájából egy segítség! ki tud szaladni. Hanem Péter nem pottyant, hanem ment a víz színén – egy darabig. Ki találkozott közülünk vízen járó emberrel? Bizonyára senki, egyedül Máté evangélista. Ő tudja egyedül, milyen az, amikor egy vízen sétáló „merülni kezd.” Nos, Máté látta, hogy Péter elindul a Mester felé, halad egy darabig rendesen, olyasféleképpen, ahogy a
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Krisztus lépked vele szemben, aztán ahelyett, hogy egyre boldogabb és bátrabb lenne attól, hogy ő egy csoda részvevője, mégpedig olyan tündökletes eseményé, amit ő maga kért az Úrtól, és amelyben egy lehetne vele, megijed a vacak széltől, és ahelyett, hogy megerősödne benne, elveszti hitét. A csoda kellős közepén. Kiesik belőle, mert úgy látszik, hogy a hitben és a csodában élni nem kettő, hanem ugyanaz – „ha egy mustármagnyi hitetek…” ismertjük a tanítást, csak éppen nem merünk kitartani benne, mert gyakran fúj a szél. Péter – velünk együtt – merülni kezd. Tehát nem úgy süllyed el, ahogy a kisbalta, vagy a féltégla, hogy sutty és kész, reménytelenül, hanem ahogy a hitében megingó tanítvány: az Úr kinyújtja érte kezét. Ezt látta és írta le Máté oly tökéletesen – két szóban. Ami pedig Péter úszástudományát illeti, rendelkezett vele a vízben, de – akkor még – nem a hitben és a csodában. Fonte: www.czakogabor.hu Szitányi György (1941) — Gödöllő-Máriabesnyő
ÚT A FÉNYVEREMHEZ
sci – fi – tyisz regény
V. FEJEZET Tébétől és csapatától elbúcsúzik a Mester. Tébét egyedül küldik, a legénység mégis bemutatkozik, és a Koordinátor elbeszélget Verával. Már megint nem stimmel valami, de azért végigjárja a folyosót.
… és hol vagyunk még az idő birtokbavételétől? – diktálta Herb professzor. – Holott Einstein egyidejűségfogalma már sejteni engedte, hogy nemcsak két ponton lehetséges egyidejűség. A művészet már a korszak elején jelezte az egyszerre több ponton meglevő egyidejűséget, s a több pont már minimum kétdimenziós időt feltételez. Vajon mit kezd majd az ember, ha rádöbben valamikor, hogy az idő ugyanúgy háromdimenziós, mint a tér? Ez ma még csak hipotézis, de a tudománytörténet logikája szerint rövidesen felvetődik ez a probléma is, és a téridőelmélet vonzásában megszületik az időtér elmélete, amely elmélet újabb technikát, később pedig, e technika birtokában, újabb társadalmi, vagy akár történelmi problémákat vethet fel. Ma még csak tudjuk, hogy az egyidejűség közvetlen tapasztalatként csupán a közvetlen, hétköznapi praxisban fogadható el. Erre bizonyíték, hogy példának okáért a tőlünk ötven fényévnyire levő égitestről hiába néznénk egymásra valakivel egy időben, nincs az a távcső, amely nem ötven évvel korábbi állapotunkat mutatná a partnernek. Vajon van-e a térben és az időben legalább három, ugyanakkor valóban egyidejű és közös pont? Ezt ma még csak elképzelni tudjuk, de … * Néhány óra múlva a Mester a Főparancsnok és a Kapitány kíséretében egyenként meglátogathatta Tébét és társait azzal a feltétellel, hogy legfeljebb jó utat
kívánhat nekik. A Mester boldog volt, hogy rövid idő alatt négy olyan emberrel foghatott kezet, akiket nem talált lőcslábúnak, és még nevük is volt. Tébén ő is észrevette a változást, de meglátta azt is, amit kísérői nem vettek észre: amikor azt mondta, hogy „jó utat, fiam”, a Koordinátor szeme egy pillanatra megtelt élettel, és cinkosan összemosolygott az öregével. * A Főparancsnok személyesen és kíséret nélkül váratlanul benyitott a Koordinátorhoz. – Megváltoztattam a tervet – mondta izgatottan –, mert a Kapitány eltűnt, valószínűleg áruló. Meg kell akadályoznunk, hogy korán kiszivárogjon az Ön útjának híre. A robotok már az űrhajón vannak, az indítómű kész a startra. Önt felcsempésszük a hajóra, szökést imitálunk. Parancsa: azonnal indul, a feladatot egyedül kell végrehajtania, mivel szerintem ön itt az egyedüli megbízható ember. Vállalja? – Vállalom. – Attól ne tartson, hogy baja eshet. Ha gyorsan indul, lelőni sem tudják, üldözni pedig lehetetlen. Azonnal jön... * Chaayo! Ez a halhatatlanság? * …két biztonsági, ezek felcsempészik a személyes holmiját, újabb kettő pedig szokatlan kéréssel jön. Az én konspirációs parancsomat hajtják végre, kérem, ne várjon magyarázatot. * Egy ókori pszichológus azt állította, hogy a konspirátor a társadalmi hamistudati hiedelmek egyik formája, az elfojtott bűntudatnak a felettes énnel szembeni projekciója. * A folyosókon felduzzasztott létszámban őrködő biztonságiak csak azt látták, hogy két társuk egy SEBBENZIN feliratú hordót szállít sietve a rakodótéren át a szigorúan őrzött mélységbe, ahol ma igen nagy volt a forgalom. Tébét nem látta senki, s csak néhányan észlelték az elszáguldó, alig harminc méteres pöttöm űrhajó startját, ami nem tűnt fel, mert ilyen halkan még nem indult űrjármű. * „Itt valami nem stimmel.” * A Főparancsnok és a Kapitány egymás vállát veregetve ült a Kapitány magánlakosztályában. – Látod, ez az igazi kiképzés – mondta a Főparancsnok. – A konspiráció akkor a legtökéletesebb, ha az sem tud róla, aki csinálja. – Képzeld, milyen meglepetés lesz, ha utolérem őket, és átveszem az irányítást! Tébé hajója rekordidő alatt két példányban készült el. A két start között pontosan egy nap különbséget terveztek. *
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Amikor Végre normális volt a terhelés, és már a robotok dolgoztak, Tébének háta mögül valaki hirtelen befogta a szemét. Túlvilági hang szólt: – Nincs itt valahol ismerős? Kész csoda, hogy nem kapott szívbénulást. Amikor jobban lett, hátrapillantott. Tiullo vigyorgott mögötte Phillel. Tiullo kezében pohár volt, abba beszélve adta ki a túlvilági hangokat, Tébé szemét Phil fogta be. – Ne gyengélkedj már, földi lény – nógatta Tiullo. – Hülye banda, rogyjon rátok a csillagos ég! – hörögte még mindig sápadtan Tébé. – A Koordinátor nem lehet neveletlen a rokonaival szemben, tiltja a szolgálati szabályzat. – Legyen goromba az idegenekkel, ha akar, van itt belőlük elég – rótta meg Phil. – Te, itt van egy nő, akivel Tiullo szigorúan bánt. – Megverte? – Á, csak elsodorta. Utána pedig majmot csináltunk belőle. Mi majdnem belehaltunk az indulásba, de az a nő kibírta talpon! – Mi volt?! – hökkent meg Tébé. – Majd elmondjuk. Azzal a nővel valami nincs rendben. Van itt egy jó kabin, oda akart beköltözni, de egyszerre lépett be az ajtón Tiullóval. Szegényke. Bár én is segítettem. Nagyobb hatással voltunk rá, mint a te startod: elrepült. Utána bepimaszkodik, hogy ez az ő kabinja. Kérdezem, ide szól a jegye? Mutogatja a műszereket, hogy ért azokhoz, mondom, nem ügy, mert mi is, ha bejön, nem férünk el, lássa be. Erre azzal jön, hogy odaírták az ajtóra, hogy konspirátor, ő itt lakik, onnan tudja. Szóval az lett a vége, hogy kicipeltük a folyosóra, ahol közös erővel elmagyaráztuk betűről betűre, hogy az van az ajtón: energiahiány. Ha bebizonyítja, hogy ő az energiahiány, akkor bemehet. Gondolod, hogy be tudta... – Jönnek – figyelmeztette Tiullo. Lépések közeledtek. Tébé felállt. * Ha a Főparancsnok csak annyira megbízik Tébében, hogy a szabályzatnak megfelelően elsőként őt engedi a hajóra, a koordinátor a konspirátori kabinban helyezte volna el Verát és kész. Csakhogy a Főparancsnok még a Kapitányban sem bízott, ezért annak hajóján személyesen rejtett el egy bemérőadót. Tébé hajójára a robotok és a kiderítetlen azonosságú Kán nem vitt bemérőadót, más mindenki. A speciális célrobotokra nem lehetett ilyesmit bízni, a „Kán” pedig a legmegbízhatatlanabbnak ítéltetett. * Ha mégis igaz, hogy ez a személy a Koordinátor testvére – vélekedett a Főparancsnok –‚ akkor nem marad a Földön rokona, aki eltűnése esetén érdeklődni merészel. Ha mégsem így lesz, akkor a Szolgálat előbb-utóbb megtalálja a szökésben levő kéjgyilkost. Ez esetben kivégzik. Aki pedig az Orvost keresné, azt elviszik a mentők, mivel nem létező egyéneket kereső ember Nem lehet normális, és így izgalmat kelt a társadalomban. * Hogy Tiullót lekösse valamivel, neki is adott parancsot 88
minden és mindenki megfigyelésére azzal, hogy a hajón ő lesz a Konspirátor. * „A létező senki képzete.” * Amikor Phil látta, hogy a közeledő léptek hallatán Tébé feláll, mint egy udvarias vendéglátó, aki hivatalában Idegent fogad, úgy érezte, neki is kell adnia a külsőségekre, ezért fém fésűjével megfésülködött. * Két sebezhetetlen, kis méretű űrhajó. Az elsőnek személyzete a húsz célroboton kívül két központi (a Navigátor és Vera), továbbá Tébé, Phil, Tiullo és az Orvos. A hajón mindegyikük megfigyelés alatt tart mindent és mindenkit. Tébé kivételével mindenki úgy tudja, hogy ő az igazi konspirátor. * „Társadalmi hamistudati hiedelem.” * Összesen öt bemérőadó közli folyamatosan az első űrhajó helyzetét a Főparancsnokkal is, a Kapitánnyal is. Véletlenül sem történhet annyi műszaki hiba, hogy eltűnhessenek. A Kapitány a Fényverem közelében megszállja Tébéék hajóját, és átveszi a parancsnokságot A második űrhajóval Vera közvetlen kapcsolatot tart, ezt a Főparancsnok lehallgatja. Vera külön vonalon közvetlen kapcsolatot tart a Főparancsnokkal is, erről a Kapitány nem tud. Ugyanakkor közvetlen és rejtjeles kapcsolat áll fenn a Kapitány és a Főparancsnok között is. * Amikor Tébé kibújt a hordóból, nem képzelte, hogy bárki elhinné a Földön, hogy egy hordó sebbenzin szökött meg. * A Főparancsnok arra számított, hogy visszaérkezéskor mindenki annyi igazat jelent a többiekről, amennyi önmagának nem árt. Így hiteles képet állíthat össze mindenről és mindenkiről. E képet megfelelően kiegészíti majd a Kapitány és Vera folyamatos jelentése. * Az ajtóban megjelent a Navigátor, Vera és az Orvos. * A Navigátor jelentkezett: – Köszöntjük, Tébé. A koordinátoron átfutott, hogy nem Koordinátornak szólította. „Itt valami nem stimmel” – Köszöntöm munkatársaimat – mondta hivatalos hangon. Tiullo és Phil meglepődve tapasztalta, hogy Tébé egyetlen pillanat alatt átalakult. Pontosan olyan merev
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és kifejezéstelen lett az arca, mint amilyenné a kiképzés során. Eszébe jutott, hogy a Mester mit mondott a Navigátorról és a Kapitányról. Tehát az egyik személyi figyelője itt van. Hol lehet a másik? – Üdv, Tébé – intett felé az Orvos. – Megszólításom Koordinátor. Jelentést kérek. – Koordinátor, a Navigátor jelenti, hogy két társával szolgálattételre megjelent. – A Koordinátor közvetlen munkatársa, Vera – jelentette a Navigátor. A szőke hajú, fekete szemű nő feszesen előrelépett, főhajtással köszöntötte új felettesét. – Az Orvos – folytatta a Navigátor, aki nem értette, Tébé a fedőnevét akarta-e ilyen módon leleplezni, vagy éppen a Koordinátorral való ismeretségét akarta-e így titkolni. Miközben az Orvos a Verától látott módon viselkedett, a Navigátor arra a következtetésre jutott, hogy Tébé a fedőnevét titokban is elmondhatta volna Philnek és Tiullo kánnak, az üzenet tehát neki szól. Eszerint ők látszólag most találkoznak először, hivatalos ügyekben Koordinátornak szólíttatja magát, Tébének magánügyben lehet szólítani, esetleg nem a hagyományosan szertartásos események alkalmával. Jól konspirál, állapította meg. – Tiullo, gazdasági megfigyelő – szólt Tébé. Tiullo előrelépett, darabosan meghajolt, mintha egy sportcsarnok közönségének mutatnák be. – Phil, hajónapló-író. Philnek elkalandoztak a gondolatai. Érdekes, elmélkedett, természetes szőke haj, fehér bőr, és mindez fekete szemmel. Az alakja szokatlanul jó. Érdekes. Egy nő fekete szemmel, fehér bőrrel, és látszólag természetes szőke hajjal. Az alakja pedig túlságosan tökéletes. Ez vagy szobor, vagy szexbomba, kár, hogy nem íródeák vagy ilyesmi, ez nem Tébé alá való, hanem inkább... Tiullo erőteljes rántással maga mellé segítette a kincstári viselkedésre alkalmatlan személyt. Phil rá akart mordulni, hogy ne piszkálja, ha látja, hogy gondolkozik, de idejében kapcsolt, és így legalább annyiban megfelelt a kívánalmaknak, hogy nem szólt, csak szomorúan nézte, hogy öltözékének anyaga viszonylag könnyen gyűrődik. Kész szerencse, hogy nem a hajón kívül vagyunk, gondolta, ez a Tiullo még letépné rólam a szkafandert is, kár lenne értem. Fogalma sem volt, hogy milyen erősek ezek a vékony anyagok. A bemutatás ceremóniája után Tébé berendezkedésre, egyéni étkezéssel, tetszés szerinti időtöltésre, lehetőleg alapos pihenésre adott utasítást azzal, hogy legközelebb másnap reggel találkoznak, közös reggelinél. Mielőtt oszoljt vezényelt, felszólította Verát, hagy maradjon még. Amikor a többiek eltávoztak, a Koordinátor egy gombnyomással bezárta az ajtót. – Foglaljon helyet, Vera. – Köszönöm. Leültek. Hosszan, hallgatva nézték egymást, Tébé merev ábrázata valamelyest megenyhült. Most csak a nőre koncentrált. Tanulmányozta inkább, mint megnézte. Úgy vélte, már megint, hogy nincs rendben valami. Miközben figyelte a lányt, eszébe jutott, hogy ez a feltűnően jó alakú nő nagyon erős lehet, ha olyan simán átvészelte lábon a startot. Ugyanakkor Tiullo és Phil is szépen elbántak vele. Kereste az esés nyomait,
de nem találta. Phil szerint ez a nő elrepült, amikor összeütközött Tiullóval. A hirtelen indulást egyedül ő bírta ki, Tiullót is megviselte a dolog, őt magát is. Ez a két dolog pedig csak akkor nem fér össze, ha Phil nem túlzott. Philt régóta ismeri, még nem túlzott. Ez a nő belső központi. Jól képzett konspirátor. Hogy van ez? – Hallottam – kezdte Tébé óvatosan –‚ hogy nem a konspirátori szobába került. Miért? – Bizonyára tájékoztatták erről. – Csak azt tudtam meg, hogy Tiullo megelőzte. Már nem volt módomban megtudni, mi történt. – Bőségesen hagytam rá időt. Tébében megmozdult a lappangó gyanú. – Hogy értsem, hogy hagyott rá időt? – Feltartottam a többieket, hogy legyen idejük beszélgetni. Nem erről volt szó? – Nem. Örültünk a viszontlátásnak. Tudja, hogy rokonok vagyunk. – Mind a hárman? – Nem tudta? – Én csak azt tudom, hogy mi a feladatom. – De azt is tudja, hogy mi történt. Nem tévedek? – Nem téved. – Ön közvetlen beosztottam? – Igen. – Akkor jelentsen. Miért nem foglalta el a konspirátori szobát? – Koordinátor, Vera jelenti, hogy a Kapitány utasításának megfelelően nem alkalmazott erőszakot, amikor megakadályozták a számára kijelölt terep elfoglalására. Fura alak ez a nő, annyi szent, Philnek igaza lehet, figyelt fel a válaszra Tébé, mert valami megint nem stimmelt. – Erőszakkal akadályozták meg? – Igen. – A Kapitány utasította, hogy ne alkalmazzon erőszakot? – Igen, a Kapitány. – Mikor? – A hajóra jövet. – A Főparancsnok tud erről? – Igen. – Ott volt a Főparancsnok, amikor ezt az utasítást kapta a Kapitánytól? – Igen. – Mellette állt? – Nem. – A Kapitányhoz viszonyítva mi volt a Főparancsnok helyzete? – A kettőnket összekötő egyenes folytatásához képest, az én nézőpontomtól balra tizenhét fokkal, a Kapitány háta mögött hatvankilenc centiméterrel. – Ön megsérült az erőszak során? – Nem. – Végül melyik kabint foglalta el? – A konspirátori kabintól szemből számítva jobbra a másodikat. – Van más jelenteni valója? – Minden rendben. – Köszönöm – fejezte be Tébé. – Távozhat. Főhajtással köszöntek. Vera az ajtó felé indult. Tébé az ajtó működtetésére szolgáló gomb irányába nyúlt. Mielőtt lenyomta volna a gombot, meghökkenve látta, hogy az ajtó megmozdult, nyílt, egy arasznyit, és gyorsan becsukódott. Vera neki háttal állt, jó méternyire 89
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az ajtótól szemben. Tébé dermedten figyelte az ajtót. Résnyire kinyílt, bezárult, de többször nem mozdult, amíg ő ki nem nyitotta. Ez biztos. Nem tehette, hogy ezt a felfedezést Vera tudtára adja. Lenyomta a gombot, az ajtó kinyílt, Vera türelmesen várt, és amikor teljesen nyitva volt, kilépett. Tébé újra lenyomta a gombot. Az ajtó bezárult. Tébé hosszasan figyelte az ajtót, de nem mozdult újra. Érzékeiben kételkedve hagyta el a navigációs kabint, hogy elhelyezkedjék a Koordinátor számára legkedvezőbb szobában, amelyet senki sem akart helyette elfoglalni. Mintha senki sem pályázna az ő helyére, a helyiség háborítatlan volt. A navigációs kabintól balra az első. Tőle jobbra volt tehát a navigációs kabin, azt követte a Tiullo által megszállt konspirátori, attól jobbra az első volt Philé. Vera tehát Phil kabinja és a központi terem között kapott helyet. Tébé kabinjától balra az első a Navigátoré volt, utána következett az Orvosé, majd a központi terem, amely az ellipszis alakú folyosónak a navigációs kabinnal átellenes végén volt. Tébé helyesnek látta, hogy végigjárja a folyosót, amelyet úgy tervezett, hogy csak a legszükségesebb területet foglalja el. E közben megfigyelői tényeket és megjegyzéseket küldtek az F-137 jelű objektumra. Azt nem is sejtette, hogy egy napnyi távolságból követik. *
5.) Folytatjuk
Tormay Cécile (1876 – 1937)
A RÉGI HÁZ
(Budapest, 1914)
XVI. A ház üresen állt és a csend a falak közé fészkelte magát. A folyosó sokáig emlékezett rá, ha elvétve lépések mentek végig rajta. Az oszlopos óra ketyegése bejárta valamennyi szobát, semmi nesz sem állta el az útját. Így találta Anna a házat, mikor férjével hazajött abból a megszakított útból, amelyre úgy emlékezett, mint egy félben maradt álomra. Szárnyas órák, halk szavak, szép, leányos félelmek gondolkozás nélküli napjai... aztán beleszokott Anna a Tamás karjába. Az atyja halálhíre verte föl onnan és az álmot nem lehetett tovább álmodni. Soha többé nem folytatódhatott. Más jött. Eljött az élet és elmúlt az első év. És az idő múlásával, lassan megint derűssé lett a csend a régi házban. A nap besütött az ablakokon és a szobák olykor-olykor már félénken nevetni kezdtek. Aztán hirtelen szinte szégyenkezve abbahagyták, mintha azok jutottak volna az eszükbe, akik kimentek a kapun és nem jöttek többé vissza. Megint elmúlt egy év. A régi ház sárga falai melegek voltak a naptól. Az udvarkertben bokrétás rózsafákat, nyíló koszorúkat emeltek a virágágyak maguk fölé. A szobák most már szabadon nevettek, csengő, gyereknevetéssel. És a ház mosolygott a bensejében, mint egy jó öreg, aki megfiatalodik. 90
Ebben az időben Anna csodálatos kis dalokat énekelt. Nem tanulta őket soha senkitől, maguktól jöttek és andalító lüktetésük olyan volt, mint a bölcső ringása. Aztán fölemelte a fiát azzal a rejtélyes mozdulattal, amely szebb még a szerelem mozdulatánál is, amelyet a karja titokban régen tudhatott. És közben arra gondolt, hogy ez az, ami összeköti az emberiséget: a végtelen, áldott lánc, asszonyi karokból fonódó lánc a földgolyó felett, mely az első asszonnyal kezdődött el és az utolsó gyermeknél fog bevégződni. — Mama, — dadogta a kis György. Anna, Krisztina asszony halványuló képére nézett és halkan utána mondta a szót, amelyet kapott, amelyet ő az anyjának sohasem adhatott. Hallgatódzni kezdett. A gyalogkapu nyílt odalenn. Lépések jöttek a folyosón... — Tamás, úgy vártalak! — Többet, melegebbet akart volna neki mondani. Azt akarta mondani, hogy szereti őt, de a szavak szégyenkeztek és fölcserélődtek az ajkán. Odahajolt a férjéhez, mintha a csókjára várna. Illey nem vette észre a felesége mozdulatát, valami egyéb járt az eszében. Elgondolkozva csókolta meg Anna kézét és az ablak világosságába lépett. Olvasni kezdett egy levelet. — Otthonról jött... — Otthonról?... Hát ez nem a te otthonod? — Anna odaadóan oldalt hajló feje lassan kiegyenesedett. Tamás semmit se hallott, semmit se látott, mikor Illéről volt szó. A régi ispán, a kasznár, a tiszttartó, a plébános gondjával, bajával mindenki hozzá fordult, mintha még mindig ő lenne az illei földesúr. És ő eljárt a dolgukban és a szeme fényes volt, mikor róluk beszélt. Anna mozdulatlanul nézett rá. Megint elfogta az a megismétlődő érzés, amelytől nem bírt szabadulni, ha Tamás Illéről beszélt. Ilyenkor úgy rémlett neki, a férje elmegy tőle, messze van, valahol másutt. — Tamás, — szólította halkan, mintha vissza akarná hívni magához. Illey szórakozottan mosolygott. Még mindig a levelet olvasta. Anna arca komoly és zárkózott lett. A gyöngédség, amely az előbb még jóformán ellenőrizetlenül áramlott ki belőle, szinte fájdalmasan zsugorodott vissza a szívébe. Elfordult. — Nem, ne menj el, — mondotta Tamás. — Jer ide. Olvasd csak... De Anna nem közeledett. Mereven tartotta a fejét. A hasztalanul tett odaadó mozdulat után, így akarta visszanyerni az egyensúlyt. — Hagyd el, Tamás, — és a hangjába ellenszenv vegyült, — úgy sem ismerem azokat a te embereidet. — Miért mondod ezt így? — Illey szemrehányóan fordult feléje. Anna hangja ismét feldöntötte a lelkében azt a reménységet, amellyel Illére gondolt, amely akarata ellenére újra és újra elhatalmasodott fölötte. Ha megmondana neki mindent... ha elmondaná neki, hogy ami Illéhez tartozik az a szívéhez van nőve, ha megvallaná, hogy vágyódik a földje után... Vajjon megértené-e? A szavak olyan követelődző erővel formálódtak az agyában, hogy szinte hallotta a hangzásukat. Megalázóan hatottak rá, mintha koldulnának. Érezte, hogy nem tudná őket kimondani soha. Anna ebben a pillanatban keménynek és ridegnek látta a férje tekintetét.
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— Miért haragszol, Tamás? — Szeme az illei levélre tévedt. — Hát nem érted? Hisz csak úgy mondtam. Mind ez olyan idegen nekem. — Igazad van! — Tamás kurtán, neheztelően nevetett. Egyszerre világosan érezte, hogy Anna idegen mindazzal szemben, ami az ő múltjából élőn él a vérében. Idegen, — és talán az is akar maradni. A csendben úgy tetszett mindkettőjüknek, mintha visszaléptek és eltávolodtak volna egymástól, pedig valóságban még nem mozdult egyikük sem. Aztán Tamás volt az, aki elfordult. Anna utána nézett. Az első időben, ha nem értették meg egymást, hamar elfelejtették egy ölelésben. Később elég volt a kicsiny, tehetetlen gyereksírás a mellékszobában, hogy mindenről megfeledkezzenek és egymás mellett szaladjanak és a küszöbön már fogják egymás kezét. Ma mindenikük egyedül maradt. A kimondott szavak hidegen meredeztek Anna emlékezetében, amit pedig nem mondott ki, az nyugtalanította őt. Szórakozottan játszott a kisfiával, aztán tétovázva babrált a varróasztala fiókjában. Abbahagyta ezt is. Be akart menni a férjéhez, a vállára akarta támasztani a fejét és kérdezni és felelni akart, hogy ne legyen közöttük semmi, ami homályos és bizonytalan. De Tamásnál vendégek voltak. Az urak hangja kihallatszott a zöld szobából az ebédlőbe és a pipájuk füstje is érzett. A király és az ország kibéküléséről beszéltek, a koronázásról és arról, aki koronázott, parlamentről, nagy nemzeti átalakulásról. Mióta az alkotmány helyreállt, Illey államszolgálatba lépett; a földmívelési minisztériumban dolgozott. Anna hallotta, hogy odaát a mellékszobában az intenzívebb gazdasági üzemről mond valamit. Milyen higgadtan és okosan tud Tamás beszélni, pedig az ő szíve még mindig nehéz és szomorú. Egyszerre a férje nevetése hangzott át a csukott ajtón. A szemöldöke merev és egyenes lett. Elfordult az ajtótól, mintha megbántották volna. Illey Tamás ebben az időben kezdett el sűrűbben vadászatokra járni. Falusi birtokos barátai hívták. Odalenn Illén, az ő mocsaras erdejében is sok volt a vad. Ha a hivatalából szabadult, fogta a puskáját és ment. Aztán jókedvűen, lesült arccal jött megint haza. A zöld szobában fegyverek álltak a régi szekrényben, ahol Ulwing építőmester valamikor a tervrajzait tartotta. A dívány fölött Fischer von Erlach és Mansard építőművészek arcképe helyén egy angol vadászkép függött. A sokfiókos íróasztal kis barlangjaiban töltények voltak. Az oszlopos óra előtt, remekbe művelt vadászkés feküdt. Annának olykor az az érzése támadt, hogy Tamás nem szereti a házat és a zöld szobát sem szereti, a dudorosra párnázott, jó öreg bútorokat sem. — Nézd csak, Anna, úgy állnak ezek a székek itt az asztal körül, mint a kövér polgárasszonyok a piacon. A csípőjükre támasztják a tenyerüket és majd szétpattannak a jóléttől. Csendesen nevetett: — Lehetséges-e, hogy ne lásd, milyen furcsák? Otthon, Illén is volt egy ilyen testes karosszék a gyerekszobában. Frau Mayernek hívtuk és kosarat akasztottunk a karjára. Anna kissé elpirult és zavartan simította végig kezével a csíkos vászonhuzatot. — Bántanak minket, — mondotta, mintha a karosszékhez szólna, — pedig mi ketten
összetartozunk... Egyszerre a Geramb-ház lépcsője jutott az eszébe... Bajmóczy Bertha... a régi sértés... a régi harag. Aztán, mintha a nagyatyja szava csendült volna meg az emlékezetében: Szabad polgár vagyok... Fölemelte a fejét. Fiatal nyaka szinte gőgösen hajlott hátra. — Milyen szép vagy így, — mondotta Tamás és a hangja elváltozott. Az asszony válla remegett. Ez az a régi hang volt, amely úgy nyúlt hozzá, mint egy dédelgetés. Egymásra néztek. — Hát szeretsz még? — kérdezte Tamás a csókjában és elborította őt a két karja ölelésével. Anna úgy érezte, a férje karjai között elmúlik minden gondolata és elmúlik ő maga is. A feje hátracsuklott, de már nem a gőg mozdulatával, hanem azzal az elragadó ősi asszonymozdulattal, amelyben benne van a legyőzött győzelme. — Szerelmem... Aztán soká, szorosan átölelve tartották egymást és a rejtélyes, ritka találkozások nagy csendje volt közöttük. Mire elmúlt a csend, elmúlt a találkozás is és mindenikük visszatért önmagába. Másnap délután Anna egy távirattal futott végig a szobákon és öröm nevetett fel a hangjában: — Kristóftól jött! — Most is Baden-Badenben van? — kérdezte Tamás gúnyosan. — Este érkezik. — Ideje is már... Anna egyszerre leverten nézett maga elé. Ha Tamás Kristófról beszélt, a hangjában mindig valami ingerültség érzett és ez fájdalmat okozott neki. Igaz, hogy Kristóf az atyjuk halála óta sokat utazott, de Füger Ottó mindenről jelentést tett neki és mikor otthon volt, akkor dolgozott. Az üzlet jól mehetett. Fényűzés több volt a házban, mint valaha. A régi deszkapadlók helyébe Kristóf parkettát tétetett. A lépcsőre szőnyeget húztak és az istállóban két pár kocsiló állt. Netti helyett már inas szolgált fel az asztalnál és Flórián portáslibériában nyitott kaput. Anna annyi pénzt kapott a háztartásra, amennyit akart és máshoz ő nem értett. De ha Tamás nem volt megelégedve, miért nem törődött semmivel? Hiszen az ő kötelessége lett volna, hogy az üzleti könyveket átnézze. Miért tartózkodott mindentől? Anna azt hitte, megveti az üzletet és mert az ő gondolatában a cég és az Ulwing név egy volt, tompa, elnyomott sértést látott a férje idegenkedő közönyében. Az első időkben többször beszélt erről Tamásnak. Ő mindig visszautasítóan hallgatott. Erről akart valamit mondani, de a férje, mintha kitalálta volna a gondolatát, megelőzte őt. — Hagyjuk ezt, angyalom. Nem akarok beleszólani az Ulwing-cég ügyeibe. — Eszébe jutott, amit az apósa mondott neki, mikor megkérte tőle Anna kezét. Az ember tartsa meg még azt is, amit meg sem ígér... Kinyújtotta a karját és a térdére vonta az asszonyt. — Maradjunk együtt. Este úgyis elutazom, vadászatom van holnap. Anna Tamás válla köré fonta a karját. Bármennyire is szerette volna, nem bírta őt szavakkal tartóztatni. Csak két kis keze kulcsolódott egybe a férje feje mögött, mintha összetéve könyörögni akarnának, hogy ne menjen el. De Tamás nem látta és nem érezte ezt. 91
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— El sem tudod képzelni, milyen szépek ilyenkor az erdők. Anna megrázta a fejét. Ő egyebet akart hallani és mialatt két kérlelő keze néma, láthatatlan beszédben még erősebben kulcsolódott, egészen közel hajolt Tamás szájához. Nem csüggedt el, ma tudott valamit, ami biztosan visszatartja őt. Diadalmasan a szemébe mosolygott: — Tudod-e, milyen nap lesz holnap? Tamásnak egyszerre jó kedve támadt. — Hogyne, vasárnap... Vadászni mehetek. — Az esküvőnk harmadik évfordulója, — mondotta Anna halkan. — Igazán, holnap? — Tamás tekintete még melegebb lett a hálás visszaemlékezéstől és erősen magához szorította az asszonyt. Érezte nyúlánk testét, amint a térdéről belehajlott a karjába. Kicsiny, hűvös arca az arcához simult. A hajából ibolyaillat áradt. Megszédült tőle... Nem mondja, hogy itthon marad, — gondolta Anna, — nem mond soha semmit. — Szinte megalázta a lelkét az a dédelgetés, amit a teste kapott. Mindig csak ez... nem kell. — Hirtelen mozdulattal eltolta magától a férjét és megigazította a haját. Tamás hideg ürességet érzett az ölében, ahol az előbb Annát ringatta. Egy pillanatig zavarodottan nézett a levegőbe. Aztán összeszedte magát. Úri kívánás volt a szerelme, nem pedig epedő koldulás. Dacosan rándult össze a szemöldöke. — Hány órakor indul a vonatod? — kérdezte Anna és elfáradt az erőfeszítésben, hogy közönyösnek lássék. Illey egészen idegennek hallotta a felesége hangját. «Nem tartóztat. Eltol magától» — és mialatt erre gondolt, az arca ellenséges és sötét lett a megalázott kívánás emlékétől. Kivette az óráját, visszatette, anélkül hogy megnézte volna. Sietni kezdett. Előszedte fegyvereit. A töltényzacskóból friss, fanyar szag áradt, valami, ami az erdőkből maradt benne. A bőrszíjak finoman ropogtak, éppen úgy, mint odakinn, mikor az ember válla felett egymáshoz surlódnak... A gondolata már nem volt a szobában, messze járt, a nagy, szabad földön, a nap alatt. Anna szótlanul ment ki az ajtón. Este, míg a kis fiát altatta, elmúlt évfordulókra gondolt... Mióta lett ilyen más az élet közte és Tamás közt? Lassan változhatott meg; nem vette észre. A gyermek már aludt. Anna kinyitotta a Napszoba ajtaját és hosszú idő után, jóformán öntudatlanul a zongorához ült. Nem játszott, nem énekelt, csak reátámasztotta a fejét, mintha valakinek a vállára támasztaná. Mikor Kristóf megérkezett, ott találta a húgát a néma hangszer mellett. Anna szinte ijedten nézett a bátyjára. Hogy megváltozott az utóbbi időkben. Az angolos ruha lógott a testén. Egykori szép, ezüstfényű haja megritkult mélyen benyúló, kékeres halántéka körül. A világos pillák nehezeknek látszottak, bágyadt szeme felett. — És Tamás? Úgy, vadászaton van? — Beteg voltál? — kérdezte Anna, mialatt szembeült vele az ebédlőasztalnál. — Miért gondolod? Nem... csekélység volt. — Kristóf sebesen evett, közben szinte kapkodva beszélt: — Semmi bajom, csak az idegeim rosszak, pedig 92
szükségem lesz rájuk. Nagy dolgokat akarok. Sok újat tanultam. Idegek kellenek hozzá. Szivarra gyújtott, ujjai között sajátságosan mozgott a gyufa. — Tudod, Anna, régen az egész élet az emberek izmaira támaszkodott, azokat fejlesztették a nevelésben. Most minden az idegekre támaszkodik és senki sem törődik velük. — A szája kissé elferdült. Sajátságos szaggatott mozdulattal többször egymásután végighúzta a tenyerét a homlokán. Egy pillanatig tétovázott, aztán mégis megkérdezte: — Mondd csak Anna, te is érzed azt néha, hogy fonalak remegnek a nyakadban, sok finom fonál, fel, egészen az agyvelődig? — Nem, én nem érzem ezt, — felelte a húga és mereven nézett rá. Kristóf zavartan nevetett: — Hiszen én sem érzem, csak hallottam ilyesmiről. Egy barátom beszélte, tudod, az idegek... Anna görcsösen szorította össze egymásba font két kezét, de az arca azért egészen nyugodtnak látszott. — Mondd meg a barátodnak, hogy beteg és gyógyíttassa magát. Kristóf a levegőbe fújta a szivarfüstöt. — Az öregek ellenállóbbak voltak mint mi. Hiába, a mi nemzedékünk fiatalon kapott túl sok lökést. Emlékezel, mikor az ágyúgolyó a házhoz csapódott? És a tűz... Aki közülünk gyönge volt, azt összetörte az ilyesmi, aki erős volt, azt erősebbé tette. Te erősebb lettél tőle. Neked jó, Anna, még melletted lenni is jó, olyan biztos és nyugodt vagy. — Hát maradj mellettem mindig, kis Kristóm! — Igen. És mondd csak, éjjel sem ijedsz fel soha? Úgy-e, idegentől nem igen lehet ilyesmit kérdezni... s az az érzésed sincs, mikor egészen egyedül vagy a szobában, hogy valaki áll a hátad mögött? A falnál áll és figyeli, amit csinálsz. Anna dermedten nézett a bátyja szemébe. — De hiszen ezek őrültségek... — Kályhatündérek és zongoraegerek, — mondotta Kristóf és bágyadtan mosolygott a zöld szoba felé. — Hát a kis György? — Erőltetett vígsággal nevetett föl: — Hiszen már egész úrfi lehet. Hoztam neki Párisból egy lovat. Masina van benne, kulccsal kell fölhúzni, mint az órát, aztán szalad. Mik voltak ehhez képest a mi szegény játékaink! A fahuszár meg a Lidibaba... Hihetetlen, hogy milyen csodákat találnak ki mostanában az emberek! Gépekről, gőzösökről, városokról, utazásokról kezdett beszélni. A francia császárról, a párisi tőzsdéről, Eugénia császárné ruháiról. Közben egyik szivart a másik után szívta. Hangjából eltűnt a bágyadtság és a szeme élőbb lett. Mikor lement a lépcsőn, fütyörészett úgy mint régen, olyan szépen, mint egy madár. Anna világosan hallotta, de azért nem bírt megnyugodni. Kristóf, mióta a húga férjhez ment, odalenn lakott a földszinten. Két szobát vett el a régi irodahelyiségekből, amúgy is üresek voltak, mióta a központi üzlet összezsugorodott. A mély, boltíves szobában virágok álltak a háromfiókos szekrényen. Tudta, hogy Anna tette őket oda, a csipketerítőt is ő tette az éjjeli szekrényre. Egy pillanatig örült, hogy itthon van és az inasnak meghagyta, hogy reggel ne zavarja; aludni akar. Ekkor jutott eszébe, hogy másnap a főkönyvelőjével lesz
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dolga. Útközben sok biancováltót írt alá, hogy Füger Ottó pénzt küldhessen neki. Baden-Badenben szüntelenül vesztett, a párisi tartózkodás is megviselte tárcáját. Holnap majd össze kell számolnia mindent. A homályos nemtudás kényelmes volt, ami most jött, azt nem szerette. El akarta kergetni a gondolatait. De a gondolatai olyanok voltak, mint a darazsak, visszajöttek és megszúrták. És az üzlet? Hogyan mentek a vállalkozások, amíg odajárt? A heti jelentések az utazóbőröndjében voltak. Sohasem ért rá, hogy végigolvassa őket. Mindegy! Párisban tanulmányozta a tőzsdét. Egy nap alatt gazdagok lesznek az emberek. Csak hidegvér kell hozzá. Nem szabad megijedni. Mennyi pénzt látott! Mennyit!... Eloltotta a gyertyát. Nyitott szemmel feküdt a hátán. A gondolatok egy darabig békében hagyták. A sötétség egészen üres volt. Pedig mi minden ment már át az ő sötétségein. Régi tündérek és törpék. Zsófi, az első szerelem. Utcai lányok, színésznők, asszonyok, szép, előkelő asszonyok, akik nappal hidegek és közömbösek voltak és az éjtszakában forróak és követelők lettek. Elég volt. Most már nem érdekelték őt. Csak az a sok pénz bírta érdekelni, amely szüntelenül folyik az emberek keze között, mint egy nagy, uralkodó folyó, végig a világon. Csatornát kell építeni a folyónak, aztán megváltoztatja a futását, ömlik, amerre az ember akarja. Látta a párisi tőzsdén és szédült bele. Mennyi pénz... Kristóf éjszakájának a sötétsége egyszerre nem volt többé üres. A pénz!... Ezzel még a hazugságból is igazságot lehet csinálni. Ezért szaladnak utána az egész földön az emberek. Megalázkodnak, csalnak, ölnek érte, még többet ölnek érte, mint a szerelemért. Pénz, mindenható pénz... És Kristóf vágyódni kezdett utána, mint hajdan az asszonyok után. 16) Folytatjuk
ASSISI SZENT FERENC KIS VIRÁGAI Fioretti di San Francesco Fordította: Tormay Cécile (Budapest, 1926.)
Nádudvaron, 1926-ban, nyáridőben.
TIZENÖTÖDIK FEJEZET Szent Klára elméne Santa Maria degli Angeli klastromába, hogy Szent Ferenccel étkezzék, amikor is úgy látszék, miként hogy ama hely mindenestől tűzbe borult volna.
Szent Ferenc mikoron Assisiben lakozék, gyakran 1 látogatta Szent Klárát , részesítvén őt jámbor tanításokban. És mert Szent Klára felette kívánkozott, hogy legalább egyszer véle étkezzék, sokszor megkérte őt erre, de Szent Ferenc ilyetén vigasztalást néki megadni sohasem akart. Ámde látván az ő társai Szent Klárának eme kívánkozását, mondották Szent
Ferencnek: „Atyánk, ezt a te keménységedet nem az isteni irgalmasság szerint valónak látjuk; mikor is te soror Klárát, az igen szent és Istennek tetsző szűzet oly kicsiny dologban, hogy véled étkezhessék, meg nem hallgatod, noha ő a te prédikációdra mondott le a világ pompáiról és hívságairól. És valóban, ha ő nagyobb kegyelmet kérne, mintsem ezt, meg kellene azt adnod a te lelked palántájának.” Ekkor Szent Ferenc felelé: „Azt vélitek tehát, hogy meg kell őt hallgatnom?” És mondották az Atyafiak: „Igen, atyánk, méltó dolgot cselekszel, ha megadod néki eme vigasztalást”. Szólott ekkor Szent Ferenc: „Mivelhogy ti ezt helybenhagyjátok, én is helybenhagyom. De hogy neki még több vigasztalása teljék benne, akarom, hogy amaz étkezés Santa Maria degli Angeli klastromában történjék; mivelhogy ő sok időn át volt a sandamianoi klastromban elzárva és ezért vígasságára lészen láthatni a helyet, hol haja levágatott és ő Jézus Krisztusnak jegyese lőn. És ugyanott fogunk Isten nevében együtt ebédelni.” Eljövén tehát a kitűzött nap, Szent Klára valamely társnőjével elhagyta monostorát és Szent Ferenc némely társainak kíséretében betére Santa Maria degli Angeli egyházába és ájtatost köszönté szűz Máriát amaz oltár előtt, hol haja levágatott és ő felvevé a fátyolt. Ennek utána vezették őt a barátok, hogy lássa a kolostorhelyet, míg ebéd órája el nem érkezik. Ezen közben Szent Ferenc a mezítelen földön terített asztalt, miképpen azt tenni szokta. És elérkezvén az ebéd órája, leültek együtt Szent Ferenc és Szent Klára, és Szent Ferencnek egyik társa és Szent Klárának társnője, minek utána a barátok is alázatosan asztalhoz ültek. És az első éteknél Szent Ferenc oly édes balzsamosan és fenségesen és csodálatosan kezde Istenről beszélni, hogy leszállott rájuk az ő kegyelmének minden bősége és valahányan Istentől elragadtattak. És miközben imígyen elragadtatottan ültek, szemüket és kezüket égre emelvén, azonközben 2 az assisibeli és a bettonai emberek és minden környékbeliek úgy látták, hogy Santa Maria degli Angeli és az egész hely és az erdő, mely akkoron még a kolostor mesgyéjéig ért nagy lánggal ég, miként ha roppant tűz emésztené az egyházat, a klastromot, az erdőt mindenestől. Amiért is az assisibeliek nagy sietéssel lefutottak a hegyről, hogy oltanák a tüzet, mert bizonyost hitték, hogy odalent a síkon minden lángokban áll. De elérkezvén a klastromhoz és nem találván sehol sem tüzet, bemenének és találták Szent Ferencet Szent Klárával és ő társaikkal ülve amaz alázatos asztal körüle elmélkedésükben Istenben elragadtatottan. És ekkor bizonyosságot vettek annak felőle, hogy ama tűz nem földi tűz volt, hanem mennybéli tűz, amelyet Isten csodálatosan megjelentetett látható bizonyságára a mennyei szerelem tüzének, melyben ama szent barátok és szent apácák lelke égett; minek okából a népek hazatértek nagy vigasztalással az ő szívükben és jámbor épüléssel. Annak utána pedig, hosszú időnek teltével, Szent Ferenc és Szent Klára a többiekkel együtt magukra eszméltek és lelki eledelekkel magukat megelégítettnek érezték, jóllehet alig illették a testi 3 eledeleket. Ezenképpen végezvén az áldott ebédet, visszatért Szent Klára jó kísérettel San Damianoba; mikor pedig az apácák őt közeledni látták, nagyon örvendeztek,
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mert féltek, hogy Szent Ferenc őt netán valamely más klastrom kormányzására küldte, miképpen ő 4 hugocskájával, Szent Ágnes sororral cselekedte , akit is apátasszonynak Firenzébe, a Monticelli klastrom kormányzására parancsolt; és mert Szent Ferenc némelykor mondotta volt Szent Klárának: „Légy készen, hogyha kell, elküldhesselek valamely más helyre”; ő pedig, miképpen a szent engedelmességnek leánya, felelé: „Én atyám, mindenkor készen vagyok, hogy elmenjek oda, ahová ti engem küldetek”. És ennek okából örvendeztek oly igen a sororok, mikor is visszanyerték őt és Szent Klára ettől kezdve felette nagy vígasztalással vala teljes. A Krisztusnak dícséretére. Amen. 1
Szent Klára az assisibeli Scifiek nemes törzséből származott és 1193-ban született Assisiben. Szent Ferencet először 1212-ben Nagybőjt idején hallotta prédikálni és szavai olyannyira elragadták, hogy szívében elhatározta, követni akarja tanításait, osztályosa akar lenni szent eszményeinek. És Virágvasárnapnak éjjelén Szent Ferenccel egyetértően elhagyta a szülői házat és az éjtszakában lement a völgybe, a Porciuncula kolostorába. Szent Ferenc a küszöbön várta és Szent Klára a S. Maria degli Angeli templomának oltára előtt az ő kezéből vette a fátylat. Ebben az órában alapította meg Szent Ferenc a Második Rendet, melyet az első időkben s. damianoi kolostorukról: S. Damiano szegényeinek, majd később Szent Kláráról: Clarissák rendjének nevezett. Krisztus leánya, Szent Ferenc ájtatos lelki palántája, dicsőséges mesterét és kedves pásztorát huszonhét évvel élte túl. Meghalt Assisiben 1253-ban. Két évvel később IV. Alessandro pápa szentté avatta. 2 Bettona kicsiny falu Assisivel szemben. 3 Mindezek pedig történtek 1221-ben. 4 Ágnes, Szent Klárának testvérhúga, 16 nappal nénje után az ő szavára lett Szent Ferenc követője. 1219-ben Szent Ferenc Monticellibe küldte és az ottani kolostor apátasszonya lőn. Meghalt 1253-ban Assisiban, hová őt nénje, Szent Klára hívta vissza. Tusnády László (1940) — Sátoraljaújhely
GYERMEKSZEMMEL
I. Haranghullás (A történelem forgószelében) A fönséges hangú, szép, nagy harang a földre zuhant, sírt, először és utoljára iszonyúan feljajdult. Biztonságos helyen, de a becsapódáshoz túl közel álltunk, és éreztem, átéltem a hatalmas érctömeg minden szenvedését. Valami izzott a levegőben, mintha megállt volna az idő. A hatalmas harang a lelkét egyszerre lehelte ki. Pedig ugyanolyan volt, mint korábban, csak akkor fent volt a magasban, most szerencsétlenül a földbe csapódva. Mily izgalmas volt, amikor fent a két mester szerelte, foglalkozott vele! Szinte még vártunk valamit. Korábban ott, fenn, a nagy deszkaépítmény rejtélyes zegzugában soha senkit se láttam, és egyszerre vége minden várakozásnak. Nem hosszan szólt a harang, hanem pillanatszerűen, egyszer és véglegesen. Beköltözött a fülembe ez a hang. Épp olyat azóta sem hallottam. Mesterséges zörej, a természet milliónyi megszólalása, a zene lélekáradása nekem olyat sohasem ismételt meg. Volt talán olyan hang, amely annak a réginek valami emléktornyosulását fel-felizzította az időben, de 94
ez valamilyen homályos visszazokogása volt annak a hajdaninak, egyszerinek. Mit értettem meg akkor, mit szőttem, fontam hozzá, míg különböző korok jelenségei robogtak el mellettem? Sohasem tudom megmondani. Valami véget ért. Tudtam-e akkor, hogy a harang hangját jelöltem ki ösztönösen valamilyen végzetes és áthelyezhetetlen időkezdetnek, nem világos előttem. Sok erős férfi a harangot valamilyen nagy járműre helyezte. Virágkoszorút fűztek köré, és útnak indították. Ezek a komor emberek, hajdani harcok szereplői, szemtanúi szoborszerű arccal magyarázták: ágyú vagy tank lesz belőle. Szólt a pacsirta. Szinte harsant a vetés. Katonák jöttek. Nekivágtak a zöld tengernek. Amerre jártak, mindent legázoltak. Sietős dolguk volt. Árkokat ástak. Póznákat helyeztek a földbe. Telefondrótokat húztak, feszítettek ki. Édesapámmal közölték, hogy ennek így kell lennie. Ő fájó szívvel féltette, sajnálta a pusztuló életet. Orgonavirágzás. Jönnek a lovak. Emlékezetemben azóta is. Meddig tudtam számolni? Nem tudom. De ma is biztosra veszem, hogy húsz- harminc csikó elvonulása után értettem meg, hogy iszonyú dolog történik. Az ifjú paripajelöltek sörényük mellett felvirágozva jöttek az emberekkel. Majd azok valami hurokfélével kirántották alóluk a lábukat, egy véres kezű nagyon gépiesen mozgó férfi azonos helyen, egymás után kést vágott az előtte kifeszített állat két lába közé. Rángatózott volna szegény, mintha a világból akart volna kifutni, de nagyon kemény vaskezek markolták, szorították, így csak a keserves, visszafogott, hullámzásszerű, enyhe vonaglást láthattam, de egyre inkább nem erre figyeltem, hanem a szemekre. Színük változott meg, a fényük tört meg, egyre inkább a szenvedés örvénylett körülöttem. Nem tudom, korai beavatás volt-e ez a számomra. Ha a cselédek kisintézőnek neveznek, akkor ezt nekem látnom kell, de én erre alkalmatlan vagyok. Tudom, édesapám csupa jót tesz, jót akar. Lehet, hogy az állatokat így kell gyógyítani. Lehet, hogy őket is elviszik, azért kell sebtében mindezt művelni velük. Elmennek, mint a szép, nagy harang, a harangok. Igen! Az a becsapódás úgy bennem maradt, hogy azóta nem tudom ezeket a hajdani idősziklákat kimozdítani mélységes-mély becsapódási helyükről. Fogalmam sincs róla, hogy a húsz-harminc csikó után még hány következett. Csak a szemek maradtak meg bennem, csak a huppanás hangja. Utána egy időre megállt bennem a világ, és a további zajlást, történésforgatagot valami örökre eltörülte. Főképpen így maradt meg bennem – évekkel későbbi időből – a temetések képe. Pintér tisztelendő úr évekig az öcsémet hívta és engem a temetésekre ministrálni. Néhány mellékes kísérő kép is megmaradt, de a koporsó lezárásakor felemelkedő kezek emléke a legerősebb. Nagyon idős asszony barázdált kezét ráncos kezű lányai szorongatják. Szegelés, kopácsolás hangja. Így szólt ez a keresztre feszítéskor is. Kis iskolatársam, halálba hullt lányka, kicsi virágszál fekszik a koporsóban. A borbély lánya. Itt más is történt. Az anyukája nemcsak a gyerek kezét fogta, hanem egyszerre rázuhant, és oly erővel olvadt össze a kis halottal, hogy alig tudták szétválasztani őket. Gergely állatorvost elvitték. Valamelyik közeli faluban lakott. Édesapám barátja volt. Ekkor tanultam meg ezt a szót: gettó. Édesapám, amint tehette, meglátogatta a
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barátját. Feldúlva jött haza. Hogy mi történt nem értettem, de bizonyos mondatok belém vésődtek. Oly megrendülten beszélt a barátjával, hogy az egyik őr durván rászólt: „Ha ennyire sajnálja ezeket itt, magát is hozzájuk zárom.” Ekkor édesapám a régi katonahangján ráförmedt az őrre, rendre utasította: vitéz rangjára hivatkozott. Ekkor tudtam meg, ekkor fogtam fel, hogy édesapám nem csupán intéző, hanem van valamilyen rangja is, amelyet egy közönséges őrnek tisztelnie kellene. Ez némi vigasz lehetett volna, de ezt édesapám hangulata végképp nem igazolta, mert a későbbiek során is azt emlegette, hogy a barátjának van egy velem egyidős feledhetetlenül szép, szőke kislánya, a szerencsétlen férfi érte aggódik, nem magáért. Ha nem a szüleinkkel voltunk, egy tizenkét éves, nagyon kedves lány, Pesti Ilonka vigyázott ránk, de volt, amikor nélküle barangoltam a mezőn, talán a testvéreim is másutt játszottak. Ilyenkor Gyigyó vagy Jánoska volt velem. Az öcsémmel, Gabival is gyakran voltam együtt. Pali, a bátyám három évvel idősebb nálam. Ő Nándor bácsitól, a káplántól németet tanult, és több más elfoglaltsága volt, mi, a két kicsi többet barangoltunk együtt. Gyigyó az uradalmi kocsisnak, Petruska Józsi bácsinak volt a fia. Csupa vidámság és szelídség volt. A közelében elfelejtettük, hogy nagy bajok ólálkodnak körülöttünk. Jánoska édesapánk egyik budapesti barátjának volt a fia. Kezdetben azt hittem, hogy ugyanúgy mókázhatok, játszhatok vele, mint Gyigyóval. Jánoska tizennyolc-húsz év körül lehetett, Gyigyó valamivel fiatalabb volt. Legjobb emlékezetem szerint semmi túlzásba nem estem akkor, amikor Jánoska váratlanul megrázott, és szigorúan ezt mondta: „Én nem vagyok Gyigyó!” Játszani tovább is lehetett vele. A szüleim vendége volt, és valójában az iménti érthetetlen viselkedésén kívül semmi rosszat sem cselekedett, mégis kezdtem sejteni, hogy vannak olyanok, akik nem szeretik a gyermekeket. Sőt, összességükben talán a felnőtteket sem. Igyekeztem a kellemetlen történetet elfelejteni. A napok valóban zavartalanul követték egymást. Semmi sem maradt meg belőlük. Annál emlékezetesebb a következő kép. Ragyogó napsütésben a malom mellett tartózkodtunk, Gabi, Jánoska meg én. A közelben juhok harapdálták a tarlón a sarjadó vagy maradék füvet. Morajlás, motorberregés hallatszott. Fényes repülőgéptestek szálltak a magasban. Gyökeret vert a lábunk. Pehelyszerű fehérség jelent meg. „Röplapok! Röplapok!” – kiabálták távolból az emberek. Mindenki más rajtunk kívül távol volt. Felvettem egy röplapot, és odaadtam Jánoskának, hogy olvassa el nekem azt, ami rajta van: „Egyetek, igyatok, nőjön meg a begyetek, és azután meghaltok.” Első olyan vers volt, amelyet első hallásra megtanultam, de soha senkinek se mondtam el, mert megértettem végleg, hogy valami nincs rendben. A propellerek riasztó berregése, zúgása azt fejezte ki, ami Jánoska ajkáról elhangzott. Bár ilyen badarságért miért szálltak fel azok a fényes gépek? De nem badarság-e eleve az, amiért felszálltak? Az biztos, hogy Gyigyó nem ezt olvasta volna, és akkor nem kavart volna fel ennyire az egész: evés, ivás és halál. Túl
világos volt előttem, és az is, hogy Gergely állatorvost és szép, szőke kislányát nagyon messzire vitték, távolabbra, mint ahonnan haza szoktak jönni az emberek. Kire ez a messzeség vár, kire a bombázók. Az élet viszont ment tovább. Egyre több német katona volt a faluban. Nagyon különös volt a beszédük. Édesanyám és Nándor bácsi is beszélt velük. Mindez nagyon izgatott. Lám, itt van az én édesanyám, eddig minden szavát értettem, most pedig semmit se. Megálljatok csak! Megfigyelem, amit beszéltek. Figyelés meg értés – ennyi az egész. Eddig is ez történt. Eddig is így jöttek hozzám a szavak. Csak hallgatni kell, hallgatni. Olyan ez, mint a járás. Egy darabig ügyetlen az ember lába, s egyszer csak elindul. Így figyeltem én ezt az idegen beszédet. Egyszer csak elindultam, de nagyon csúnyán földre estem. A számomra a legtermészetesebb volt, hogy ezt kérdeztem édesanyámtól: „Hol a Schwesterem?” Anyukám egyik barátnője élesen felkacagott: „Nézd már, hogy beszél ez a gyerek!” Kimondhatatlan harag szállt meg ekkor. Mit üti bele az orrát ez a néni az anyukám és az én ügyembe? Miért hiszi azt, hogy a „szvetter” szót nem tudom kiejteni? Én a „Schwester” szót hallottam az imént. Fogja már fel, arra vagyok kíváncsi! Anyukám kisvártatva szólalt meg, és végképp nem látta oly végzetesnek a helyzetemet. Azzal nyugtatta meg a barátnőjét, hogy oly sok idegen beszédet hall mostanában ez a gyerek, nem kell azon csodálkozni, ha valamelyik német szó ráragad. Lehet, hogy ő sem értette meg, hogy mit akarok. Lehet, hogy nem ott és akkor érdeklődtek a németek, hogy van-e lánytestvérem, de nekem ezzel a „Schwester” szóval komoly ügyem lett. Ismerni akartam, és biztosra vettem, hogy létezik. Furcsa haragom, szégyenem megakadályozott abban, hogy vele kapcsolatban bármit kérdezzek édesanyámtól, de arra rájöttem, hogy más szavak kapcsán jó kérdezgetni, mert készségesen és boldogan válaszolt. Mivel több kis halam is volt, azon törtem a fejemet, hogy halastavat készítek. Gödröt ástam. Ám a víz túl gyorsan „megszökött”. Úgy gondoltam, hogy rejtett vágyam jobban teljesül, ha németül is tudom a hozzá szükséges szavakat. Így tudtam meg édesanyámtól külön-külön a Fischteich (halastó), a „der Fisch”, és a „das Haus” szót, talán az „ist” (van) is elhangzott. Megnyugodtam, hogy „A halastó a hal számára ház” mondat lényegét már tudom más nyelven is. Bizonyos hiányt is éreztem, de ez nem zavart. A „Schwester” emléke furcsa módon megmaradt bennem. Jó darabig nagyon haragudtam arra, aki azért nevetett ki, mert nem értett meg. Jó a nevetés. Ezzel már akkor is tisztában voltam, de még jobb előbb gondolkozni, mert mindenhez kell valami: az, amit a nagyok alkalomnak neveznek, de sokan közülük már akkorára nőttek, hogy ezt a szabályt rég elfelejtették, ezért nevetnek, mint a fakutyák. Első nyelvi dohogásomból, korai felháborodásomból a történelem újabb fordulata zökkentett ki. Nyár volt még, amikor a gyönyörű paripáján engem gyakran lovagoltató Rademacher elköszönt tőlünk. Ő sokáig volt Csegöldön. Otthon gyermekei voltak, és én talán pótoltam őket egy kicsit. Így talán enyhült honvágya, hazakívánkozása. Zenélt is. Nagyon bánatos, sóvárgó dallamok szálltak fel a zongorából. Mikor a gramofont hallgatta, akkor is ezt a hangulatot idézte fel a zene. Eljött a búcsú napja. Egy tágas réten repülőgép szállt 95
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le. A hazavágyódó tiszt néhány társával felszállt. Nyugat felé vette útját. A repülőgépből egy virágcsokor ereszkedett alá. Rohantak az emberek, de amikor a közelébe értek, visszahőköltek, mert valaki azt kiáltotta, hogy robbanószerkezet van a csokorban. Természetesen nem volt. Újabb németek jöttek, de elég hamar továbbálltak. Ekkor már Szatmár bombázása javában tartott. A nagy kertben óvóhelyet ástak. Abban Gabinak kicsi fekvőhelye is volt, s ez nem féltékenységet, hanem némi karácsonyi hangulatot ébresztett bennem. Az óvóhelyet gally borította. A szobák ablakait fekete papírral vonták be. Ez volt az elsötétítés. Azt mondták, ha a pilóták nem látnak fényt, akkor biztonságban lehetünk. Nándor bácsi (Flesch Nándor, a káplán) többnyire kint volt a kertben. Sőt néha a magtár padlására is felment. Hol innen, hol onnan szemlélte a nem kívánatos égi fényeket. Olykor Palival együtt, vele lehettem. Ezt a tiszta életű, nagy hitű papot óriási nyugalom jellemezte. Úgy éreztem, nem érhet baj, ha mellette vagyok. Közeledett az ősz. Hűvösebbek lettek az éjszakák. Egyre többet mentünk le a pincébe. Ott nagy, üres hordók voltak. Rajtuk babszem, borsószem, és azok ugyanúgy „táncoltak” időnként, mint ahogyan azt később pontosan viszontláthattam lelki szemeim előtt akkor, amikor „Az egri csillagok”-at olvastam. A szatmári püspöki palotára láncos bombát dobtak. Sok kispap meghalt. Scheffler püspök úr épp a Szatmár-hegyen tartózkodott. Elég gyakran mentünk Szatmárra lovas kocsin. A háborúnak a „légi eseményeknek” a nyomait egyre inkább láthattuk. A mezőkön a „gyújtócédulák” emlékét őrizték a leégett vagy még lángoló kazlak. Amikor Radnóti verseit megismertem, ez a háborús kép oly közeli volt, mintha csak pár nappal korábban jelent volna meg előttem. A természetnek, az alföldi tájnak örökszép varázsa ugyanígy vésődött belém, és kötődött helyhez Petőfi versei által. Az ősz és a nyár látszólag gondtalanul, zavartalanul fogócskázott egymással. Óriási almatermés volt. Éppen a Szamos-parton, a Berekben voltunk. Valahonnan német katonák jöttek elő. Az egyikük nagyon derűsen beszélt édesanyámmal. Egy szó tért vissza folyton: „Wunderwaffe”. Édesanyám mindnyájunknak rögtön elmondta az új hírt. A német tiszt szerint visszavonulásuk csak időleges, mert hamarosan meglesz a csodafegyver, és akkor majd minden megváltozik. Csodafegyver! Én csodát csak szent dolgok kapcsán tudtam elképzelni. Annyira már ismertem a fegyverek világát, hogy eleve a halál fogalmával társítottam őket. „Megvan!” - villant az agyamba. „Most tart az egyetek igyatok, és ezután „jön” - következik a „majd meghaltok.” Hogy mi történt azután, azt a legbőbeszédűbb ember sem tudná elég részletesen és hűségesen elmondani. Az összeomlás nyilvánvaló, túl világos volt. Szatmár felől, Fehérgyarmat irányában özönlöttek a szekerek, kocsik, teherautók, mindenféle járművek, még gyalogosok is, akkora tömegben, hogy ellepték az országutat. OIyannyira, hogy ha Csegöldről Császlóra akartunk menni, csak nagy üggyel-bajjal tudtunk átvergődni a zárt rendet, szinte élő folyót alkotó ember-, szekér, autó-, teherautó-áradaton. 96
A szüleim maguktól sohasem gondoltak volna a menekülésre, de minket, gyermekeiket féltettek. Egybehangzó hírek szerint iszonyú mészárlásra kellett számítani. Úgy vélték, ha a harc megkímél minket, a sor az értelmiségieken lesz: a halál ujja az ész embereire mutat majd elsősorban. Ez az érlelődés hosszú fejezetet érdemelne, de most sokkal fontosabb a végeredmény. Ebben a leginkább az lep meg, hogy sok-sok évtizeddel később megtaláltam édesapám munkanaplóját, és mint valamilyen elvarázsolt vár híradását olvasom, hogy ezen a süllyedő hajón mily célszerűen, szabályosan végezték a dolgukat az emberek. Az őszi búza, a petkusi rozs, a zabos bükköny ugyanúgy létezett, mintha egy repülőgép, egy töltény sem lett volna a világon. A vulkán mélye viszont izzott. Kavargott a láva, és dönteni kellett. Nándor bácsi, a káplán híveivel akart maradni, de a németek meggyőzték arról, hogy itt nincs esélye az életben maradásra. A bolsevikok a papokat ölik meg először, ugyanakkor minden remény megvan arra, hogy nem fognak örökké uralkodni, és a híveknek papokra lesz szükségük. Épp ezért kell elmenekülnie. Őszinte és mély aggódással figyelte családunk sorsát. Erőnek erejével igyekezett rábeszélni édesapánkat, hogy meneküljünk el a háború – a front elől. Azt is tudta előre, hogy Debrecen környékén óriási és szörnyű tankcsata lesz. Hamarabb kell azon a területen túljutni, mert találhatunk olyan helyet, ahol a pokol földre szállásakor nagyobb biztonságban lehetünk. Édesapám hosszan töprengett, a menekülésre is felkészült, tétova lépéseket is tettünk, de végül is nemet mondott. Ekkor Nándor bácsi így szólt hozzá: „Lehet, hogy életben maradtok. Sőt, a fizikai szenvedéseket is ki fogjátok bírni, de azt, ami rád vár, lelkileg nem fogod elviselni.” „Wunderwaffe” – már ekkor tudtam, és a szótanulás legiszonyúbb emléke ez, és a másik szó, amelyet az öcsém ekkor tanult anyanyelvünkön, és én lendületesen, valamilyen haláltáncos játékba zuhanva ismételgettem vele együtt: „Ágyú, ágyú, ágyú.” Ekkor már az ágyúszót valóban lehetett hallani, egyre közelebbről. Pusztulás, leépülés, felbomlás. Az események menetét alig-alig lehet követni abban a felgyorsult és teljesen képtelenné vált időben. Az emberáldozat szörnyű adatai, fájdalom-jégmasszívumai oly nagyok, hogy a számadatok mélyén, világában képtelenség felmérni, felfogni azt, ami valójában történt. Magáról a korról okkal és joggal túl sokat írtak. Hadak vonulását, harci gépek összecsapását – fényképeket, filmeket oly mértékben lehet látni, hogy ha mindent el akarna olvasni, mindent meg akarna nézni az ember, akkor egy élet sem lenne elég. Ráadásul más feladat is van minden ember életében. Nem közöny az, ha képtelen a veszteséglistákat végigolvasni, hiszen ami ily módon egy felvillanó név, az valakiknek egy világ volt valaha. Sokat és joggal foglalkoztak a felelősöknek, a bűnösöknek kérdésével. Így hát továbbhaladhat nyugodtan bárki, mondván, hogy tudja, mi történt, és azzal is tisztában van, hogy minek nem kellene megtörténnie, de a kor egyik fő gonosza épp azt hirdette, hogy bűnösök csak a vesztesek között lesznek. Lehet igaza a sátánnak is? Valamit talán képvisel a létezésből. Elég Madách remekére gondolni, és láthatjuk, hogy más az, amit Lucifer képvisel, és más a
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teljes pusztulás: a Semmi Diadala. A végítélet is más. Hitünk szerint egy új, más minőség születése. Ez a háború a Semmit emelte igen nagy, talán végtelen hatványra. Tankcsata, repülőgépek összecsapása közvetlen környezetünkben nem volt, de a nagy változás ugyanúgy bekövetkezett, mint a mi világunkban mindenütt. Édesanyám egy orosz mondatot tanult meg Violától, egy kárpátaljai tanítónőtől: „Kágdá bugyet mir?” (Mikor lesz béke?) Az ágyúszót hallva, a szatmári bombatölcsérek láttán, égő kazlak éjszakai, hajnali lobogó fényében valóban a béke volt az áhított cél, fohász, oázis, és alig fogtuk fel, hogy a sok áldozattal együtt az emberből is elpusztult valami. Szörnyű vulkáni por kavargott a lelkekben. Olyan, amely bárhol összetömörülhet, bárhol lerakódhat, és képtelen, korábban nem tapasztalt cselekedetek oka lesz. Nem csak a tankok, a repülőgépek – a fegyverek képviselték az őrületet, a háború tébolya – delíriuma befészkelte magát sokakba. Az R. fiú rálőtt édesapámra. Miért tette? Katonaszökevény volt. Tettét ez a tény nem magyarázza meg. Valamikor alkalmazták az uradalomban? Lusta volt? Méltatlanul követelt bért, munkavégzés nélkül? A fegyver eldördült, de utolsó pillanatban Pista nagybátyám meglökte a puskatust, és a golyó nem ért célba. A támadó elrohant, és azt üvöltötte, hogy kézigránátot dob be a szobánkba, az ablakon át. Nemcsak a katonák jelenléte, a légi események, repülőgépek, Sztálin-gyertyák figyelmeztettek arra, hogy háború van, hanem a közvetlen pusztítás, annak megtestesült valósága már korábban is megmutatkozott. Szép terített asztal volt előttünk. Az ebédet már elkezdtük, amikor fülsiketítő robbanássorozat zavarta meg az augusztusi délidő nyugalmát. Napokkal korábban már tudtuk, hogy mi készül. Erre az eseményre édesanyánk úgy készített fel minket, hogy gyakran megkérdezte tőlünk: „Áll-e még a malmi kémény?” Tudtuk, hogy az egész malmot kéményestül, mindenestül fel fogják robbantani – a mezőgazdasági gépeket is. Horthysta katonatisztek irányították az előkészületeket. A végzetes időpontot nem tudtuk. Bekövetkezett. Ez a robbantás-sorozat olyan volt, mint a harang földre csapódása. A létezés valamilyen órája megállt a számomra akkor. Magam előtt látom, hogy édesapám elsápadt, de azt, hogy sírt, csak édesanyám elbeszéléséből idézhetem fel. Huszonkét év munkája, egy virágzó, szép gazdaság fő pillérének a leomlása pár pillanat alatt zajlott le. Közvetlenül onnan emlékezetemben nem folytatódik az idő. Ott nincs jelen a megújulás szelíd és megnyugtató ritmusa. Űr maradt utána: a semmi. A további létezésünket valamilyen szakadásos függvény írja le, és ez már korábban is létezett. Ott volt a bombázásokban, a röplapokon, az ártatlanok elhurcolásában, és a sorscsapás moraja ott keringett, zúgott az ünnepi asztal körül. Mi minden eltűnt, ami akkor ott jelen volt! Az a hajdani hang elkísér. Minden szép és nemes emberi munka veszélyeztetettségét hirdeti. Folytatás következett. A magtár tele volt betakarított terménnyel. Szűcs gazda őrizte a hatalmas kulcsokat. Katonák jöttek azzal a paranccsal, hogy a magtárt fel kell gyújtani. Édesapám magával vitt, hogy nézzem meg utoljára a hatalmas épületet, a rengeteg terményt.
Óriási nyüzsgés volt. Cselédek hordták nagy kötegekben, csomókban a szalmát. Valamilyen megnevezhetetlen rossz érzés költözött belém. Pedig a látvány egymagában nem volt csúnya. Mindent beborítottak, legalább térdig érő magasságig, az aranyló, szépen fejlett szalmaszálak. Oly különös volt a hatalmas, többszintes épület ilyen belső öltözettel, hogy csak megrendülten, döbbenten mentem ide-oda. Olyan volt a légkör, hogy csak a félelem, a pusztulás iszonyatát éreztem, és ekkor sem tudtam elképzelni, hogy bármilyen gyermekeknek kedvük szottyant volna – végső búcsúzóul egy jó nagyot bújócskázni a lehető legalkalmasabb búvóhelyen. Ez már a magtár temetése volt, és az nem játék normális embernek – gyermeknek sem. Az oroszok már közel voltak. A szüleim mindent előkészítettek, hogy végső pillanatban a Kistagra meneküljünk. Nem várhattuk az ellenséget a tiszti lakban. Rengeteg ruhaneműt, élelmet ládákban elástak, biztonságos helyre rejtettek. Az állatállomány nagy részét távoli, félreeső tanyákra menekítették. A szükséges szemestakarmány nagy részét szalmakazlak rejtett zugaiban helyezték el. Édesapám gazdasági feljegyzéseit, naplóját 1944. október 15-ig pontosan vezette. Utána felgyorsultak az események. Lehet másutt rögzítette a leglényegesebb tennivalókat. Erre vonatkozó adatokat nem találtam, de ma már ez teljesen lényegtelen, mert semmi sem maradt eredeti rejtekhelyén. Még a derengő fény nem vált külön az éjszakától, amikor édesanyánk felriasztott minket. Égett a magtár, fáklyaként lobogtak közvetlen közelünkben a dohánypajták. A lángnyelvek első megpillantásának az emléke él bennem, és az, ahogyan – talán a gyors taligán (de lehet, hogy kocsin) elrobogtunk az égő magtár mellett. A hatalmas lángnyelveket a fejünk fölé – az országút felé hozta a szél. Szinte nyaldosták a közelben álló nagy keresztet. Az úttól kicsit távolabb, az országút és a magtár között állt. Az első orosz néhány nappal később jött be otthonunkba. Iszonyúan fájt a foga – mutatta. A nagy vonulás a tanyát valóban csak enyhén érintette. A falut jóval erősebben. Ekkorra a tiszti lakot huszonkét cseléd család teljesen kirabolta. Az oroszok a burzsujt keresték. Mivel sehol sem találták, szétnéztek a parasztházakban, és megtalálták a nagy könyvszekrényünket. „Burzsuj!” – lengette az egyik tiszt a pisztolyát az egyik fosztogató felé. A szerencsétlen nyikkanni, nyekkeni sem tudott, és azt sem volt képes mondani, hogy „Nyet”. Ily módon (takim obrazom) az oroszok sehogyan sem értették, hogy mi történhetett. Hogyan került a „csizma az asztalra” – „burzsuj bútor” cselédházba. Különösképpen a számukra olyannyira megszokott „zabrálás” szó nem jutott ekkor az eszükbe. A hadvonulás első nagy hulláma után édesapám lóra ült, és bement a faluba. Harcedzett ember volt (a Piave mellett érett felnőtté az első világháborúban), de évtizedek múltán sem felejtette el, amit akkor látott: otthonunk teljesen kifosztva, az elrejtett, elásott ruhanemű, élelem mind eltűnt. A legérthetetlenebb az volt, hogy az irodát is teljesen felforgatták. Onnan nem volt mit elvinni, de minden irat a földön hevert. Sok helyen félméteres magasságban irat irat hátán. Ezt a képet én is jól szemügyre vehettem, mert édesapám eleinte Palit vitte be magával – ő már külön lovon lovagolhatott, engem később maga elé ültetett, és így 97
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lovagoltunk be nem a legszívderítőbb látványt megtekinteni. Édesapám a későbbiek folyamán minden iratot hangyaszorgalommal elrendezett. Fontossági sorrendben mindent úgy rakott össze, hogy csak évek múltán tudtuk meg, hogy miért volt ez a nagy igyekezet. A legsúlyosabb időben szobafogságra ítélték. A félelem érzete maradt meg bennem ebből az korszakból. Talán az irodába ekkor is átmehetett, így végezhette el akkor azt az emberfeletti munkát, hiszen az irodát idővel elvették. Dr. báró Vécsey József Aurél a tiszti lakot szolgálati lakásként bocsátotta édesapám rendelkezésére, majd a jogos tulajdonába, mivel édesapám, még a nagy összeomlás előtt vett egy lakást Szatmáron, ezt szánta nyugdíjas korára családi otthonnak, és ezt adta át a Vécsey családnak. Így szerezte meg a tiszti lak tulajdonjogát. Ám Szatmár újabb elcsatolása után ez a vásárlás a képtelenségek halmazát növelte. A tiszti lakban - ebben, a képeslapokon „kastély”-nak nevezett szép épületben nyolc szoba volt. Az oroszok bejövetele után, az új rend helyi urai két szobát hagytak meg nekünk, ezt a kettőt időnként újra és újra kiutalták nekünk, de ez a döntés sem számított egy más községből érkezett „újmódi” kiskirálynak. Valamelyest előre szaladtam. Illik visszatérnem az új korszak első napjaira. A Kistag (a császlói tanya) biztonságos helynek látszott. Az R. fiú fenyegetését komolyan kellett venni, ezért minden este anyai nagyapám és édesapám egy nagyon erős deszkaalkotmányt helyezett az ablak elé, arra számítva, hogy az a kézigránát ellen is nyújthat némi védelmet. Ez az alkalmatosság – emlékezetem szerint – egy német teherautón választófal volt, de a németek nálunk hagyták, mert nem volt rá szükségük a továbbiakban. A Kistagon ennek a „védműnek” az elhelyezése estéről estére szertartásosan megvolt. Talán később, egy darabig még a tiszti lakban is, de elég hamar elmaradt, mert újabb izgalmak vártak ránk. Az ördög fattya R. fiú lidérces lényként még vissza-visszatért az emlékezetünkben, de soha többé nem hallottuk a hírét. Tovasodródott a háború szennyes áradatával. A „kistagi létünk” történetéből töredékesen már elmondtam azt, hogy édesapám reggelente lóháton bement Csegöldre, felmérte a helyzetet, és tervet készített azzal kapcsolatban, hogy mi a teendő. Minden reggel útra kelt. Mint már említettem, egy másik lovon a bátyám is kísérte. Házról házra mentek, és kimutatást készített arról, hogy kinél melyik bútorunk van, és minden eltulajdonítónak bejelentette, hogy minél hamarabb szállítsa vissza a bútort eredeti helyére. A ruhaneművel, az élelemmel nem foglalkozott. A háborús kor emberének a lelkét békeidőben aligha lehet megérteni. A simai birtokon ezer almafánkat vágták ki. A császlói-csegöldi út mellől a nagy akácfákat eltüntették. Az erdő valamelyest messzebb volt mind a két falutól (több is volt, de a legveszélyeztetettebb a két település közötti szép fasor volt, a másik faluhoz pedig az almás volt közel). A vandál pusztításnak igazi oka nem volt, hiszen az említett almafák éppen termőre fordultak. Némi mentség, átlátszóan naiv indok a távolság lehet: mi volt a legközelebb az adott faluhoz? Valami képtelen magyarázat rejlik a világvégi hangulatban. Fura és képtelen ok inkább a félelem: egy orosz tiszt erdőgondnoki megbízatást adott édesapámnak (mivel 98
közel s távol ő volt az egyetlen mezőgazdasági szakember), a gyáva ember minden gonoszságra képes, ha nem lát maga előtt semmi hatalmat, és valóban visszás állapot, hogy a cél érdekében még az ellenséges oroszok is jobban védték erdeinket, mint azok a csavargók, akik az új rendnek a legvéresebb szájú hívei lettek. Továbbá az ilyen hivatalos megbízatásoknak sem volt mindenütt foganatja. Éppen édesapám beszélt arról sokat, hogy a következő évek nagy árvizei összefüggtek azzal, hogy a Kárpátokban rengeteg erdőt kivágtak. Az őrült fapusztításnak ideiglenesen vége lett, mert megjött a tavasz. Közben azért még nagyon sok minden történt. A hadvonulások nyomása alatt élő emberek lelkületét aligha említhetem, mert bárki azt mondhatja, mit fogott fel abból egy négy-ötéves gyermek. Ez igaz, de a szüleim erről a korról ugyanazt mondták el, ugyanazt a lényeget, amely már akkor megmutatta igazi, de fölöttébb rejtélyes arcát. Édesapám erre a korra is úgy emlékezett vissza, hogy őt a cselédek szerették. Ehhez valóban óriási hit kellett, mert minket a magtár fellángolásakor, az oroszok bejövetelekor ugyanúgy törvényen (szinte léten) kívüli lényeknek tekintettek, mint azokat, akiket gettóba vittek. Ez nem valami merész „csúsztatás”, hanem megdöbbentő tény a számomra. Újhelyi létünk hajnalán egy túl beszédes és fölöttébb talpraesett asszony azzal dicsekedett, hogy mi mindent sikerült elvinnie az elhurcoltak holmijából. Amikor a szüleim furcsa szemmel néztek rá, megvonta a vállát, és kifejtette, hogy a legtermészetesebb dolgot cselekedte, ha ő nem viszi el az említett holmit, elvitte volna más. Volt, aki a családban nem értette édesapám lelkesedését, cselédei iránti jóhiszeműségét. Ő azzal védte egykori beosztottait, hogy ha abban a közbiztonság nélküli időben őt lovaglás közben bárki lelőtte volna, semmiféle felelősségre vonás sem lett volna. Az ellenvetés így hangzott: „Nem jóságról van itt szó, egyszerűen csak gyávaságról.” Édesapám ezt nem fogadta el, de a lelkében tátongó sebet azzal is elárulta, hogy jó húsz évvel a történtek után, amikor Nándor bácsi először látogatott vissza Bécsből Magyarországra, megkérdezte tőle, hogy az egykori hívei miért cselekedtek így, hiszen szinte tragikomikus volt, hogy a hagyományos öltözetet kirívó módon tarkította a tiszti lakból elrabolt ruházat – főképpen az ünnepi szentmiséken, ráadásul ez nem történt meg így mindenütt. Nándor bácsi szomorúan nézett maga elé, de nem válaszolt. A bútoraink viszont maradéktalanul visszakerültek. A nagy könyvszekrény is, amely az eltulajdonítóját „burzsujjá” avatta. Ennek a szerencsétlen flótásnak a mohósága túlnőtt otthona méretein, mivel az ideiglenesen megkaparintott bútor nem fért be az alacsony ajtón, ez a nagy gyűjtögető még a küszöböt is felszedte… Két-három héttel az oroszok bejövetele után visszatértünk a tiszti lakba. A futólag már említett Viola nevű tanítónőt azért hívták meg hozzánk a viharos időkre a szüleink, mert ő tudott oroszul, így remélték, hogy nagyobb biztonságban leszünk. A következményekre viszont nem számítottak. Ezek a bevonulók minden bizonnyal fanatikusan harcoltak, de az összecsapások közti időben és a frontvonaltól bizonyos távolságra fölöttébb szabad mozgásterük volt. Így történt az, hogy egyre többen kerültek Viola vonzási
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körébe. Fura és képtelen dolog, de versenyeztek a kegyeiért. Közben az italt sem vetették meg. Egyszer óriási csetepaté zaja hallatszott az ebédlőből: visongás, rohangálás, valakik a hálószobánkba is berobogtak. Katonák voltak, és Violát keresték. Édesanyánknak ez elég volt. Mozgósított hármunkat, és valamelyik közeli cselédnél kaptunk jó menedéket. A hangokat figyeltük. Mikor a vihar elült, visszalopakodtunk. Nagy meglepetésünkre mindenki ép bőrrel megúszta a nagy viadalt, pedig még néhány fegyver is eldördült. Hogy mi történt, a nyilvánvaló párviadal hogyan zajlott, hogyan született megoldás, fegyverszünet, sohasem tudtuk meg. Viola nem tartotta fontosnak, hogy ilyesmiről beszámoljon. Fölöttébb rátarti lehetett, mert a hadak tovavonulása után jóval, meglátogatott minket, egy orosz katonatiszt társaságában, és azt mondta, hogy az a vőlegénye. Édesapánk ekkor még nem volt szobafogságon, és a vagyon roncsait igyekezett megmenteni. Kevés sikerrel, mert a vasvillás G. reggelente magasba tartott szerszámával indult újabb és újabb körútra, és mindenütt kaparászott, mindent megmutatott az oroszoknak, azok pedig mindent a sajátjuknak tekintettek. A németek mindenről számlát adtak, mindent kifizettek. Amikor a legnagyobb és legértelmetlenebb uszítás folyt a gazdatisztek ellen, akkor volt olyan buta ember, aki vádként azt is felhozta, hogy az intéző miért nem szabotálta a termelést. Statárium idején ilyet elképzelni sem lehet. Ráadásul, ha ezt valahogy mégis meg lehetett volna tenni, akkor főképpen a városi lakosságunk hamarabb és többet éhezett volna, és később az oroszok sem tudtak volna annyi mindent elvinni. Ekkorra már a fehérgyarmatiszatmári országúton egyre nagyobbra duzzadt az a lassan-lassan végeláthatatlan sor, amelyet elsősorban tehenek, lovak, ökrök és egyéb állatok alkottak. Ezek most nem nyugat felé vonultak, hanem kelet felé, kelet felé. Csegöldön az oroszok nagyobb ütemben cserélték egymást, mint kezdetben a németek. A leghosszabb ideig egy öreg, alacsony bajuszos katona maradt. Szelíd tekintetű, kedves ember volt, rendkívül tartózkodó. Azt rebesgették róla, hogy már a cári időben is katonáskodott. Épp az ellentéte robbant be váratlanul az úri szobába, mégpedig úgy, hogy a családom a tiszti lak más részén tartózkodott, csak édesanyám nagynénje, Mariska néni ült egyedül az egyik nagyfotelben. Elbeszéléséből tudtuk meg, hogy az óriási katona fegyveresen, bundában, kucsmásan a másik hatalmas fotelbe vágta magát. A fegyvert kezében támadásra készen tartotta, és úgy maradt mozdulatlanul. Mi, gyerekek be-bementünk a szobába. Oly sok furcsa dolgot láttunk már, hogy a két sóbálvány végképp nem lepett meg minket. Mariska néni különben is szerette az öklét összeszorítva az ölébe helyezni, nehogy valamilyen fertőzés érje. Ekkor is épp ezt a testhelyzetet vette fel. Talán ijedtebben pislogott, mint máskor, de ez ebben az időben végképp nem tűnt fel. Az orosz mozdulatlanságával inkább nyugalmat sugárzott, hiszen láttunk már jó néhány elég heves természetűt, izgágát is. Valamiért kíváncsi lettem arra, hogy mi lehet az udvaron, ezért a katona mellé mentem. Kinéztem az ablakon. Minden változatlan volt. Tanulmányoztam a pince tetejét, de az is unalmas volt. A katona túl meleg öltözetét látva csodálkoztam azon,
hogy miért van az rajta a fűtött szobában, de úgy éreztem, hogy Mariska nénit nem szabad zavarni, olyan nagy rémület ülte meg: valahogy összeszorult a szája. Nagyon meguntam az egészet. Ekkor jött be édesanyám Violával. A katona rögtön azt kérdezte, hogy miért fél az a bábuska annyira. Mariska néni persze rögtön azt válaszolta, hogy tőle. A katona felengedett merevségéből, és azt kérte Violától, hogy mondja meg a bábuskának, hogy ő ugyanúgy fél tőle. Ezt a jelenetet édesanyám többször elbeszélte idők folyamán, és mint derűs emléket idézte fel, hiszen a háború zivataros forgatagában valóban képtelennek látszott a hatalmas, mozdulatlan katona és a szintén merev, fekete ruhás, idős nagynéni. Viola szerint a katona olyan területről jöhetett, ahol partizánok tevékenykedtek, sőt, ő is lehetett az valamikor, és ezért volt oly gyanakvó és óvatos. Az orosz megszállás elején rendszerint az ágy alá bújtam, ha az idegen katonák közeledtek. Ám igen gyakran kíváncsiak voltak arra, hogy mi van az ágy alatt, ezért velük kapcsolatban a leggyakoribb emlékem a katonacsizma és a fegyver. Ösztönösen valamilyen mesebeli állat hangját hallattam, ezért a katonák különös érdeklődéssel figyeltek. Volt, aki szeretett volna előcsalogatni rejtekhelyemről, de nagyon gyanakvó voltam, különösen a rohangálásos jelenet után. Idővel rájöttem arra, hogy teljesen mindegy, hogy hol vagyok. Ezért mászkáltam oly magabiztosan a két „sóbálvány” mellett.
1) Folytatjuk
ESSZÉ Madarász Imre (1962) — Budapest/Debrecen
QUASIMODO MAGYAR HANGON
Az olasz irodalom nemcsak a művészi, de a terjedelmi nagyság tekintetében is „rekordteljesítményeket” mondhat magáénak. Ludovico Ariosto lovageposzáról, Az eszeveszett Orlandóról (Orlando furioso) Hegedüs Géza nem habozott kijelenteni, hogy „az egész európai 1 irodalomban a leghosszabb epikus költemény”. Pontatlanul, mert a szintén olasz Giambattista Marino Adonisa (Adone) még terjedelmesebb (eposzelődje 4847 „ottava”-jával, vagyis 38 736 „endecasillabo”-jával szemben 5123 „stanzá”-t, 40 984 verssort tartalmaz). S még a huszadik század második felében, 1982-ben is jelent meg – igaz, jóval kevésbé ismert költő, Edoardo Salmeri tollából – olyan eposz, mely nem kevesebb, mint 27 000 versszakban ünnepelte Giuseppe Garibaldit, „az emberiség lovagját” (Il Cavaliere dell’umanità). Ám olaszul írták a világirodalom legrövidebb versremekeinek egynémelyikét is. Elég talán Giuseppe Ungaretti több költeményére utalni, kiváltképpen a Reggelre (Mattina), amely mindössze két szóból áll („M’illumino / d’immenso”). Ez az epigrammáknál is tömörebb verskoncentrátum – mely magyar műfordítók 2 sorát állította nehéz feladat elé – határeset a versdefiníció szempontjából („…relatív 3 minimumszabálynak eleget tevő szöveg…” ). Ungarettivel már a Novecento alighanem legjelentősebb költői irányzata, az „ermetismo” nagy 99
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„triászánál” járunk, amelynek harmadik, legfiatalabb tagja, Salvatore Quasimodo (1901–1968). A jelen 4 tanulmány az ő „leghíresebb versét” elemzi, amelyet talán nem elfogadhatatlan túlzás az olasz literatúra leghíresebb rövid versének is minősíteni. A Nobel-díjas költőt alapvetően kétféle késztetés ihlette a szűkszavú kifejezésmódra: egy modern, korabeli és hazájabeli, irodalmár-környezetéből, s egy antik, a legrégibb időkből, az európai líra születésének korából. A hermetizmus az avantgarde irányzatok közé sorolható, jóllehet éppen az a törekvése, hogy a lehető legtömörebben a legtöbbet, a legsúlyosabbat mondja ki a klasszikus formatökély eszményének felújítása volt, egyfelől a dekadentizmus (főként a „dannunzianesimo”) esztétizáló-szóbűvész bőbeszédűségével, másfelől a futurizmus (Marinettiék) szövegpusztító nihilizmusával szemben, a „poézis” szó eredeti jelentésének megfelelő teremtő aktus, a művészi alkotás szembeállítása a világháborúk apokalipszisével, a totalitarizmusok fojtogatásával, az értékek és formák általános 5 válságával „a Nyugat alkonyán”. De Quasimódót szülőföldje, Szicília legrégibb hagyományai is a klasszikus tömörségre tanították, elsősorban azok a görög lírikusok, akiknek legkiválóbb modernkori fordítója lett (Lírici greci, 1940). A költők, Michelangelótól Alfieriig „és tovább”, a hagyománygyarapítás, „a semmiből világokat” létrehozó beszédaktus mellett meghatározónak érezték az elvonásnak, a „fölösleg” lehántásának, a „ráspolyozásnak” poétikáját. Hiszen a tökéletesség sokkal inkább elérhető a rövidítés, mint a bővítés útján: a hosszabbítás mindig fokozható, a sűrítésnek viszont van egy határa, mértéke, foka, melyet az érthetőség követel meg. Az Ed è subito sera már az 1930-as, első Quasimodo-verskötetnek (Acque e terre) a nyitódarabja, majd az 1942-es (addigi) összes verseknek a címadó, s azóta is minden lírai összkiadásnak az első költeménye lett. S maradt a „par excellence” Quasimodo-vers, az életmű kvintesszenciája, a huszadik századi olasz líra egyik legismertebb alkotása. A vers eredetiben: Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: 6 ed è subito sera. Magyarul eddig – tudomásunk szerint – négy fordítása látott napvilágot. Érdemes megismerkedni velük. Rónai Mihály Andrásé (És mindjárt este lesz): Ki-ki magában áll a Föld szivén, szivébe szúrva egy-egy napsurár, 7 és mindjárt este lesz. Képes Gézáé (És hirtelen leszáll az este): Mindenki egyedül áll a föld szívén, mit átdöfött a nap egy sugara: 8 és hirtelen leszáll az este. Majtényi Zoltáné (És rögtön este van): Mindenki magában áll a föld színén, átdöfve egy napsugártól: 100
s tüstént leszáll az este.
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Madarász Imréé (És mindjárt leszáll az est): Mindenki egyedül áll a föld szívén, átdöfi a napnak egy sugára: 10 és mindjárt leszáll az est. Arra a kérdésre, hogy a verstolmácsolások közül melyik a legjobb, a legszebb, a leghűségesebb, „személyes érintettség okán” sem válaszolhatunk. S azért sem, mert szemmel láthatóan az értékelésben, a rangsorolásban „külső”, „elfogulatlan” pályatárs is bizonytalanságot, önellentmondást mutat: Szénási Ferenc a Kráter Műhely Egyesület 1994-es Föld című Quasimodo-antológiájába kötetszerkesztőként még e sorok írójának fordítását választotta be, kötetnyitó versnek; ugyanezen irodalmár a Magyarországi Olasz Kultúrintézet által 2008-ban kiadott, a verset a legkülönfélébb nyelveken, összesen hetven fordításban közreadó kiadványba Rónai Mihály András 11 évtizedekkel korábbi átültetését „küldte be”. Mivel meglehetősen skizofrén eljárás lenne, ha egy költemény értelmezője a saját – szintén értelmezésnek számító – fordítása helyett (sajátosan felfogott szerénységből vagy udvariasságból) a másét használná, a következőkben maradunk a magunkénál, helyesebben az eredetinél, a mi közvetítésünkben. Az első verssor („Ognuno sta solo sul cuor della terra”) az ember centralitásának humanista és magányának individualista felfogását fejezi ki egyetlen modern-filozófikus szentenciában és költői képben. A „mindenki” (ognuno) és az „egyedül” (solo) szavak az emberi magányosság egyetemes-általános voltát érzékeltetik, míg „a föld szívén” (sul cuor della terra), azaz a glóbusz éltető középpontjában „álló” (sta) ember ideája az irodalomtörténet s a filozófiatörténet ismerőiben „a humanizmus kiáltványa”, Giovanni Pico della Mirandola Szónoklat az ember méltóságáról (Oratio de hominis dignitate, 1486) című művének a kifejezés mindkét értelmében isteni szavait idézi fel: „A világ közepére helyeztelek téged…” (Medium te mundi 12 posui…) Mintha az emberközpontúság rangjáért, a világ középpontjába helyeztetés dicsőségéért a magányossággal kellene fizetni. Aki a középpontban áll, csak magányos lehet. Aki – Picót idézve – „a többi lények” fölé emeltetett, közülük kiválasztatott, annak nincsen társa. „Átdöfi a napnak egy sugára” (trafitto da un raggio di sole): a három (szabad) verssor közül bizonnyal ez a legnehezebben megfejthető, a legtöbbféleképpen értelmezhető. Köszönhető ez elsősorban a napsugár, a fény metaforájának, amely a legkülönbözőbb jelentéstartalmakkal bíró szóképek egyike: a vallásostranszcendens ikonológiának éppúgy kiemelten fontos és pozitív jelképe volt, mint a laikus-immanens világképnek. Dante Isteni Színjátékának már első énekében a nap az a „csillag”, melynek isteni „fénye” az ember „drága vezetője, kincse”. Ám a felvilágosodás is – már nevében, öndefiníciójában, hitvallásában – a „Fények” terjedésével és terjesztésével azonosult: Parini poémája, A nap a napfelkelte jelenetével kezdődik, Batsányi A látójában „az igazságnak terjednek sugári, / Dőlnek a babona fertelmes oltári…” A kétféle fény közül melyik tündököl a Quasimodoversben? Salvatore Quasimodo, tudjuk, laikus, sőt,
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legalábbis egy időben, kifejezetten („történelmi”) materialista szemléletű volt; ám Curzia Ferrari egész könyvet szentelt „megszenvedett hite”, gyötrelmes keresztény istenkeresése bemutatásának (ez az egyetlen magyarul ezidáig megjelent Quasimodo13 monográfia) . És a sugár, amely által „átdöfött” (trafitto) a magányos ember, biztos, hogy oly pozitív jelentésű, megvilágosító, miként a misztikusoknál, felvilágosító, mint az „illuministáknál”? Öröklétünkre vagy múlandóságunkra világít rá? S milyen felismeréssel: olyannal, amely bearanyozza létünket, avagy olyannal, mely halálra sebez? Ha a napsugár egyedisége (un raggio di sole) az egyénre méretezett sors, „az ember sorsa”, akkor a küldetés vagy a végzet szinonimájaként? Netán kettős-közös jelentéssel? Ha a választ a harmadik sor adja meg, „zárlat” kegyetlenebb, drasztikusabb nemigen lehet. Az előzőeknél felével rövidebb verssor nem olyan aforisztikus módon szentenciózus, mint volt az első, hanem oly ítéletszerűen, akár a pálcatörés. Halálos ítéletet mond ki: halandóságunk, halálra ítéltségünk megfellebbezhetetlen igazságát. „És mindjárt leszáll az est” (ed è subito sera). Életünk rövid, halálunk gyors. Az élet „eliramlik” (Petőfinél), „elszökik” (fugge) előlünk (Petrarcánál), a létkérdéseket, létezésünk, embervoltunk végső kérdésein való bölcselkedésre nem hagy elég időt, „mindjárt” (subito) megszakítja életünket is, gondolatainkat is. Amiképpen a költemény is mintha félbeszakadna utolsó „fél” sorával. Ez az „est” (sera) nem a romantika álmodozó, a fantáziát szárnyalni engedő, az érzelmeket és gondolatokat a világos tények, a zord valóság uralma alól kiszabadító estéje, hanem a halál szimbóluma. „A végzetes nyugalom képmása” (della fatal quiete… l’imago), Ugo Foscolo Az estéhez (Alla sera, 1803) című szonettjét idézve, csakhogy nem „kedves” (cara), hanem 14 irgalmatlan. Talán éppen mert (újfent a foscolói koncepcióval egybehangzóan) „felvilágosult”: nem vigasztal a túlvilág reményével. Ez után az „est” után nem születik új „napsugár”, nem virrad fel új nap, nincs ami tovább éltetné „a föld szívén” a magányos halandót. Hacsak nem maga a vers. JEGYZETEK 1. Hegedüs Géza: Kalliopé bűvöletében, Budapest, 1988, 150. o. 2. Giuseppe Ungaretti: Mérték és titok. Válogatott költemények, Budapest, 1993, 29. o. 3. Szerdahelyi István: Irodalomelméleti enciklopédia, Budapest, 1995, 319. o. Szerdahelyi István: Verstan mindenkinek, Budapest, 1994, 15. o. 4. Salvatore Quasimodo: Ed è subito sera nelle lingue del mondo, Budapest, é. n. (2008). 5. Madarász Imre: Az olasz irodalom története, Budapest, 1993, 406., 412. o. Vö. Oreste Macrì: La poesia di Quasimodo, Palermo, 1986, 32–37. o. 6. Salvatore Quasimodo: Tutte le poesie, Milano, 1989, 23. o. 7. Rónai Mihály András: Nyolc évszázad olasz költészete, Budapest, 1957, 419. o. Vö. Modern olasz költők, Budapest, 1965, 208. o. Vö. Quasimodo: Ed è subito sera, 91. o. 8. Salvatore Quasimodo: Hazatérések. Válogatott költemények, Budapest, 1960, 43. o.
9. Curzia Ferrari: „Csönd Istene, tárd ki a magányt”. Salvatore Quasimodo megszenvedett hite, Budapest, 2010, 70., 243. o. 10. Salvatore Quasimodo: Föld. Válogatott költemények, Budapest, 1994, 13. o. Vö. Madarász: Az olasz irodalom története, 413. o. Madarász Imre: Az olasz irodalom antológiája, Budapest, 1996, 674. o. 11. Quasimodo: Ed è subito sera, 100. o. 12. Giovanni Pico della Mirandola: Discorso sulla dignità dell’uomo, Brescia, 1987, 4. o. Vö. Reneszánsz etikai antológia, Budapest, 1984, 214. o. Madarász: Az olasz irodalom története, 102–103. o. 13. Curzia Ferrari: „Dio del silenzio, apri la solitudine”. La fede tormentata di Salvatore Quasimodo, Milano, 2008. Magyarul l. 9. jegyzet. 14. Madarász Imre: „Végzetes nyugalom” – „dicsőségosztó halál”. Elmúlás és öröklét dialektikája Foscolónál in Madarász Imre: A legfényesebb századforduló. Tanulmányok a XVIII– XIX. század olasz irodalmáról, Budapest, 2009, 125–169. o.
Tomory Zsuzsa (1930) — Silver Lake (U.S.A.)
JÖVŐNK NEVÉBEN
Nemzeti öntudatunk, önmegbecsülésünk eddig talán soha nem tapasztalt mélypontra süllyedt. Ezen nem csodálkozhatunk, hiszen külső és belső ellenségeink az utolsó ezeregyszáz éven át ennek elérésén mesterkedtek. Soha ilyen eszmei magasságok nem hívták a magyart, mint a visszafordíthatatlannak látszó mélypont küszöbén. Lelkünk nem a vásári zsivajra ügyel, nem a pénzvilág naponkénti ijesztegetéseire. Ott lebegünk a lelki tisztaság magaslatain, hogy megteremtsük azt az eszményi birodalmat, melyre Isten hivott el bennünket. Pásztorruhába és báránybőrbe bújtatott farkasok ragadozzák el tőlünk értékeinket: őshitünk, ősműveltségünk termékeit, anyagi javainkat, hogy ezekkel felfegyverkezve világuralomra tehessenek szert, miközben ezek hordozóját a történelem máglyáira küldik, hogy ne maradhasson ténykedéseiknek tanúja. Ősemlékezetünk viszont csodákra képes: lelki, szellemi értékeink mindaddig csorbítatlanul élnek tovább, amíg magyar él Isten e szép világában. Időről időre ezen emlékek felszínre kerülnek, amikor ezekre legnagyobb szükségünk van. Váratlanul, hihetetlen élő erővel ontja ma népünk önmagából ősi emlékeit, imáit, történelmének mára alkalmazható emlékeit. Erdélyi Zsuzsanna ősi magyar imáit összegyűjtő gyönyörű kötete csak nagyszerű kezdet, az újjászülető lelki fény első villanása. Útunkat világító fények most terjednek, már a Pilis rengetegét világítják, mint Özséb idejében, s várják, hogy fényoszloppá válhassanak lelkünk gyógyítására. A Felvidék, Palócföld, Kárpátalja, Csángóföld, Erdély, Délvidék népének összefogó szeretete új fényszületések szent helyeivé válnak. S ezt meggátolni senki sem tudja, csak saját hitetlenségünk, érdektelenségünk, értetlenségünk. A soha nagy nyilvánosságot nem kapott karácsonyi lélek-útakat bejáró baranyaiak ősidőktől tartják nyitva a fény, a
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lélek, az Élet kapuját és az ezekhez vezető útat: évente repülnek mint a raj fényszületést ünnepelni. Az Isten éltető, gyógyító, fehér fénye minket keres. Hazánk egy nagy fényközpontját, a Pilist lelki indításból százával keresik fel napjainkban. E szellemi központ szürke és fehér-ruhás munkásainak fénylátó alapítója, Özséb, Pálos Rendjét hazánk felvirágoztatására hozta létre, s ennek megfelelően működtette, amíg II. József kalapos királyunk minden előzetes bejelentés nélkül 1786, február 7-én rendeletileg feloszlatta. A pálos atyák tanítási módszerei ismeretében nem kétséges, miért oszlatták fel e rendet: „A tanítási célokról Bakonyvári Ildefonz így ír, mondja Vetráb József Kadocsa egy dolgozatában: „Iskoláikban az oktatást úgy intézték, hogy az ítélő képességet az emlékező tehetséggel már a gyenge kortól kezdve egyenlő gonddal ejlesztették és olytonosan tökélyetesítették. E végből oly embereket akartak nevelni minél nagyobb számban, a kik ne csak sokat tudjanak és emlékezetükben tartsanak, hanem a mit tudnak, azt okosan és a józan észnek meg elelően a közös haszonra tudják ordítani… Nem elégedtek meg azonban azzal, hogy tudós és gondolkodni tudó embereket neveljenek, hanem minden tanítványukat az egyház és a haza hű fiává akarták tenni s azt a szent szeretetet, a mely az ő keblükben mind a kettő iránt lobogott, tanítványaiknak szívében is átönteni óhajtották. Az a rend, a melynek tagjai közől egyiknek sem volt szabad magát másnak, mint magyarnak nevezni, nem nevelhette növendékeit másnak, mint igazi magyaroknak.” Majd részletezi: „A rend felszámolásával, a vármegyei főispánok támogatásával, megyei és kamarai tisztviselőket, királyi biztosokat bízott meg. A végrehajtás lépései a következők voltak: először átvették a rendház kulcsait, majd nyilatkozati esküt (Juramentum manifestationis) tétettek az atyákkal, átvették a készpénzt és beszállították a kiküldő kamarához, ezt követően leltárt készítettek a kolostor összes ingó és ingatlan javairól, összeírták a kolostor épületét, a gazdasági épületeit, iskoláit a világi papok bútorairól sem feledkezve meg. Az eltörölt rend 25 kolostorának vagyonát 4 millió 593 ezer 460 forintra értékelték, ami ennél valójában nagyságrendileg több volt. A pálos testvéreknek ki kellett vetkőzniük a fehér rendi ruhából. Közülük némelyek plébánosként templomi szolgálatot vállaltak, nagyobbik részük a katonasághoz, néhányan főúri családokhoz kerültek nevelőnek. II. József halálát követően (1790) megindult a mozgalom a magyar pálos rend visszaállítására a konvent még élő tagjai között és az 1790-91-es pozsonyi országgyűléshez folyamodtak.” - Sikertelenül. A pálosok tanítása, mely az emlékező és ítélőképességet egyaránt fejlesztette a kora gyermekkorban ősműveltségünk sokezer éves hagyományain épült: népünk nem-mese-meséiben ugyanezt hangsúlyozza. Mikor a mesemondó figyelmeztet: nem mese ez gyermek – az emlékezés iránti igényt éleszti, s „aki nem hiszi, járjon utána” az ítélőképességnek ad fontos szerepet. II. József gyors munkája 1945-ben ismétlődött meg hazánkban, s folytatódik azóta is önismeretünk, történelmi távlataink felmérésére felkészítő oktatásunk rombolása. Ekkor lépett fel hazánk egy nagy tanítója, 102
Kodály Zoltán, ki minden erejével hangsúlyozta a magyarságtudat szellemi alapjai lerakásának fontosságát, már óvodás kortól kezdve Visszatekintés című könyvében. Néhány gondolatát hozom csak most: „Óvodáskorban a magyarság tudat alatti elemeinek beültetése, lassú kifejlesztése a feladatunk. Magyar mivoltunk épületének mintegy a föld alatti alapjait kell itt lerakni. Minél mélyebbre épül a fundamentum, annál szilárdabb az épület. A tudat alatti magyarság első talpköve a nyelv. A tudat alatti magyarság másik talpköve a zene. A tudat alatti nemzeti vonások legjobb megalapozója a néphagyomány, elsősorban játék és gyermekdalaival.” 1
„Nem hihet a magyar jövőben, aki nincs meggyőződve, hogy ez nem maradhat így. Képtelenség, hogy magyar gyermekek hathetedének nevelése a legfontosabb életkorban a véletlenre legyen bízva...” “A tudat alatti nemzeti vonások legjobb megalapozója a néphagyomány, elsősorban a játékés gyermekdalaival. Ezekben van ugyan, ami közös Európa népeivel, de van különbség is... A lélek alaprétegét nem lehet kétféle anyagból lerakni. Anyanyelve csak egy lehet az embernek, zeneileg is.” Kodályt hazánkban nemzetellenes erők ellehetetlenítették, s külföldi megbecsülésének is útjába álltak, aminek személyes tanúja voltam. Éppen így a magyar pálosok rendje nem állíttatott helyre a mai napig sem. Lássuk, miképpen szól erről Árva Vince atya, aki a magyar pálos rend egyedüli élő örököse: „Az újraindításhoz legalább egy püspök engedélye szükséges, akinek az egyházmegyei területén újjá lehetne szervezni az ősi pálos rendet. Sajnos, Magyarországon ilyen püspök nincsen!” (Árva Vince atya nemrég hunyt el.) A püspökök a Római Egyháztól a pálosok számára működési engedélyt soha nem kaphatnak, mint ahogyan nem kaphatnak magyar szóra éhes csángó testvéreink sem velük érző, egy nyelven beszélő magyar papot. El akarják torlaszolni a lélek fényét anyagi hatalom erejével, saját hatalmuk növelésére addig, amíg hagyjuk. Különben ezeregyszáz éves igyekezetük veszne kárba. Bátronak, vakmerőnek, szentségtörőnek látszik kimondani a következőket, mégis megteszem. Ismét. Utoljára akkor szóltam ezekkel a szavakkal, amikor utoljára tagadták meg magyar pap küldését Csángóföldre: Nincsen a magyarnak szüksége a római egyházra se szerzetesrend alapításához, se magyar pap küldéséhez, csak az iralmas Isten jóságos szeretetére, segítségére, ki mindig küld számunkra lelki vezetőket a szükség napjaiban. Akkor is, ha a világ hatalmasainak ez nem illik a tervébe. Isten kegyelméből él még az utolsó pálos pap Magyarországon. Irányításával újra fel lehet építeni az elveszett, magyar-védő, magyart szolgáló papságot.
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Ezt meg nem tenni felelőtlenség, hiszen előttünk áll az ősi intés: a pálosok sorsa a magyarság sorsát mintázza. Ennek igazságát napjainkban tapasztalhatjuk. Még előttünk a kegyelmi idő talán utolsó perce. Árva Vince idős vállain nyugszik hazánk felvirágoztatása felé vezető út megmutatása... Karoljuk fel szerető tisztelettel, s építsük a magyar jövőt, mert helyettünk azt senki sem teheti meg. (Árva Vince atya halála előtti szinte utolsó pillanatban átadta hazánk gondját egy arra méltó magyarnak.) Ugyanakkor ne feledkezzünk el Táltosainkról, Isten álruhás szolgáiról, kik ezer éves bújdosás után még mindig járják a magyar vidéket, tanítva a népet. Ne feledkezzünk el táltos-lelkű költőinkről, akik népünk hű pásztorai, s mindenkor irányt mutatnak. Ne feledkezzünk el táltos lelkű tanítóinkról, akik mindig az ősi, tiszta forrásból adnak a szomjúhozó népnek. Pázmány Péter is felismerte, ha megszűnik az a lelki közeg, mely élteti a pálos rendet, Magyarország is elveszik. Tovább mehetünk egy lépéssel: Ha megszünik a magyarság fény és eszme-hordozó szerepe, elpusztul a világ. Neveljük gyermekeinket magyar szellemiségben, az ő irányításukkal, nemzetünk, hazánk iránt érzett felelősségtudattal, egymás iránti szeretetben, mint elődeink. És kéz a kézben imádkozzunk Istenbe vetett hittel hazánkért naponta. Emlékeztetőül Wass Albertet idézem: Wass Albert: Ébredj, magyar! Országodon kufárok osztoznak, rabtartóid leszármazottjai, s kik raboltak, öltek, véredet vették, ma mástól rabolt palotákban élnek. Szétterelnének száz apróka pártba, hogy szavazatod feldarabolódjon, s egy kisebbség, fölzárkózva keményen, uralkodhasson a többség felett. Gyermekeid lelkéből már kiöltek tisztességet, Istent és Hazát. Volt kínzólegények demokráciára tanítják ma az unokát. Szabadságról rikácsol a lopó, a fosztogató igazságról fecseg, s aki kifosztott, ma igazságról kesereg. 1
Kodály Zoltán Visszatekintés, 93-95. old.
Fonte: http://tomoryzsuzsa.weebly.com/ Szerk.: Árva Vince pálos atyát (Rimóc, 1932. október 14. – Budapest, 2008. december 15.) 2006. január 15-én helyezték örök nyugalomra a Szentháromság (Hosszú) temető papi sírkertjében.
Tusnády László (1940) — Sátoraljaújhely
GYÖKEREINK
V. Megvalósulás és részesülés Valamiben részesültem, oly áldásban, amely kapcsán semmi reményem sem volt, hiszen az ember élete véges. Gyermekkorában kialakul az, hogy mi lesz a küldetése, és boldog, ha a kijelölt úton végig tud haladni: a körülmények hatalma nem győzi le, megvalósulása előtt nem tiporják le az életellenes erők. A zene a boldogságom egyik része. Ki tagadná, hogy az ember gyermekkorában a legboldogabb, talán azért is, mert ekkor a legtisztább. Ezt látta meg a gyermekekben Jézus, ezért kérte, hogy engedjék őket hozzá, ezért kérte tanítványaitól, hogy a bennük lévő gyermeki tisztaságot őrizzék meg. Tudom, hogy nem magamról akarok vallani, de az indíttatás, az első mozgató megnevezése nélkül a csonkaság szakadéka ásít az emberre a mélyből, csupán ezt akarom elkerülni. Mi köt a népdalhoz engem? Egész életem, múltam. Csegöldön, kicsi falunkban valamikor a II. világháború után feltűnt egy üstökös. Furcsán mondom, hiszen már akkor is tudtam, hogy azt másutt is látják, de a számomra akkoriban még ez a falu volt a világ. Láttam, igaz, Szatmárt a bombázások után, de az, mint rossz álom élt bennem. Idegen test volt, és bontakozó elmém kidobta magából, mert világom, a kicsi falu volt, Csegöld, és persze, a természet, a nyári hatalmas viharok, Muki lovunk, együtt létezés testvéreimmel, mindaz, amit szüleimtől kaptam. Felsejlettek a máramarosi bércek, és tudtam, hogy azok vidékünk csodáihoz tartoznak. A fészekből kihullott madaraimnak kis házat építettem, és végtelenül szomorú voltam, ha itt hagytak, ha ellobbanó szemviláguk szinte vádolt, hogy nem tudok segíteni rajtunk. Rádiónkat a „felszabadulásunk” idején elrabolták, édesanyám régi zongorájának a húrjait kitépték. Ám esténként madárdal csendült, különösképpen a Gőgő felől, onnan áradt az álomba ringató béka-hangverseny, és időnként az egyik hajdani cseléd otthonából furulyaszó hallatszott. Édesanyám tudta, hogy egy legény játssza azokat a csodálatos dallamokat, és mohó vágy élt bennem, hogy valami hasonlót én is tudjak. Iszonyú drámák játszódtak a környékünkön. Malenkij robotra vitték az embereket. Később tudtam meg, hogy az egyik tizenhét éves unokatestvéremet is elvitték a „felszabadítók”, és sohasem tért vissza. Pintér tisztelendő úr az öcsémet és engem hívott a temetésekre ministrálni. A BCG-oltás egyik „áldozataként” emlegették a borbély kislányát, osztálytársamat. Felravatalozva ott volt a szobában. Édesanyja a kezét szorongatta, de a koporsót lezárták, és örökre belém vésődött az anya reménytelensége. Pintér tisztelendő úr hozzánk is megérkezett: édesanyám nagynénjének a koporsója mellett állt, és beszéde az agyamba vésődött: bárki legyen is az ember, elébb-utóbb hozzá is megérkezik a halál. Ez jutott eszembe akkor, amikor rábukkantam a török közmondásra: „A halál fekete teve, minden kapuban letérdepel.” ( Ölüm bir kara deve dir, her kapıda çöker Ölüm bir kara deve dir, her kapida csöker).
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Ám a falu-mindenségünk felett lobogó üstökös egyszerre szült félelmet és bizakodást: valami több van, valami ismeretlen, megfoghatatlan, és ettől szép az életünk. Komolyan vettem, amit kicsiny társaim erről az égi jelenségről beszéltek. Csak érett fővel jöttem rá arra, hogy ezekben a magyarázatokban semmi sem létezett a „modern”, elfogadható, tudományos világképből, valami ősi megérzés volt, évezredek üzenete, amelyet a „haladás” örökre elmosott, de utolsó híradásából még valamit megsejthettem. Ezek a gyermekek csupa olyan ruhát viseltek, amelyet a szüleik otthon állítottak elő: a kender a gyapjú létezésük közvetlen kelléke volt. Amikor édesapám rámutatott a hetvenéves bikagulyásra, és azt mondta, hogy húsz év múlva ő is ilyen idős lesz, ha megéli, megdöbbentem, de tudomásul vettem, hiszen ez az élet rendje. Míg élünk, ennek örülnünk kell, erre tanított az a titokzatos fuvolaszó, de azt nem hallgathattam sokáig, mert egy ördögi vezető két rendőr segédletével az utcára lakoltatott ki (dobatott ki) minket az otthonunkból. Ez ezerkilencszázötven augusztus 16-án történt. Így kerültünk Sátoraljaújhelyre. Erőszakos módon szűnt meg a „falusi idill”, amelyről már gyermekésszel is tudtam, hogy nem volt igazi idill, de a remény megvolt benne, mert éltünk, éltem. A város peremén lett otthonunk. Éjszakánként rejtélyes és félelmes füttyjelek figyelmeztettek arra, hogy nem a béke hajlékába kerültünk, de a „hasonlíthatlan szépségű” Sátor-hegyek, a jó levegő, a források adta, táplálta ivóvíz lassan-lassan otthonunkká avatta ezt az új helyet is. Édesanyánk első megtakarított pénzünkből a zongorát javíttatta meg, és ekkor kezdődött életem három feledhetetlen éve: az ő irányításával minden szabadidőmben zongoráztam. Mi mindent mondhatnék el ebből az élményből, a számomra soha el nem hamvadó boldogságból, de most nem erről akarok beszélni, mert utam más irányba tért: a nyelveknek, az irodalomnak a vonzása lett az erősebb, és én engedelmeskedtem a természet parancsának. De ezek az új szerelmeim sem tagadtatták meg velem a zenét. Sőt épp a zene segített abban, hogy hozzájuk minél inkább közelebb jussak. Tudomásul vettem, hogy a zenének szépre szomjazó befogadója vagyok, de többre nem vágyhatok, hiszen az ember élete nem végtelen. Az olasz művelődés minden állomásán a zene is rám köszöntött. A versírásban, a fordításban, de talán még a lélegzetvételemben is segített, de ezt természetesnek tartottam, és hosszú-hosszú ideig úgy gondoltam, hogy erről az élményről sohasem fogok beszélni, de maga a zene szólított meg. Újra hallom a csegöldi furulyaszót, újra járok Kis-Ázsia távoli vidékein, és hallom azokat a dallamokat, amelyek örökre szívembe ivódtak, és nem értem a csönd-kövületet, amely szemem láttára nőtt, serkent, egyre nagyobbra. Semmiféle értékes és vitathatatlanul indokolt szép és értékes műsorról nem akarok úgy beszélni, hogy azt marasztaljam el, amit éppen hallottam: „Ritkán hallott remekművek” villan szemem elé egy cím. A nyugati zene kincsestárának valóban méltatlanul elfeledett mesterei élednek újjá. Ki irigyelheti tőlük, ezt a röpke újjászületést. A keleti népzenének is megvan a maga szép és tartalmas sorozata. Nem arról akarok beszélni, ami van, ami indokoltan létezik, hanem arról, ami a 104
számomra teljesen rejtélyes és érthetetlen módon nincs, nálunk nem létezik, pedig másutt van, létet követel, és az értékek mérlegén a legelsők között van. A számomra ilyen Adnan Saygun zenéje. Itthon a mi rádióink valamelyikén négyszer vagy ötször hallhattam egész életem során. Ritkán vagy a legritkábban hallott zeneművek között van-e alkotásainak a helye? Én nem ott tartom számon, életem része, ezért beszélek róla. Nálunk a fájó közöny netovábbját épp a bartóki kapcsolat, barátság miatt érzi igazán az ember. Hiszen Bartók zeneszerzést senkinek sem tanított. Különös nagy alkalmakkor, világra szóló rendezvényeken találkozott híres kortársaival, de egyedül Adnan Saygun volt az, akinek ő személyesen és baráti alapon is annyira meghatározta az élet.
5) Vége
HÍREK –VÉLEMÉNYEK – ESEMÉNYEK Notizie – Opinioni – Eventi
Il 26 giugno 2014 ha avuto luogo presso il Bistrot de Venise di Venezia la MOSTRA DI INCISIONI UNGHERESI: è stata presentata una rassegna di 15 incisioni ungheresi del ventesimo secolo appartenenti ad una raccolta più ampia fortunosamente raccolta in Italia dal professor Giuliano Agostinetti. Si tratta di un insieme di puntesecche, acqueforti ed acquetinte. Nella raccolta prevalgono le puntesecche probabilmente perché nel periodo del comunismo l’acido necessario per operare nelle altre due tecniche era particolarmente difficile da trovare. Gli autori ebbero in vita buona fama e diffusione, molti anche incarichi ufficiali. Nonostant e ciò, in queste grafiche, il cui soggetto è per lo più il paesaggio naturale ungherese, non si ritrova nulla che possa far pensare a un’arte di regime. Sono anche presenti vedute di città e qualche scena con figure. L’epoca delle opere va prevalentemente dagli anni cinquanta agli anni settanta del novecento. I nomi degli autori sono quasi del tutto ignoti in Italia, ma in Ungheria grafici quali István ZÁDOR (1882-1963), István IMRE (1918-1983), Lajos NOVÁK (1927-1989), Ilona FEHÉR (1913-1983), o István BIAI-FÖGLEIN (1905-1974) furono ben noti e godono ancora di un certo prestigio commerciale. Le opere vengono presentate nelle stesse cornici originali entro cui venivano vendute all’epoca. La selezione delle opere presentate al Bistrot è a cura di Judit Horváth Fontana e Giuliano Agostinetti.
Veduta di Budapest, István Zádor (1928)
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L’Università degli Studi di Padova e il Master Death Studies & the end of life, in collaborazione con associazioni e organismi di ricerca nazionali e internazionali, ha organizzato e promosso il Congresso multidisciplinare internazionale “Vedere oltre. La spiritualità dinanzi al morire”, che si era tenuto a Padova dal 25 al 28 Settembre 2014. Ines Testoni, direttrice del congresso, ha annunciato nella sua presentazione: “Il congresso è internazionale e riguarda le forme con cui le diverse culture si rappresentano il principio trascendentale che oltrepassa la morte ma anche come questa visione significhi lo stato di malattia. Tra le sfide più importanti che gli esperti della salute devono affrontare, appare con evidenza l’istanza spirituale e la necessità di conoscerne i linguaggi per poter autenticamente comprendere la ricerca di senso della malattia e della cura, là dove salute è solo un aspetto della salvezza”. Erano presenti autorità molto significative del mondo scientifico e spirituale. Ecco dei relatori: Marcelo Sánchez Sorondo, Vincenzo Vitiello, Emanuele Severino, Massimo Donà, Armando Torno, Flavio Ermini, Giuseppe Micheli, Ines Testoni.
Emléktábla Korompay Emánuel Aladárnak az ELTÉ-n
Történelemórák a szabadságról címmel nagy sikerű előadást tartott a Kar Tanácstermében Bronisław Komorowski, a Lengyel Köztársaság elnöke. A Kar hallgatóinak és oktatóinak illetve meghívott vendégeknek tartott előadás A Szabadság Ünnepe 2014 programsorozatba illeszkedik. Mivel az ELTE BTK nem csak az ország abszolút első számú kara, de egyben a legnemzetközibb is (64 nyelv oktatása folyik a Karon és a kulturális sokszínűség legfontosabb tudományos központja), magas szintű diplomáciai látogatások és előadások (Wen Jiabao /Ven Csia-pao/ a Kínai Népköztársaság miniszterelnökének előadása 2011. június 24-én; Recep Tayyip Erdoğan török miniszterelnök előadása 2013. február 5-én, stb.) gazdagítják havi rendszerességgel a hallgatók életét. Az előadást követően a lengyel köztársasági elnök és Áder János Magyarország köztársasági elnöke a Bölcsészkar kampuszán a Gólyavár falán emléktáblát avatott a Kar egykori hallgatójának, a katyńi mészárlás során agyonlőtt Korompay Emánuel Aladár tartalékos lengyel századosnak. Korompay Emánuel Aladár 1912. október 3-án vette át a Királyi Magyar Tudományegyetem Bölcsészeti Karán diplomáját Fináczy Ernő dékántól. Harcolt az első világháborúban, majd harcolt Józe Piłsudski hadseregében a lengyel függetlenségért. A Józef Piłsudski Egyetem magyar lektoraként 1939-ben tartalékos lengyel századosként bevonult a lengyel hadseregbe. Valamikor 1940 április-májusában a sztarobjelszki fogolytábor 3.739 lengyel tisztjével együtt – a katyńi mészárlás részeként – agyonlőtték. Emlékművük Pjatyihatkiban áll. Korompay Emánuel Aladár emlékét emléktábla őrzi varsói házának, valamint a Varsói Egyetem mai Orientalisztikai Tanszékének, az egykori Magyar Tanszéknek a falán – és a mai naptól fogva alma matere, a Bölcsészkar falán is. Az emléktábla megkoszorúzása után a két köztársasági elnök tölgyfát ültetett az esemény emlékére.»
Az ELTEBölcsészettudományi Karánaz alábbi hír olvasható: «Március 21-én a Karunkra látogatott a Lengyel Köztársaság elnöke, Bronisław Komorowski és felesége, Anna Komorowska. A lengyel köztársasági elnök felesége, Anna Komorowska asszony a délután folyamán látogatást tett a Lengyel Filológiai Tanszékre, ahol Bańczerowski Janusz professzor emeritus és Ráduly Zsuzsanna tanszékvezető asszony bemutatták a tanszék történetét, a jelenlegi helyzetet, valamint beszámoltak a Władysław Stanisław Reymont teremben történt legutóbbi felújítási munkálatokról, továbbá felvázolták a jövőbeni kilátásokat. Mindezek után Komorowska asszony a résztvevőkkel együtt átsétált a tanszék többi terméhez, majd a Szláv és Balti Filológiai Intézet könyvtárában oktatókkal és lengyel szakos hallgatókkal kötetlenül beszélgetett a köztársasági elnök előadásáig.
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A fenti emléktábla megvalósulása érdekében vszeprémi leveleyőnk, Dr. Paczolay Gyula az alábbi ajánlott levelet küldte az ELTE rektorának: « [...] Veszprém, 2013. november 12. Tárgy: Javaslat Korompay Emánuel (1890-1940) emléktábla felállítására egykori alma materében. Tisztelt Rektor Úr ! Közös ismerősünk, dr. Kahler Frigyes c. táblabíró tanácsára fordulok Önhöz egy javaslattal. Az ELTE jogelődjén, a Budapesti Tudományegyetem Bölcsészettudományi Karán végzett 1912-ben Korompay Emánuel Aladár, aki rövid lévai tanári tevékenység után bevonult a hadseregbe, s a galíciai frontra vezényelték. A háború után feleségül vette lengyel tolmácsnőjüket, felvette a lengyel állampolgárságot és főhadnagyi rangban belépett a lengyel hadseregbe. 1930-ban a varsói Józef Pilsudski Egyetemen átvette a magyar lektori teendőket, kiadott egy magyar-lengyel és egy lengyel-magyar szótárat és egy lengyel-magyar társalgót is. Az 1939. aug. 23-i Molotov-Ribbentrop paktum titkos záradéka alapján 1939. szept. 1-jén a német, 17-én pedig a szovjet hadsereg megtámadta Lengyelországot. Az akkor lengyel diákjaival éppen Magyarországon tartózkodó Korompay Emánuel sürgősen hazatért és tartalékos tisztként bevonult a lengyel hadseregbe. Szovjet hadifogságba, a sztarobelszki fogolytáborba került. Így 1940-ben, lengyel tiszttársai túlnyomó többségével együtt Harkovban ő is megkapta a Berija előterjesztése alapján, az SzKP KB 1940. márc. 5-i döntése alapján jóváhagyott "neki kijáró" tarkólövést. (Katyńban a kozielski, Twerben az ostaszkowi tiszti tábor lakóit gyilkolták meg.) Több mint tíz éve, javaslatomra a Varsói Egyetemen a jelenlegi Orientalisztika, az egykori Magyar Tanszék épületén Korompay Emánuel tiszteletére emléktáblát állítottak. Ezt 2002. nov. 21-én, a Magyar Tanszék fennállása 50 éves jubileumi ünnepségei keretében, magyar parlamenti küldöttség jelenlétében, katonai tiszteletadással leplezték le. Az emléktábla képe, szövegének magyar fordításával együtt megtalálható az egyik csatolt mellékletben, az Élet és Tudomány 2008. május 9-i száma 589-590. oldalán olvasható "A szovjet Eichmann magyar áldozata" c. írásban. Javasolom, hogy legyen egy emléktáblája Korompay Emánuel Aladárnak egykori alma matere jogutódjában, az Eötvös Loránd Tudományegyetemen is. Tisztelettel Dr. Paczolay Gyula ny. egyetemi docens Pannon Egyetem Mellékletek Maria Skrzyńska-Pławińska (red.): Rozstrzelani w Charkowie. (A Harkowban agyonlőttek.) Alfabetyczny spis 3739 jeńców polskich ze Starobielska 106
rozstrzelanych w kwietniu-maju 1940, według źródeł sowieckich i polskich. (3739 starobielski lengyel fogoly neve abécé-rendben, akiket 1940 április-májusában lőttek agyon, szovjet és lengyel források alapján.) – Ośrodek Karta, (Warszawa) 1996. 2-5. 94-95. old. Paczolay Gyula: A szovjet Eichmann magyar áldozata. – Élet és Tudomány 2008/19. szám, 589-590. old. (2008. máj. 9) Konrad Sutarski: Az én Katyńom – Mój Katyń. – Püski Kiadó, Budapest, 2010. 2-5, 122-125. old. (A lengyel szerző édesapját is Harkovban lőtték agyon.) Németh István: Katyń, 1940. Lengyelország a Szovjetunió és Németország 'életterében' (1914-1945) Összegezés és dokumentumok. – L'Harmattan Kiadó, Budapest, 2013.) 84-87. old.»
GYÁSZ — Augusztus 29-én volt a temetése Százhalombattán dr. Szűcs Isvánnak, aki 1956-ban Veszprémben negyedéves hallgatóként az itteni MEFESZ szervezet egyik megalapítója, majd szervező titkára és a város egyik képviselője volt a Megyei Forradalmi Tanácsban. Novemberben őt is deportálták a Szovjetunióba. Hazakerülése után segédmunkás, csak 1963-ban kaphatott diplomát. Ezt követően kutatómérnök a veszprémi MÁFKI-ban, majd Százhalombattán üzemvezető, a
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rendszerváltás után parlamenti képviselő, az Antall-kormány energetikai ügyekért felelős államtitkára. Politikai tapasztalatait a Püski Kiadónál megjelent "Mérföldkövek ... " c. könyvében írta meg. (Dr. Paczolay Gyula) Szűcs Marika
DR. SZŰCS ISTVÁN EMLÉKÉRE Kedves Rokonaink, Barátaink! Előzetesen – akinek ismertem a telefonszámát – már küldtem értesítést, hogy Dr. Szűcs István, vagy ahogyan legtöbben szólítottátok: Szűcs Pista, 2014. 08. 10-én, délután 14 óra 30 perckor visszatért Teremtőjéhez.
Ezek a visszaemlékező belőlem ide a papírra.
gondolatok
kiömlenek
A mi életünk története, mint mindannyiunknak, akik itt élünk e Földön, ebben a Testben, mesebeli fordulatokat vett. Ha egy filmen végignézhetnénk azt, akkor egyik pillanatban nevetnénk, a másikban meg hulló könnyek záporán át néznénk. Több mint 35 évvel ezelőtt, így fonódott össze életünk szála:
Tudjátok, hogy 18 évvel vagyok fiatalabb Pistánál, tehát az, hogy Ő a Tanítóm volt ebből is adódik, no meg persze az Ő mentalitásából. Kemény tanító volt az utolsó leheletéig, mert maga is csupán a 100 %-os teljesítményt ismerte, vagy inkább mondjuk úgy: számára csak ez volt elfogadható. Nem mondom, hogy az általa magasra tett mércét könnyű volt a család bármely tagjának átugrania, nem voltam egyedül, mert amikor összekerültünk, nekem volt már egy fiam, aki ekkor nyolc éves volt. A folyamatos „kiképzés”, amiben részesített minket, és ami a legfontosabb, az Ő példamutató életvitele, az előbb, vagy utóbb meghozta a sikert számunkra is. Persze, aki ismeri, - és Ti igen jól ismeritek - az tudja, hogy ezért az eredményért nem várhattunk tőle elismerést, hanem csupán annak nyugtázását: „így van ez rendjén.”. Életének túlnyomó részét forradalmárként élte, ez a tűz Veszprémben, az 1956-os forradalom és szabadságharc idején lobbant fel szívében: Idézet: http://www.osservatorioletterario.net/vve1956.pdf „1956. október 21. Veszprémben is olvassák a szegedi és a budapesti egyetemek felhívását a Szabad I júságban. Füredi Zoltán és Szűcs István elkezdi az egyetemisták új szervezetének, a MEFESZ-nek a szervezését, táviratban közlik a budapestiekkel csatlakozási szándékukat. A Várban lévő kollégiumban úgy döntenek, hogy az alakuló ülés október 23-án lesz.„ A Forradalomban való részvételéért, és annak egy pillanatig sem történő megtagadásáért, viselnie kellett, és büszkén is viselte, a kommunista rendszer bélyegét. Mindig élt benne a remény, hogy nem volt hiába a Forradalomban, a szeretett Hazáért elhullatott sok-sok ifjú vér. Pista forradalmár szívének köszönhetően elsőként Magyarországon, 1989. március végén, egy hangfelvételt készítenek Győri Bélával a Kossuth Rádió Vasárnapi Újság c. adásához, mely műsor akkor óriási népszerűségnek örvendett. Ne feledjük, a hangfelvétel idején – csupán néhány héttel vagyunk azon túl, amikor, Pozsgai Imre kiveri a biztosítékot az „elvtársaknál”, mert 1989. január 28-án 1956-ot nem ellenforradalomnak, hanem népfelkelésnek meri nevezni a rádióban. Ne feledjük azt sem, hogy a ma már nem titkos adatok szerint 1989-ben még „figyelték” az 1956-os forradalomban résztvevőket, így pl. a börtönre ítélt, és „átnevelhetetlennek” minősített Wittner Máriát is, és azt sem, hogy az első szabad választás majd csak 1990-ben történhetett meg. Akkor már terveztük, hogy a több mint tíz éves együttélésünket, 1989. július 01-én házassággal kívánjuk „hivatalossá” tenni. Mondtam Pistának és Bélának: „Nem szeretném, ha a házasságkötésünk nem történhetne meg, és főként nem szeretnék mártír feleség lenni”. Hála az égieknek, a felvétel 1989. április 09-én elhangzott a rádióban: „Szűcs István: „Tartsatok ki iúk, és énekeljetek!” – címmel, ami egy gátat szakítottak át, mert ezt követően sorra, és megállíthatatlanul jelentek meg, szerte az országban az 1956-os forradalmi eseményekről szóló visszaemlékezések. Nyilvánosságra került az addig titkolt, vagy csak szamizdat irodalomból ismert, hatalmas testet, lelket pusztító terror gépezet, amit a Forradalom leverése után, egészen 1989-ig (!), működtetett még a kommunista hatalom.
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Két dokumentumfilm is készült az 1956-os veszprémi eseményekről. Az első 1994-ben, Kiss Róbert rendező által: Emlék élőnek, holtnak címmel jelent meg. Ez a 83 perces dokumentumfilm két szálon fut. Az élő: Szűcs István, a holt: Dr. Brusznyai Árpád, középiskolai tanár, a forradalom kivégzett mártírja, akit méltó képen, özvegye Honti Ilonka néni képviselt, aztán persze megszólal a többi résztvevő is, szép számmal. Tudva lévő, hogy Dr. Brusznyai Árpád halálos ítélete Pap Jánosnak, az MSZMP Veszprém megyei nagyhatalmú titkárának személyes, cselekvő közreműködésének volt „köszönhető”. A sors furcsa fintora, vagy inkább igazságos működésének köszönhetően, a dokumentumfilm azokkal a képkockákkal fejeződik be, miszerint a MTV híradójának műsorvezetője bejelenti, „.. a mai napon Papp János saját otthonában, saját lőfegyverével öngyilkosságot követett el….” A másik, 2003-ban, Oláh Gábor rendező által: Rekonstrukció címmel készült, amely az események kronológiája mellett a Szovjetunióba elhurcolt főként veszprémi egyetemisták visszaemlékezéséről szól. Sajnos egyik film sem érhető el a neten, viszont a veszprémi Laczkó Dezső Múzeumban, mint oktatási céllal vetíthető filmek között megtalálhatók: http://www.granditalia.hu/e/Multunk_oroksegunk A veszprémi, ma is élő Mészáros Gyula bácsi rengeteg időt töltött az irattárakban, hatalmas feltáró, kutató munkát végzet, és több könyvet is kiadott ebben a témában. Végül a forradalmi emlékek sorát zárja az „Életmentő Puskin vers” nem mindennapi története, és fennmaradt legendája. A Veszprémből indított, egyetemistákkal megtelt teherautó begördül a dumaföldvári szovjet laktanyába, ahol egy csoport fiút a laktanya falához terelnek. Néhány méterre, velük szemben felsorakozott a kivégzésükre odarendelt géppisztolyos egység. Pár méterre a laktanya parancsnoka és néhány tiszt áll. Mielőtt azonban a tüzet elrendelő vezényszó elhangzott volna, szokatlan dolog történt. A kivégzendő ifjak közül Szűcs István, az akkor 21 esztendős, negyedéves vegyész-mérnökhallgató kilépett, és hibátlanul, oroszul elkezdte szavalni Puskin, egyik legismertebb versét: Üzenet Szibériába. (A vers a 19. század elején Szibériába, kényszermunkára száműzött, a cári önkény ellen küzdő dekabrista mozgalom mártírjait biztatja kitartásra, mert nemsokára eljön a szabadság.) A kivégző osztag tagjai elképedtek, hiszen a bevetés előtti eligazításon, egy meg nem nevezett ország, lázadó, kegyetlen, fasiszta banditái ellen indították őket harcba. Úgy döntöttek, nem tapadhat az ő kezeikhez ezen ifjak vére, mossák kezeiket, vigyék a fiúkat tovább! A kivégzés elmaradt! Ez a történetet, több évtizeddel később a Szegeden élő Fenyvesi István irodalomtörténész, Zaira Valentyinova ogyesszai történész professzor asszonytól így ismerte meg: „A ma már nem élő unokaöcsém, 1956-ban egy dunántúli laktanyában szolgált, és egy különös történet mesélt nekünk. Fiatalok egy csoportját készültek kivégezni, amikor egyikőjük kiállt a sorból és Puskin verset kezdett szavalni oroszul, mire is a sortűz elmaradt, a iúkat tovább szállítatták a Szovjetunióba.” Az ogyesszai látogatás után Fenyvesi István rövid és szerencsés kutató munka után telefonon felhívta Pistát, hogy elmondja: több ezer kilométerre tőlünk több évtizeddel 108
a történtek után is, szájhagyomány útján terjedő legendaként tartják számon a hajdani rendhagyó tettét. A Forradalom ötvenedik évfordulójára 2006-ban megjelent Fenyvesi István: Belénk sajdult Odessza.. c. könyve, ami egy művelődéstörténeti könyv, ennek ellenére a szerző döntése alapján belekerült ez a történet, „Puskin közbeszól” című fejezettel. http://moly.hu/konyvek/fenyvesi-istvan-belenk-sajdultodessza A forradalomban való részvételéért, és annak egy pillanatig sem történő tagadásáért viselnie kellett, és büszkén is viselte, a kommunista rendszer bélyegét. Mindig élt benne a remény, hogy nem volt hiába az 1956-os forradalomban, a szeretett Hazáért elhullatott sok-sok ifjú vér. Ezzel a forradalmár szív lángolt benne, - amikor ott voltunk Lakitelken, 1987 szeptemberében, a Lezsák Sándor kertjében felállított sátorban, a százhalombattai rendszerváltó MDF megalakításakor, és annak aktív működtetésekor. Sajnos az akkori százhalombattai MDF-ről csupán ezt az archív cikket találtam: http://www.hirtukor.hu/bel.php?ssz=11274.... - az elsöprő erejű, szabadon választott parlamenti szavazási eredmény elérésekor, amikor is az eredendően kommunista Százhalombattának két jobboldali, MDF-es képviselője lehetett jelen a Magyar Parlamentben: Dr. Kovács László röntgen szakorvos egyéni, és Dr. Szűcs István pest megyei listáról. Töretlenül lobogott ez a láng a szívében négy éven át, az első két évben, mint parlamenti képviselő, a Parlament Gazdasági Bizottságának titkáraként, a második két évben az Ipari Minisztérium Energetikáért felelős államtitkáraként. Ez láng NEM (!) az Antall kormány bukása után lobbant ki, hiszen Pista már a választások előtt azt mondta: bukásra vagyunk ítélve. Tudta jól, hogy a „A volt nómenklatúra pufajkásai itt ólálkodnak a kertek alatt.” Idézet Csurka Istvántól. És, nemcsak ólálkodott, hanem visszajött a pufajkás Horn, az ő „szakértő” kormányával. „Jól ismerjük az elmúlt negyven évből ezt a szakértést!” – mondta Pista. Ekkor megírta a neves Püski kiadó által kiadott Mérföldkövek – az Antall kormány bukása útján c. könyvét lásd: http://www.puskikiado.hu/book/328. Püski Sándor bácsi, aki a nélkül nem adott ki könyvet, hogy Ő maga nem olvasta volna el, ezt mondta: „Pistám! Óriási, pontos, precíz munkát végeztél. Ennek a könyvnek meg kell jelennie. Ez nem olvasmányos regény, én tudom, nem lesz az olvasási listák élén, tehát nem azért adom ki, mert ebből én nyereséget remélek, hanem azért, mert erre valakinek áldozni kell, és én ezt tiszta szívvel megteszem! Ez egy nagyon ontos kordokumentum, amiből az utódainknak egyszer majd tanulnia kell!” Tehát nem a saját kormányának bukásakor lobbant ki a láng, bár ekkor azonnal és teljes mértékben visszavonult a politikai és a gazdasági életből. „Nem így gondoltuk ezt a rendszerváltást!” – sokszor mondta. A továbbiakban már csak, mint magánember, de érdeklődve figyelte az általa személyesen is ismert Fidesz-es „fiúk”, így Orbán Viktor tevékenységét, akit, soha nem titkoltan az újratemetésen, 1989. 06. 16-án elmondott beszédekor a szívébe zárt, és ezt mondta: „Erről a iúról még sokat ogunk hallani”. Lásd a teljes
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beszédet: https://www.youtube.com/watch?v=4YybjROUMu0 Amikor viszont megjelent a politika színpadán Gyurcsány Ferenc, azonnal azt mondta: „Ez az ember, még nagyon nagy károkat fog okozni hazánknak, mert ez az ember nagyon veszélyes.” Én erre azt mondtam: „Mindenki látja, hogy egy megbízhatatlan, hőbörgő alak. – „lári- ári” - Ki vesz egy ilyen embert komolyan.” Ő azonban rendíthetetlen, komoly arccal rám nézett és ezt válaszolta. „Sokan! – „Bogár” (így nevezett általában) nagyon sokan fognak neki hinni, óriási gondokat og okozni, majd meglátod.” Sajnos nem tévedett! Mikor hunyt ki a láng? A 2002-es FIDESZ kormány bukása után, amikor ismét, immár másodszor is visszajöttek a kommunisták. Ekkor hunyt ki a láng, és a négy évből nyolc lett! Mondhatom, hogy ez a nyolc év lelkileg teljesen letaglózta! Sokszor mondogatta: „Én már nem élem meg, hogy ennek a rémálomnak vége legyen.” De Hála Istennek! – gyógyír volt lelki sebeire a 2010-es jobboldali FIDESZ győzelem! A mostani, 2014-es választások idejére állapota már annyira megromlott, nem voltunk biztosak abban, hogy lehetősége lesz élni vele. De az égiektől kapott még egy utolsó számára nagyon fontos ajándékot! - mint életünk egyik aranyos gyöngyszeme álljon itt a történet: Megbeszéltük Pistával, nincs már ereje, hogy elvigyük szavazni, ezért megrendeljük a mozgó urnát délutánra. Mi a családdal külön-külön a választókerületeknek megfelelően elmentünk szavazni, ahová Luca nyolc éves unokánk - aki – teljesen magától - már napokkal a választások előtt sok-sok kérdést tett fel nekünk, amire gondosan igyekeztünk válaszolni, - önszántából elkísért. Gondosan végig szemlélte a beazonosításunkat, a szavazólapok átvételét, ellenőrizte, hogy a pecsétet rátették-e, no meg azt, hogy valóban mindannyian a FIDESZ-re szavaztunk-e. Elégedetten távozott a szavazó fülkékből, és nagy-nagy izgalommal várta a Papóhoz érkező mozgó urnát. Amint megérkeztek, vitte Papó ölébe a kis fatáblácskáját, ezekkel a szavakkal: „Ezen könnyebben írsz Papó!” – és odaállt mellé és mutatta: „Nézd Papó! – itt van a FIDESZ, tudod, ide kell írnod a szavazatodat!” Segített összehajtogatni, borítékba tenni, és „Majd én bedobom az urnába, jó?” kérdéssel, már vitte is. Másnap az iskolából hazajövet, örömmel rontott be a házba, és „Papó! Tudod, hogy nem egy góllal, hanem sok góllal győztünk?” – kiáltotta. Papót ilyen öröm érte, amikor állapota már nagyon súlyos volt, és természetesen nagyon örült a jobboldali győzelemnek! ……… És most itt belekezdhetnék egy hosszú regény írásába, aminek azt a címet adhatnám a parkinson kór és a Szűcs család. ……………… Már évek óta tudtuk, hogy parkinson kórja van. 2010 februárjáig elfogadható állapotban volt. Születésnapja előtt hírtelen, egyik percről a másikra bekövetkezett egy súlyos állapotromlás. 24 órán belül döntenem kellett arról, hogy feladom az állásomat és itthon maradok vele, mert nem tudja ellátni magát, és szüksége van rám. Lassan, nagyon lassan, de kijöttünk abból a megrendült állapotból és meg is tudtuk őrizni azt, egészen 2012 augusztusáig, amikor teljes három hétig az álomvilág és a valóság elválaszthatatlanul összemosódott elméjében. Ez oldódott ugyan, de mint
egy árnyék mindvégig velünk maradt. 2013 szeptemberétől újabb, és már egyre mélyebb szakadékokba kerültünk, amiből valahogyan csak kikecmeregtünk. Az utolsó és immár végzetes állapot ez év május 20án kezdődött, ekkortól már képtelen volt lábra állni. Az orvosok rábeszélésére egy heti rémálmos kórházi kezelés történt, - itt elnézést kérek az orvosoktól, ha megbántom őket - ahonnét a családunk kérésére hazahoztuk, ugyanis belgyógyászatilag nem találtak semmi számottevő elváltozást. A parkinson kór utolsó stádiumát értük el, mondták nekünk, és ezen a belgyógyászaton egyébként sem tudunk segíteni. A kórházi egy hét alatt megteremtettük otthonunkban az Ő ellátásának minden feltételét, és nagy örömmel fogadtuk, kényelmes modern bútorkarosszériás orvosi ágyában. Már este nyolc óra volt, amikor meghozta a mentő, de Luca nagy izgalommal és szerető mosollyal várta:
Tíz nap híján három hónapot töltött ágyban, nagyon lefogyott, most is, mint két évvel ezelőtt a valóság és az álom összemosódott. Abban a világban, ahol Ő járt nagyon tevékeny és aktív életet élt: vagy szakmája szerint energetikával, kőolajjal, gázvezetékkel, foglalkozott, programokat, törvényeket írt, miniszterekkel tárgyalt, vagy mint forradalmár most is harcokban vett részt. Az álombeli szakmai teljesítménye egészen biztosan tökéletes volt, ehhez semmi kétségem nem fér! Azt azonban csak remélni tudom, hogy azt az álombéli forradalmat nem verték le, és nem torolták meg. Mindig megismert, és örömmel nézett ránk, amikor az ágyához mentünk. Amikor nem voltak itt a gyerekek kérdezte, hogy mikor jönnek. Életének utolsó örömhírei: a kis unokájának, Lucának másodikos kitűnő bizonyítványa, és a nagy unokájának Armandának, aki első házasságából született, - ma már nem élő Árpád fiának, gyermeke immár szigorló orvostanhallgatóvá válása. Büszke és boldog volt az unokáira. Mint tudjuk jó teljesítménnyel mindig meg lehetett Papó szívét hódítani! Betegségével is tanított engem, és persze az egész családot! Számomra igen fontos dolgot ismerhettem meg. Neki köszönhetően a test-lélek-szellem működését figyelhettem meg hosszú éveken át, és nemcsak az Övét, hanem a saját magamét is! Betekintést kaphattam az úgynevezett nem látható világokba, amibe először mindannyian vonakodva pillantunk, de aztán megbarátkozunk az ott látottakkal, azért, hogy ezt követően itt a látható világot is megértsük. Azért nehéz ez az út, mert nem mindig szép dolgokat látunk, és mert elkerületlenül szembe kell néznünk önmagunkkal, az úgynevezett sötét
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oldalunkkal, a félelmeinkkel, és ez bizony nem egyszerű feladat. De neki köszönhetően nem állhattam meg az úton, és Ő ebben is a legtökéletesebb Tanítónak bizonyult. Kitartó volt mindenben, így ebben is, és itt maradt a legvégső időpontig, amíg maradhatott. Rengeteg tapasztalást írhatnék le, de az is egy külön regény lenne. Ehhez a nem hétköznapi életfeladathoz a fiamtól és szeretett társától, Timtől - akinek a pocakjában egy Földre készülő Lélek, aprócska teste fejlődik: áldott állapotban van -, sőt a még csupán nyolc éves, de nagyon bölcs Lucától is nagyon nagy, felbecsülhetetlen támogatást kaptam, és kaptunk mindketten. Szeret minket a Teremtő, méghozzá nagyon, nagyon! 2014. 08. 10-én vasárnap itt volt fiam és Timi is. Az egész napot égi kezek irányították, valami akkor megmagyarázhatatlan erő mindvégig bent tartott a lakásban, egy pillanatra sem mentem ki, csupán az ajtóból beszélgettem fiamékkal. Délután olyan késztetést éreztem, hogy mellette üljek és fogjam a kezét. Később már úgy, hogy egyik ujjam a pulzusán volt. Énekelgettem neki, beszélgettem hozzá. Bár szóban már nem reagált, de tudtam, hogy teljesen jelen van. 14 óra 40 percre szépen lassan le-leállt a lélegzetvétele, és az utolsó lélegzetvétel után a szívverése is. „Papókánk” nagyon elnyűtt, elgyötört földi ruhájáért, a testéért este hét órakor kértük, hogy jöjjenek. Mindaddig körülötte voltunk, éppen ugyanúgy, mint életében. Négy mécsest az ágyának korlátján, egyet az asztalon gyújtottunk meg. Oda-odamentünk, beszélhettünk hozzá, kezét kezünkbe vettük, megölelgettük és mindent megköszöntünk, amit adott nekünk, amit csak Ő adhatott nekünk. Ő meg eközben békésen, szépen kisimult arccal aludta örök álmát. Fiam, aki az én első házasságomból született ezekkel a szavakkal búcsúzott Tőle: „Erő. Kitartás. Becsület. Példamutatás. Ezek a szavak jutnak eszembe! Angyalok kísérjenek utadon! Nagyon szeretlek Édesapám!” Senki nem mondta, hogy a Földi élet könnyű, de azt igen, hogy szép, sőt csodálatos! Ha nem lenne ennyire csodálatos, akkor bizony nem születnénk le ide a Földre. Önszántunkból érkezünk, tanulni jövünk, és boldogok lehetünk, ha sikerül valami keveset elsajátítani mindabból, amit célként tűztünk ki magunk elé. Isten életünk minden pillanatában jelen van! Ki tudná ezt szebben megfogalmazni, mint Wass Albert: Látható az Isten c. versében:
Ezek a sorok „kiömlöttek” belőlem, mivel tudom, hogy mennyire szerettek minket, mennyire szerettétek Pistát, és mennyire aggódtatok miattunk az elmúlt évek alatt, ezért megosztom Veletek. Mi mással is zárhatnám, soraimat, mint Szent Ágoston üzenetével: „A halál nem jelent semmit, csupán átmentem a másik oldalra. Az maradtam, aki vagyok, és Te is önmagad vagy. Akik egymásnak voltunk, azok vagyunk mindörökre. Úgy szólíts, azon a néven, ahogy mindig hívtál. Beszélj velem, ahogy mindig szoktál, ne keress, új szavakat Ne fordulj felém ünnepélyes, szomorú arccal, folytasd kacagásod, nevessünk együtt, mint mindig tettük. Gondolj rám, kérj, mosolyogj, szólíts. Hangozzék a nevem a házunkban, ahogy mindig is hallható volt, ne árnyékolja be távolságtartó pátosz. Az élet ma is olyan, mint volt, ma sem más. A fonalat nem vágta el semmi, miért lennék a gondolataidon kívül - csak mert a szemed most nem lát... Nem vagyok messze, ne gondold. Az út másik oldalán vagyok, lásd, jól van minden. Meg fogod találni a lelkemet és benne egész letisztult, szép gyöngéd szeretetem. Kérlek, légy szíves... ha lehet,töröld le könnyeidet, és ne sírj azért, mert annyira szeretsz engem... (Szent Ágoston)” Szeretném tudatni Veletek, hogy minden úgy történik, ahogyan Szent Ágoston mondta. Minden pontosan úgy! Ne aggódjatok azért, mert egyedül akarok lenni, és nem kívánom igénybe venni a segítségeteket. Nem véletlen az sem, hogy fiamék éppen hétfőtől kezdődően egy korábban lekötött nyaralásra utaztak országon belül. Ők ugyan vagy le akarták mondani, vagy azt szerették volna, hogy menjek velük, de én itt maradok, mert ezt így rendezték az égi kezek. Kérem, fogadjátok el, hogy Ő itt van velem, vidáman, és boldogan, vigyáz rám és segít a sok-sok intéznivalóban. Tudom, hogy van még egy kis időnk, amit együtt tölthetünk. Igen az a bibliai negyven nap! - aztán Neki mennie kell, és Ő el is fog menni, én meg el fogom engedni! Szépen fokozatosan, éppen úgy, ahogyan elszenderült. Ez a fotó az elmúlt év augusztusában készült, egy nagyon jó barátunk fiának esküvőjén, amikor már nagyon beteg volt. Szeretném, ha így őriznétek meg Őt emlékezetekben!
„Fűben, virágban, dalban, ában, születésben és elmúlásban, mosolyban, könnyben, porban, kincsben, ahol sötét van, ahol fény ég, nincs oly magasság, nincs oly mélység, amiben ő benne nincsen. Arasznyi életünk alatt nincs egy csalóka pillanat, mikor ne lenne látható az Isten. De jaj, annak, ki meglátásra vak, s szeme elé a fény korlátja nőtt, az csak olyankor látja őt, mikor leszállni él az álom: ítéletes, zivataros, villám-világos éjszakákon.” Kérem, ha teheted, nézd meg, mert nagyon szép! https://www.youtube.com/watch?v=NY1zbhh0dVY Kedves Barátaink! 110
Szeretettel gondolok Rátok és köszönöm az együttérzéseteket! Szűcs Marika: 2014. augusztus 13.
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KÖNYVESPOLC
Géza Gárdonyi (1863-1922): il suo romanzo „Le stelle di Eger" è uno dei più famosi romanzi storici ungheresi.
Nel celebre romanzo, apparso in Ungheria nel 1901 e da allora tradotto in più di 20 lingue (fra cui anche armeno e vietnamita) si evoca il patriottismo magiaro contro l’impero ottomano che nel XVI secolo minacciò l’Europa intera e si descrive la strenua difesa operata dai valorosi magiari durante l’assedio della città di Eger avvenuto nel 1552 e durato
38 lunghissimi giorni. L’appassionata e brillante traduzione italiana di Patricia Nagy colma finalmente una vera lacuna e rende accessibile anche al pubblico italiano quello che nel 2005 venne premiato come il “libro più amato dagli ungheresi”. La presentazione di Stelle di Eger si è già svolta con grande successo presso la sala conferenze del Bastione Dobó della Fortezza di Eger, il 10 dicembre 2013, alla presenza di Gina Giannotti, Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, László Habis, Sindaco di Eger e Csaba Ternyák, Vescovo di Eger. Alla presentazione venezianaő intervenuto Imre MADARÁSZ (Dip.to di Italianistica dell’Università di
Lo stesso Gárdonyi lo considerava la sua opera migliore. La storia è ambientata nel 1522, anno in cui i turchi hanno assediato il castello di Eger. Alla nutrita schiera di turchi si contrapponeva la misera truppa ungherese, composta di pochi soldati, impegnati nell'eroica difesa del castello. Il romanzo commemora l'eroismo e il coraggio di questi uomini.
Debrecen); la traduttrice Patricia NAGY (Udine) e la responsabile della Metamédia S.a.S. di Pécs Lenke RÓNASZEGI. Era a Venezia per l’occasione anche István MANNO, Console Generale di Ungheria a Milano. Il programma veneziano è stato organizzato dal Consolato Generale Onorario di Ungheria in Venezia e dalla Ass.ne Culturale italo-ungherese del Triveneto in collaborazione con l’Università di Debrecen. (Fonte del testo:: abcveneto.com) 2013 decemberétől már 22 nyelven (2012 óta eszperantóul is) olvasható Gárdonyi Géza Egri csillagok című regénye. A magyar-olasz kulturális évhez kapcsolódóan jelentette be a regény olasz fordításának megjelenését Nagy Patrícia, a mű fordítója, aki magánkiadás keretében jelentette meg a könyvet. A Stelle di Eger bemutatóját 2013. december 11én tartották az egri vár Dobó bástyájában, amelyen számos vendég mellett Gina Gianotti, a Budapesti Olasz Intézet igazgatója, dr. Ternyák Csaba, egri érsek,
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Habis László, Eger polgármestere is részt vett. A fordítótól a jelenlévők azt is megtudhatták, mi késztette arra, hogy lefordítsa Gárdonyi Géza művét. Nagy Patrícia a Debreceni Tudományegyetem olasz szakán tanult, mikor külföldi barátjának szerette volna odaajándékozni az Egri csillagok olasz fordítását, ám kiderült, olyan nem is létezik. Három éve úgy döntött, több más szépirodalmi alkotás tolmácsolása után belevág a munkába: ez idő alatt hat A4-es méretű spirálfüzetet írt tele a történelmi regény fordításának nyersanyagával, onnan gépelte azt be. (Kép- és szövegforrás: http://verdastelo.taviroda.com/hirek/egri_csillagok_olas zul.htm) Czakó Gábor
HITEMRŐL
A Kossuth-díjas író hitkönyvecskéje önvallomás. Persze, rendes írónak minden műve az, de ennek gondolatai kilépnek a szokásos rejtőzködésből. Fölbukkannak hajdani, néven nevezett barátok, szellemi társak és persze a család. Régi és új gondolatok olykor forrongó, máskor nyugodt menete vonul előttünk mintegy hetven esztendőn át, benne a sebesen változó kor nyugtalanul kavargó külvilága és a lélek benső tájai, ahol a tapasztalat, tapasztalat? Ki-ki összehasonlíthatja a maga lélekútjain megélttel. Misztikai irodalmunk páratlan darabja e kötet. ... Ára: 1500.-
A Dél-Uralban virult a Kr.e. II. évezred elejétől az ún. andronovói kultúra-család. Ennek lovas, fémműves, íjfeszítő népei terjedtek el délen Iránig, keleten a mai Kínáig. Nyugati csoportjuk szabar-tapar-szabir-szibir-szavirszavard stb. neve tömérdek ókori iratban fordul elő, de ami számunkra a legfontosabb, a hanti mondákban is! Az ugorok tőlük kapták a fémeszközöket, a sört, a meséket, a zenét, a szavakat. Szabirt legyőzni, vele házasodni csodás tettnek számított. Bíborbanszületett Konstantin első kézből: Bulcsú horkától és az Árpád-ivadék Tormás hercegtől értesült arról, hogy a magyarok – nála türkök – régi neve szabir volt… Kiadói ár: 2100.- Ft
Czakó Gábor
A SZABIR TITOK – anyanyelvi és történelmi esszék, CzSimon könyvek, fűzve, kb. 260 old. – A magyar nyelv-, mese- és zenekincs számos eleme megtalálható a finnugor népek kultúrájában, de szétszórva és töredékesen. Együtt az összes sehol. S ahogy távolodnak e népek a DélUraltól, úgy ritkulnak. Honnan, s merre áramlottak? Vajon a rokoni sörétek röpültek a puskánkba magyar töltényt alkotni, vagy a magyar töltény sörétjei szóródtak szanaszét? 112
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POSTALÁDA – BUCA POSTALE
From: Anita Elbert Sent: Friday, May 23, 2014 5:06 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Osservatorio Letterario NN. 99/100 (fascicolo festivo a colore - színes, ünnepi kiadás) Kedves Prof. Dr. B. Tamás-Tarr Melinda! Nagyon szépen köszönöm, hogy bekerülhetett a versem folyóiratába. Küldök még négy verset Önnek. Minden jót kívánok Önnek! Üdvözlettel: Elbert Anita From: László Miklós Pete Sent: Friday, May 23, 2014 5:45 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Osservatorio Letterario NN. 99/100 (fascicolo festivo a colore - színes, ünnepi kiadás) Nagyon szépen köszönöm!!! Melinda, Te egy tündér vagy, gratulálok a kitartásodhoz, az erődhöz és a fantasztikus tisztességedhez!! Nyáron majd írok hosszabban is, most ezer dolgozat meg egyéb lóg a fülemen... A két legfrissebb darabomat azért elküldöm... Puszi! Szép nyarat! Laci From: Franco Santamaria Sent: Saturday, May 24, 2014 6:54 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Osservatorio Letterario NN. 99/100 (fascicolo festivo a colore - színes, ünnepi kiadás) Carissima Melinda, ho ricevuto il fascicolo. Ti sono molto grato per aver pubblicato miei haiku. Ti abbraccio con affetto FrancoS. From: Fernando Sorrentino Sent: Sunday, May 25, 2014 2:16 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: L'estratto dell'antologia solenne Muchísimas gracias, amable Melinda, por el espléndido regalo. Baci, Fer ed Alicia From: Kaposi Kriszta Sent: Sunday, May 25, 2014 2:57 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Osservatorio Letterario NN. 99/100 (fascicolo festivo a colore - színes, ünnepi kiadás) Kedves Főszerkesztő Asszony, Nagyon örülök az ünnepi lapszámnak, köszönöm, hogy az én tanulmányom is helyet kapott benne, sok üdvözlettel és további minden jót kívánva, Kaposi Kriszta
From: Olga Csáki-Erdős Sent: Monday, May 26, 2014 6:48 PM To: Redazione O.L.F.A. Subject: Jubileumi szám Kedves Melinda! Örömmel tudatom, hogy ma meghozta a posta az O/L jubileumi 99/100-ik számát. (Meglepően hamar, máskor az értesítését követően több idő telik el.) Szokás szerint érkezéskor csak átlapoztam, de már látom, hogy lesz mit olvasni belőle a nyár folyamán. Szívből kívánok Önnek jó pihenést és feltöltődést az elkövetkező hónapokra, jó egészséget, meg persze sok jó könyvet, amelyekről az őszi (novemberi?) számban biztosan be fog számolni. Szeretettel ölelem, Olga -----Messaggio originale----From: dr. Paczolay Gyula Sent: Monday, May 26, 2014 6:07 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Osservatorio Letterario NN. 99/100 (fascicolo festivo a colore - színes, ünnepi kiadás) Kedves Melinda ! A mai postával már meg is kaptam az Osservatorio legújabb számát. Örömmel láttam, hogy több elküldött anyag megérkezett és fel is tudta használni őket. Az egész családnak kellemes nyaralást kívánok! Paczolay Gyula -----Messaggio originale----From: Dr. Tusnády László Sent: Tuesday, May 27, 2014 9:13 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Osservatorio Letterario NN. 99/100 (fascicolo festivo a colore - színes, ünnepi kiadás) Kedves Melinda! Megérkezett az Osservatorio Letterario új száma. A benne lévő művek megszólítanak, hívnak, egyedüli élményt ígérnek. Igen nagy tisztelettel követem munkásságát. Járjon továbbra is sok örömmel. Meghasonlott világunkban legyen az a jónak és a szépnek tiszta forrása! Most a gyermekkori emlékeimből kristályosodott írásomat küldöm el. További jó munkát és jó egészséget kívánok. Szeretettel üdvözlöm. Dr. Tusnády László From: Dr. v. Szitányi György Sent: Friday, May 30, 2014 3:20 PM To: Direttore Resp. & Edit. Subject: Megjött Drága Melinda! Megérkezett a 100. szám! Ehhez is, a lovagságodhoz is szívből gratulálok. Büszke vagyok Rád! Nagy szeretettel: Gyuri
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-----Messaggio originale----From: Sótonyi Sándor Sent: Friday, May 30, 2014 12:51 PM To: Redazione O.L.f.A. Subject: bravo Kedves Melinda! Meglátogattam Tivadart, közös ismerősünket, barátomat. Említette, hogy kitüntették. Gratulálunk. Egyszer kaptam tőle egy mesekönyvet, magyar meséket tartalmaz, olaszul. Ezen meséket meg is találtam a web oldalán. Sajnos nekem nincsenek meg az eredetiek, amelyekből a gyönyörű fordításokat készítette. […] Továbbra is olvasom fordításait, de úgy vélem, ahogyan a magazinjában, kéthasábos formában, ha látják több dolog rögzül a hallgatókban. Baráti üdvözlettel: Sótonyi Sándor -----Messaggio originale----From: Havas Petra Sent: Monday, June 02, 2014 11:50 AM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: OLFA 99/100 Kedves Melinda! Köszönjük szépen az OLFA ünnepi számát (99/100), tartalmas, elegáns, igényes szerkesztésű, szép kiadvány, méltó megkoronázása sokrétű, gondos, lelkiismeretes munkájának, mely jól érzékelhetően nem csupán szakma, hanem hivatás. Külön öröm számunkra, hogy Olaszországban is elismerik egyedülálló tevékenységét! Üdvözlettel: Havas Petra Országos Széchényi Könyvtár Gyarapítási és Állomány-nyilvántartó Osztály From: Dr. Umberto Pasqui Sent: Monday, June 02, 2014 12:52 AM Subject: cento! Ciao, come va? La rivista numero 100 è arrivata da una settimana circa: se penso che ho iniziato ad abbonarmi 80 numeri fa mi vengono i brividi... Accidenti! Ora attendo con ansia l'antologia giubilare. Ovviamente mi abbonerò anche per il prossimo anno […]. È un periodo in cui sono più impegnato del solito... Stammi bene, Umberto From: Dr. Madarász Imre Sent: Monday, June 16, 2014 3:02 PM To: Osservatorio Letterario - Direttore Resp. & Edit. Subject: Rassegna solenne
Nagyrabecsüléssel, Madarász Imre
üdvözlettel,
jókívánságokkal:
From: Csordós Róbert Sent: Monday, June 16, 2014 3:41 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Spedizione dell'antologia «Rassegna solenne» Tisztelt Asszonyom! A mai nap megérkezett könyvtárunkba a “Rassegna solenne” című antológia. Megküldését nagyon szépen köszönjük. A levelében jelzett nyomdahiba fel sem tűnik, a lényegen nem változtat, szívós munkával szerkesztett, gazdag ünnepi számot nyújthatunk olvasóink számára. További munkájához sok sikert kívánunk, üdvözlettel Csordós Róbert könyvtáros Eötvös Károly Megyei Könyvtár -----Messaggio originale----From: Dr. Umberto Pasqui Sent: Tuesday, June 17, 2014 10:51 AM To: melinda.tamas-tarr[at]osservatorioletterario.net Subject: Antologia Ciao, l'antologia è arrivata nei giorni scorsi e la sto leggendo, complimenti e grazie! […] Umberto Pasqui -----Messaggio originale----From: Havas Petra Sent: Tuesday, June 17, 2014 1:30 PM To: Direttore Resp. & Edit. Subject: Antologia Kedves Melinda! Olvasóink nevében is nagyon köszönjük az Osservatorio Letterario 100. számának alkalmából megjelentetett szép és terjedelmes ünnepi antológiát, mely egy közel két évtizedes egyedülálló kezdeményezés méltó mementója. További sok sikert és elismerést kívánunk munkájához! Köszönettel és üdvözlettel: Havas Petra Országos Széchényi Könyvtár Gyarapítási és Állomány-nyilvántartó Osztály
Tisztelt Főszerkesztő Asszony! Most kaptam meg az Antológiát. Még csak belenézni volt időm, de azt máris láttam, hogy nem csak címében “solenne”, nem csak fizikai voltában súlyos, nem csak lapszámát tekintve nagy. Szívből gratulálok hozzá! Büszke vagyok, hogy benne szerepelhetek. Örömmel láttam kedves kollégáimat, tanítványaimat, italianista társaimat is. “Altro non faccio...”? Amit Ön tesz, az rendkívüli! És áldásos. Hála és köszönet érte. Rómába készülődöm. Visszatértemkor, július közepéig ismét bátorkodom küldeni valamit nagyszerű folyóiratába.
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INSERTO - MELLÉKLETGYÁSZJELENTÉS
DR. JÓZSA JUDIT (1954-2014) OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove ANNO XVIII/XIX – NN. 101/102
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GYÁSZJELENTÉS PÉCSI TUDOMÁNYEGYETEM UNIVERSITY OF PÉCS
Elhunyt dr. Józsa Judit
A Pécsi Tudományegyetem Bölcsészettudományi Kara Olasz Tanszékének tanárait mély megrendüléssel érte a hír, hogy a nagyra becsült és szeretett kollégát, dr. Józsa Juditot elveszítették. Judit szervezete feladta a harcot az alattomos betegséggel szemben, amely már hosszú ideje gyötörte, majd felőrölte energiáját. Dr. Józsa Judit 1977-ben végzett a szegedi József Attila Tudományegyetemen, olasz-orosz szakos tanári diplomát szerzett. Kezdetben középiskolákban tanított, munkájáért két alkalommal is miniszteri dícséretben részesült. A pécsi Olasz Tanszék munkájában 1988 óta vett részt mint külső munkatárs, később tanársegéd, majd a doktori fokozat megszerzése után, 2004-től, egyetemi adjunktus. Elsősorban nyelvészeti és az olasz mint idegennyelv tanításához kapcsolódó szakdidaktikai kurzusokat tartott, de foglalkozott a magyar – olasz kapcsolatok kérdésköreivel is. Tananyagok, tantervek, mérések, kidolgozása, szaknyelvoktatás, fordítói kurzus koordinálása fűződik a nevéhez. Kutatási területei az alkalmazott nyelvészet, nyelvpolitika, az olasz mint idegennyelv oktatása voltak, aktívan részt vett számos szakmai testület munkájában az egyetemen belül és azon kívül is. Dr. Józsa Judit személyében kiváló szakmai kompetenciával bíró, nagy tudású szakembert veszítettünk el, olyan tanárt, aki hallgatói generációk sorát tanította a szakma szeretetére, a tudományok iránti alázatra, emberségre és az egymás iránti tiszteletre. Jelen sorok írója egyetemi évei óta ismerte Juditot. Ő mindig egyszerű volt és ugyanakkor nagyszerű ember. Mint tanszéki kolléga, a szakma legspecifikusabb kérdéseit illetően is mindig tudott hasznos tanácsokat adni, a pécsi Olasz Tanszék nélkülözhetetlen embere volt, példát mutatott mindannyiunknak emberségével és a hivatása iránti szeretetével. Kedves Judit, soha nem felejtünk, Isten veled! Dr. Tóth László a PTE Olasz Tanszékének volt oktatója
A fenti gyászhírről 2014. október 8-án szereztem tudomást kollégája, dr. Rónaky Eszter előző napon küldött elektromos leveléből. Judit, lapunk időnkénti munkatársa október 8-át megelőző héten hunyt el. Temetése - Judit kérésének megfelelően - szűk családi körben a szülőföldjén, Pécselyen volt. Az Olasz tanszéken egy-egy szál virággal okt. 9-én búcsúztatták.
2014. június 11-12-én váltottunk utoljára levelet. Fájó szívvel olvasom újra és újra: -----Messaggio originale----From: Dr. Judit Józsa Sent: Wednesday, June 11, 2014 9:31 PM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Gyors köszönet
Kedves Melinda, most olvasom az üzenetet, hogy holnaptól már nem vagy elérhető, Talán ma még elolvasod a postádat. A számot a szokásos késéssel, de jó ideje megkaptam.. Beleolvastam, aztán egy kolléganőm elkérte és hetekig magánál tartotta, csak 2 napja kaptam vissza. Alaposan nyáron tudom átolvasni. Ismerőst is találtam, Borsányi Katinka hozzánk járt, kb. 20 éve. Édesapám is hívott, kéri, hogy ne haragudj rá, amiért elkerülte a figyelmét a kitüntetésed. Nagy szeretettel gratulál, én is csatlakozom hozzá. Lassan mi is zárjuk az évet. Ma nagyon nehéz volt 10 órát ebben a 36 fokban vizsgáztatni - és persze vizsgázni. Én eléggé le vagyok törve, a múlt héten kaptam egy nagyon rossz leletet. Egyelőre várom, mit mond róla majd a team. De ne is beszéljünk róla. Neked nagyon jó pihenést kívánok ezután a nagyon szép, gazdag, termékeny év után!
Judit.
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-----Messaggio originale----From: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Sent: Wednesday, June 11, 2014 10:49 PM To: Dr. Judit Józsa Subject: Re: Gyors köszönet
Kedves Judit! Köszönöm szépen a visszajelzést. Remélem, hogy a vaskos ünnepélyes kötet nem bolyong olyan sokáig, mint a periodika. Lényeg, hogy mégis megérkezett. Kösz a gratulációt is. Édesapád barátja, Sótonyi Sándor felkeresett levélben, s ő gratulált édesapád nevében is. Itt is hasonló nagy a hőség, de a hétvégére esőt, zivatart és 10-15 fokos lehűlést ígérnek.Nyilván beüt, mert három napja az ideggyulladásos lábam miatt alig tudok járni. Múlt hónap 19-től részleges festés volt nálunk, amit mi végeztünk, nem hivatásos szobafestők... A múlt hét közepén fejeztük be a helyrepakolást, takarítást stb. De még így is maradt még tennivaló: a konyhai beüvegezett erkély ablakai, a lányunk szobájának ablaka, a hálónk ablaka és ezek függönyei. Péntektől hétfőig férjem és én a tengerparti nyaralónkban dolgoztunk, de ott sem tudtunk mindent befejezni, tehát ott folytatjuk. Aztán végre jöhet a nyári nyugodt és lazább életvitel, a felszabadult olvasás, amit nemcsak szórakozásomra, hanem a folyóirat következő számaiba is szánok... Nagyon elszomorított a leleted híre. Kívánom, hogy végre sikerüljön legyőznöd betegségedet s remélem, hogy az O.L.F.A.-kiadványokban olvashatók valamicskét segítenek elviselhetőbbé tenni küzdelmes napjaidat. Reménykedem, hogy a legközelebb mégiscsak jobb hírrel fogadsz. Mindnyájatokat sok szeretettel köszöntök és a lehető legjobbakat kívánom (kérlek édesapádnak is tolmácsold): Melinda -----Messaggio originale----From: Dr. Judit Józsa Sent: Thursday, June 12, 2014 8:48 AM To: Prof. B. Tamas-Tarr Melinda Dr. Subject: Re: Gyors köszönet
Ha tudom bármivel viszonozni a sok küldeményt, írd meg nyugodtan, beszerzem és küldöm. Remélem, végre elkészülök a néhány könyvedről írt recenzióval. Az italianisták sorozat is folytatódik. Itt is volt egy esemény. emléktáblát avattunk egy hónapja Herczeg pécsi szülőházánál, halálának 20 éves évfordulója alkalmából. Szép ünnepség volt. Ősszel talán lesz egy emlékest is. Herczegről , ha érdekel olvashatsz érdekes dolgokat az ELTE italogramma honlapján az Archivumban. És Fried Ilona több helyen is publikálta a kutatásait róla, az eltávolításáról, a kémbotrányról, az akkori "szépséges" időkről... Még egyszer jó pihenést és feltöltődést! J. Ez volt az utolsó levele, amit Tőle kaptam… Szerencsére, az ez év júliusában betöltendő 60. születésnapját és ez alkalomból tervezett meglepetést a köszöntő sorainkkal megkaphatta és olvashatta. Engem is felkért a kollégája - aki tervezte és szerkesztette az ajándékkötetet -, hogy ez alkalomból írjak köszöntő sorokat, amit nagy örömmel és szeretettel elvállaltam, Íme a 104 résztvevős, 78 oldalas kötetben megjelent írásom:
DR. JÓZSA JUDIT 60. SZÜLETÉSNAPJÁRA Boldog születésnapot! Buon compleanno! Tanti auguri! A 60. születésnap megünneplése sajnos már nem olyan, mint 20 vagy 30 évvel ezelőtt, de hálásak lehetünk a sorsnak, a jó Istennek, hogy eddig eljutottunk. Éveink egyre emelkedő számán kívül sokunknál kisebb vagy nagyobb nyavalyákkal, komoly egészségi problémákkal kell számolnunk figyelmeztetvén, hogy sajnos emberéltünk felét már jócskán túlléptük, kenyerünk legjavát már elfogyasztottuk... Az alkotó szellemnek mentsvára még a szellemi, művészi alkotás folytatása, mely kiváló eszköz a szellemi frisseség megtartásához, egészségi küzdelmeink valamivel könnyebb elviseléséhez, az elkerülhetetlen és könyörtelen öregedési folyamat elviselhetőbbé tételéhez, miközben számot vetünk eddigi életünkkel, életművünkkel... Érdekes módon, Juditot csak öt esztendeje ismerem és ez az ismeretség is csak virtuális, éteri. Amikor még szülőhazámban éltem még hírét sem hallottam, bár kortársak vagyunk, igaz én valamivel idősebb, hiszen 2013. december 12-én töltöttem be Judit éveinek számát, egy osztályba is járhattunk volna. 1964. tavaszától közelében, Veszprémben éltem és ott is tanultam az 1969/70-es tanév végéig. A debreceni gimnáziumi és a felsőfokú, pécsi tanárképzői tanulmányaim után visszakerültem Veszprémbe s 1983. október elsejei házasságkötésemig ott is 3
tanítottam. Ez év december 5-én pedig olasz állampolgár férjemet követve kitelepültem Ferrarába, ahol többek között 1997. októberében megalapítottam és azóta vezetem, szerkesztem és publikálom kétnyelvű (olasz-magyar) periodikámat, az Osservatorio Letterario-t, amelynek – mint ahogy már többször is módomban állt említeni – számos hazai- és nemzetközi kiválóság ismeretségét köszönhetem, akiknek sorába, nagy büszkeségemre és örömömre Judit és édesapja is belépett Judit 2009. június 4-én küldött elektromos levelének köszönhetően. Ettől a pillanattól kezdve kezdődött együttműködése, amelynek eredményeként az akkor 15 kötetes orvosíró édesapja, Bodosi György alias Dr. Józsa Tivadar munkáiból – amelyek között sok olasz témájú írás is található – megkezdtem az első válogatást, s meglepetésként publikáltam egy összellítást a 2009./69-70. július-augusztus/ szeptember-októberi dupla számban, mindkét nyelven megjelent a szerző bemutatása mellett egy terjedelmes meglepetés-összeállítás édesapja munkáiból az Osservatorio Letterario hasábjain. Azóta jelennek meg e periodikában mind édesapja, mind az ő munkáiból. A kezdeti levélváltásoktól elrohant már öt esztendő... Így Judit születésnapja mellett ötéves éteri ismeretségünket és együttműködésünket is ünnepelhetjük. Minden egyes alkalommal leírhatatlan nagy öröm- és boldogságérzés kerít hatalmába, amikor kiváló, értékes és tehetséges emberekkel hoz össze a sors, ill. az Osservatorio Letterario vonzereje. Ennek köszönhetően a korábbi hazai ismeretségeim mellett olyan kiválóságokkal is éteri kapcsolatba kerültem, akikkel otthonlétem esztendeiben, akkori hírnevük vagy mellőzésük miatt, avagy számomra ismeretlen voltuk miatt, annak ellenére, hogy szinte tőlem egy karnyújtásnyira voltak, a kapcsolatvétel semmiféle módon nem valósulhatott meg... Így történt Judittal és orvosíró édesapjával is. Tehát már öt esztendeje tart ez a virtuális ismeretség és együttműködés, azóta olvasom nagy érdeklődéssel Judit és édesapja munkáit, amelyekből nagy örömmel és készséggel publikálok, hiszen rengeteget lehet belőlük tanulni, szellemileg és érzelmileg gazdagodni. Ezt a számomra nagy élvezetet szívesen megosztom az Osservatorio Letterario olvasóival is. Mindehhez még az a plusz is adódik, hogy mitteleurópai – ezen belül olasz eredetű – családtörténete még inkább gazdagítja és erősíti az olasz-magyar kapcsolatokat tudatosan ápoló, kétnyelvű periodikámat, amelynek – Judit édesapja szavait citálva –, törekvése az olasz és a magyar kultúra értékeinek egymáshoz közelítése, szinte összeolvasztása, amelynek révén új, értékes, szellemiségüket átható, megújuló alkotások születhessenek. Apa és lánya munkáinak olvasása és publikálása során egyre jobban kirajzolódott két kiváló szakmai felkészültségű, nagy műveltségű, sokat olvasott ember alakja akik, nagy büszkeségemre, kétség kívül gyarapítják az Osservatorio Letterario kiművelt kútfőinek táborát. Boldog születésnapot és köszönöm, hogy megismerhettelek Téged Édesapáddal egyetemben és többnemzetiségű családotok megható történetét. Számomra nagy ajándék, hogy olvashattalak-olvaslak Bennetek és hogy publikálhattam is Tőletek!
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OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove ANNO XVIII/XIX – NN. 101/102
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NOV.– DIC./GENN.–FEBBR. 2014/2015
EDIZIONI O.L.F.A.
Poesie Racconti Saggi
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